ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 6 e 8 del R.D.
16 marzo  1942,  n. 267  (Disciplina  del  fallimento, del concordato
preventivo,  dell'amministrazione  controllata  e  della liquidazione
coatta  amministrativa),  promossi  con  n. 4  ordinanze del 18 (n. 2
ordinanze),  del  29  e  del  27 maggio 2002 della Corte d'appello di
Venezia   e   del   5 ottobre   2002   del   Tribunale   di  Saluzzo,
rispettivamente iscritte ai nn. 348, 349, 368, 372 e 548 del registro
ordinanze 2002 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
nn. 33,  34,  35,  1ª serie speciale, dell'anno 2002 e nella edizione
straordinaria, 1ª serie speciale, del 27 dicembre 2002.
    Visti  gli  atti di costituzione della Valdefin s.p.a., Lifegroup
s.p.a.,  Researchlife  s.c.p.a.,  Dermalife  s.p.a.  e del Fallimento
Valdefin s.p.a., Fallimento Lifegroup s.p.a., Fallimento Researchlife
s.c.p.a. e Fallimento Dermalife s.p.a;
    Udito  nell'udienza  pubblica del 6 maggio 2003 e nella camera di
consiglio del 7 maggio 2003 il giudice relatore Romano Vaccarella;
    Uditi  gli  avv.ti  Elena Donzi per la Valdefin s.p.a., Lifegroup
s.p.a.,  Researchlife s.c.p.a., Dermalife s.p.a. e Nicola Picardi per
il   fallimento   Valdefin   s.p.a.,   Fallimento  Lifegroup  s.p.a.,
Fallimento Researchlife s.c.p.a. e Fallimento Dermalife s.p.a.

                          Ritenuto in fatto

    1. - Nel  corso  di  quattro  giudizi  di appello, promossi dalle
fallite  societa'  Valdefin  s.p.a.,  Lifegroup  s.p.a., Researchlife
s.c.p.a. e Dermalife s.p.a. nei confronti dei curatori dei rispettivi
fallimenti,  avverso  le  sentenze  del Tribunale di Padova, tutte in
data   29 aprile   1999,  con  le  quali  erano  state  rigettate  le
opposizioni  alle  dichiarazioni di fallimento, la Corte d'appello di
Venezia,  con  distinte  ordinanze,  recanti identica motivazione, ha
sollevato  questione  di  legittimita' costituzionale, in riferimento
all'articolo 111,  secondo comma, della Costituzione, dell'articolo 6
del  regio  decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento,
del  concordato  preventivo, dell'amministrazione controllata e della
liquidazione  coatta  amministrativa), nella parte in cui consente la
dichiarazione   d'ufficio   del   fallimento   dell'imprenditore,  in
violazione del principio di terzieta' del giudice.
    1.1. - In  punto  di  fatto, riferisce la Corte rimettente che il
fallimento  delle  quattro  societa'  appellanti era stato dichiarato
d'ufficio, con distinte sentenze in data 19 luglio 1996, a seguito di
ispezione  giudiziale  dell'amministrazione  delle medesime societa',
disposta  dal  Tribunale di Padova ai sensi dell'art. 2409 del codice
civile  con  decreto del 28 giugno 1996, dei cui risultati il giudice
delegato  all'istruzione della procedura aveva riferito al presidente
della  sezione,  il  quale,  a  sua  volta, lo aveva nominato giudice
delegato all'audizione dei legali rappresentanti, avviando, cosi', il
procedimento officioso.
    Nei rispettivi atti di appello - riferisce ancora la rimettente -
le  fallite  hanno  eccepito  l'illegittimita'  costituzionale  degli
articoli 6  e  8  del  richiamato  regio  decreto n. 267 del 1942 (di
seguito,  «legge fallimentare») in riferimento agli artt. 3, 24 e 101
Cost.; in sede di discussione della causa, poi, hanno evocato anche i
principi  dettati  dall'art. 111  Cost.,  come modificato dalla legge
costituzionale  23 novembre  1999, n. 2 (Inserimento dei principi del
giusto processo nell'articolo 111 della Costituzione).
    1.2. - Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte veneziana
osserva    che    il   principio   della   «terzieta»   del   giudice
costituzionalmente  sancito dal nuovo art. 111 Cost., richiede che il
giudice non solo agisca come terzo, ma appaia anche tale, «poiche' la
mancanza  di tale condizione esteriore e' sufficiente a compromettere
la   credibilita'  della  sua  funzione  di  garante  della  corretta
applicazione del diritto», e che detto principio non puo' prescindere
dalla  distinzione tra il soggetto che propone una domanda giudiziale
e quello che sulla stessa e' chiamato a pronunciarsi.
    Discende  da cio' - ad avviso della medesima Corte territoriale -
l'inderogabilita'    del   principio   della   domanda   e   la   non
compatibilita',  con  la garanzia costituzionale, dei procedimenti ad
iniziativa dell'organo giudicante.
    In   particolare  essa  rileva  che  l'art. 6  legge  fall.,  nel
prevedere  che  il  fallimento  possa  essere  dichiarato d'ufficio -
quando il giudice competente alla pronuncia, nell'esercizio della sua
attivita'  o per rapporto di altro giudice (a norma dell'art. 8 legge
fall.),  acquisisca  la  conoscenza  dello  stato di insolvenza di un
imprenditore  -  consente l'avvio del procedimento prefallimentare ad
iniziativa   dello  stesso  organo  giudicante,  sulla  base  di  una
delibazione  che  non  puo'  essere puramente formale, ma che implica
necessariamente  una  valutazione  sommaria di merito dei presupposti
legittimanti  l'iniziativa  medesima,  di modo che si da' avvio ad un
giudizio che non appare rispettoso del principio di terzieta'.
    Ne'  -  prosegue  la  Corte  rimettente  -  la  specialita' della
procedura     fallimentare,     giustificata    dalle    connotazioni
pubblicistiche  e  dalle esigenze d'urgenza che le sono proprie, puo'
assumere  rilevanza  in relazione al rispetto dell'indicato principio
tutelato dalla Carta fondamentale: le esigenze sottese all'iniziativa
officiosa  potrebbero  trovare sufficiente tutela nell'iniziativa per
la  dichiarazione  di fallimento affidata al pubblico ministero dallo
stesso  art. 6  legge  fall.,  alla  quale  deve riconoscersi portata
generale  e non limitata alle sole ipotesi considerate dal successivo
art. 7 legge fall.
    1.3. - Quanto alla rilevanza della questione, la Corte rimettente
osserva  che  essa discende da cio', che anche in grado di appello si
verte  sulla  legittimita'  dell'iniziativa  d'ufficio che ha portato
alla  dichiarazione  di fallimento delle societa' appellanti, esclusa
la quale l'appello dovrebbe essere accolto.
    1.4. - Si  sono ritualmente costituite le societa' appellanti, le
quali  con  identici  atti  di  costituzione,  deducono,  a  sostegno
dell'eccezione di incostituzionalita', che:
        a) le  norme  sul fallimento d'ufficio trascurano le garanzie
di  estraneita'  del  giudice  al  giudizio,  violando i principi del
giusto processo, recepiti anche dall'art. 6 della Convenzione europea
dei diritti dell'uomo;
        b) l'iniziativa officiosa per la dichiarazione di fallimento,
benche'  riconducibile  alla  previsione dell'art. 2907 cod. civ., di
fatto  appare  non  rispettosa  del  diritto  alla  difesa, garantito
dall'art. 24 Cost., giacche' a seguito di essa non si viene a formare
un  contraddittorio  vero  e  proprio,  in  mancanza  del sostanziale
controinteressato, che e' il ceto creditorio;
        c) il  procedimento officioso non si svolge nelle «condizioni
di   parita»,   volute   dall'art. 111   Cost.,  poiche'  il  giudice
procedente,  a differenza dell'imprenditore, riveste una posizione di
autorita' e di potere;
        d) l'organo  giudicante, nelle due fasi in cui si articola il
procedimento     (quella    preliminare    e    quella    conseguente
all'iniziativa),  svolge  una doppia cognizione sullo stesso oggetto,
costituito  dall'esistenza  dei  presupposti  per la dichiarazione di
fallimento,  sulla  base del medesimo materiale probatorio, senza che
la   parte  abbia  alcuna  possibilita'  di  interferire  attivamente
nell'ambito di una dialettica processuale;
        e) l'opposizione   alla   dichiarazione   di  fallimento  non
fornisce   una   adeguata  tutela  successiva,  poiche'  la  sentenza
dichiarativa  e' munita di forza esecutiva, che non viene meno se non
con il passaggio in giudicato dell'eventuale sentenza di revoca.
    Concludono   pertanto  le  appellanti  per  la  dichiarazione  di
illegittimita'   costituzionale   dell'art. 6  legge  fall.,  nonche'
dell'art. 8  legge  fall., essendo questa norma strettamente connessa
alla  prima,  a  fronte dei principi espressi negli artt. 3, 24 e 101
Cost. e ribaditi nell'art. 111 Cost.
    1.5. - Si  sono,  altresi', ritualmente costituiti i curatori dei
fallimenti, chiedendo che la questione di legittimita' costituzionale
sia dichiarata inammissibile o infondata.
    1.6. - In  prossimita'  dell'udienza,  le curatele dei fallimenti
hanno  depositato  memorie  di  identico  contenuto,  illustrando  le
ragioni   per  le  quali  hanno  concluso  per  la  dichiarazione  di
inammissibilita'  o  infondatezza  della  questione  di  legittimita'
costituzionale de qua.
    Osservano, in particolare, a sostegno dell'inammissibilita', che:
        a) i  fallimenti  delle societa' Lifegroup s.p.a. e Dermalife
s.p.a.,  come  si evince dalla motivazione delle rispettive sentenze,
sono  stati  dichiarati  su  istanze  di piu' creditori e non gia' di
ufficio,  sicche'  la  questione  relativamente a detti fallimenti e'
irrilevante;
        b) i  procedimenti  per  la  dichiarazione  dei fallimenti de
quibus  sono  stati  instaurati  a  seguito di segnalazione ex art. 8
legge  fall.  (che,  per  i  fallimenti  Lifegroup s.p.a. e Dermalife
s.p.a., si e' aggiunta alle istanze dei creditori), proveniente da un
giudice  diverso  dal  tribunale  che  ha  provveduto, e quindi da un
soggetto  «terzo»; sicche' non potrebbe dirsi violato il principio di
terzieta';
        c) l'art. 6   legge   fall.,  oggetto  della  questione,  non
dovrebbe  essere  applicato  nei  giudizi di appello pendenti dinanzi
alla Corte rimettente, in quanto la sua applicazione e' gia' avvenuta
ad  opera  delle  sentenze  dichiarative  dei  fallimenti, emesse dal
Tribunale  di  Padova  in  data  19 luglio  1996:  la  nullita' delle
anzidette   sentenze,   conseguente   alla   dedotta   illegittimita'
costituzionale,  avrebbe dovuto essere fatta valere con l'opposizione
ex  art. 18  legge fall.; non essendo cio' avvenuto, la rilevabilita'
del   vizio   e'  ormai  definitivamente  preclusa,  sicche'  nessuna
influenza puo' avere l'eventuale pronuncia di incostituzionalita' sui
giudizi di appello a quibus.
    Quanto  al  merito  della questione, le curatele osservano che le
deroghe  al  principio  della domanda, consentite dall'art. 2907 cod.
civ., non importano di per se' lesione dei principi costituzionali di
terzieta' e imparzialita' del giudice, come gia' chiarito dalla Corte
costituzionale con la sentenza 31 marzo 1965, n. 17.
    Al  riguardo,  in  dottrina  si e' affermato che l'iniziativa del
processo  e'  una sorta di variabile indipendente che il legislatore,
volta a volta, risolve, conferendone il potere a determinati soggetti
o addirittura all'ufficio.
    D'altro  canto, il nuovo art. 111 Cost. non ha innovato quanto ai
principi  di  terzieta'  e  imparzialita'  del giudice, giacche' essi
venivano  ricavati,  gia'  prima  della  legge  cost.  n. 2 del 1999,
dall'esame consequenziale degli artt. 3, 24, 25 e 101 Cost.
    Cio'   posto,  l'art. 6  legge  fall.,  come  interpretato  dalla
giurisprudenza  di  legittimita',  non  viola  affatto  i principi di
terzieta'   e   imparzialita'  del  giudice,  ora  affermati  (anche)
dall'art. 111  Cost.,  avendo la Corte di cassazione chiarito che «il
potere  di pronuncia di ufficio previsto dall'art. 6 legge fall., non
consente  al  tribunale  la  dichiarazione di fallimento d'ufficio in
base   ad   una   qualsiasi  conoscenza  ricevuta  di  uno  stato  di
insolvenza»; e, se e' vero che le ipotesi di iniziativa d'ufficio non
possono  restringersi ai soli casi espressamente previsti dalla legge
fallimentare (artt. 137, 138, 147, 162, 163, 173, 179, 181, 188, 192,
193),  tuttavia  e'  da  ritenere  che  il  tribunale  in tanto possa
assumere  un'iniziativa officiosa in quanto «acquisisca la conoscenza
di  un'insolvenza  imprenditoriale nell'esercizio della sua ordinaria
attivita»,  ovvero  attraverso  il  «rapporto di un altro giudice per
situazioni  emerse  in  altro  procedimento  giurisdizionale»  (Cass.
9 marzo 1996, n. 1876).
    2. - Nel   corso   di   un   procedimento  per  dichiarazione  di
fallimento,  promosso  nei  confronti  della societa' Effebi di Fusco
Antonello  e  C.  s.a.s.,  a seguito di rapporto ai sensi dell'art. 8
legge  fall.,  il  Tribunale  di Saluzzo, con ordinanza del 5 ottobre
2002,   solleva   questione   di   legittimita'   costituzionale,  in
riferimento  all'art. 111,  secondo  comma,  Cost., degli artt. 6 e 8
legge  fall.,  nelle  parti  in  cui  prevedono,  il  primo,  che  il
fallimento  possa  essere  dichiarato d'ufficio e, il secondo, che il
giudice debba riferire dell'insolvenza di un imprenditore, emersa nel
corso   di  un  giudizio  civile,  al  tribunale  competente  per  la
dichiarazione  di  fallimento,  anziche' al pubblico ministero presso
detto  tribunale,  cosi' violando i principi del «giusto processo», e
segnatamente quelli di terzieta' e imparzialita' del giudice, sanciti
dalla richiamata norma costituzionale.
    2.1. - Il  Tribunale rimettente espone, in punto di fatto, che un
giudice  dello  stesso  ufficio giudiziario, investito di una domanda
per  decreto ingiuntivo a carico della Effebi di Fusco Antonello e C.
s.a.s.,  ravvisava la sussistenza di elementi sintomatici dello stato
di  insolvenza  della debitrice e ne riferiva al presidente, ai sensi
del  citato  art. 8  legge  fall.  Nominato  il  giudice relatore per
l'audizione dei fallendi e l'istruttoria di rito, il Tribunale, prima
che si procedesse a tali incombenti, con ordinanza del 16 marzo 2001,
sollevava questione di legittimita' costituzionale nei termini di cui
innanzi.  La Corte costituzionale, con ordinanza n. 411 del 10 luglio
2002  (depositata  il  26 luglio  2002),  dichiarava inammissibile la
questione.  Preso  atto  di  cio', il giudice relatore procedeva alla
convocazione  del  socio accomandatario Antonello Fusco e, su decreto
collegiale,  all'assunzione  di  informazioni; all'esito, riferiva al
collegio.  Il Tribunale, quindi, pronunciava l'ordinanza in epigrafe,
con  la quale sollevava nuovamente identica questione di legittimita'
costituzionale   e   disponeva   la   sospensione   del  procedimento
prefallimentare.
    2.2. - Osserva il giudice rimettente che il principio ne procedat
iudex  ex officio, affermato in via generale dall'art. 2907 cod. civ.
e  dagli  artt. 99  e  112  del codice di procedura civile, trova una
delle  sue piu' rilevanti eccezioni nella legge fallimentare, laddove
l'art. 6  prevede  che il fallimento dell'imprenditore commerciale in
stato  di  insolvenza  possa  essere  dichiarato anche per iniziativa
autonoma  dello  stesso  tribunale  territorialmente  competente,  in
carenza  di esercizio della cosiddetta «azione fallimentare» da parte
di  soggetti  a  tanto  legittimati  (ossia  da  parte  di uno o piu'
creditori,  dello  stesso debitore o del pubblico ministero), diversi
dall'organo giudiziario chiamato a decidere.
    Osserva,  ancora,  che  il  potere  di  iniziativa  officiosa del
tribunale  e'  dotato dalla legge fallimentare di due (non esclusivi)
canali  di attivazione: il primo e' costituito dall'obbligo ex art. 8
legge  fall.  del  giudice  civile  di  riferire  circa  lo  stato di
insolvenza di un imprenditore, emerso nel corso di un giudizio in cui
questi  sia  parte; il secondo dall'obbligo ex art. 13 legge fall. di
trasmissione  al  presidente del tribunale degli elenchi dei protesti
cambiari per mancato pagamento.
    Osserva,   altresi',   che   andrebbero   tenute  distinte  dalla
fattispecie    prevista    dall'art. 6   legge   fall.,   in   quanto
caratterizzate  da  una situazione di mera doverosita', e percio' non
integranti   un  vero  e  proprio  esercizio  officioso  dell'«azione
fallimentare»,   le   ipotesi   di   «automatica»   dichiarazione  di
fallimento,   previste  nella  patologia  del  concordato  preventivo
(artt. 162, secondo comma, 163, secondo comma, 173, 179, 181, secondo
comma,   186,   terzo  comma,  legge  fall.)  e  dell'amministrazione
controllata  (artt. 192,  terzo  comma,  193,  secondo  comma,  legge
fall.).   Accanto   a  queste  andrebbero  collocate  le  ipotesi  di
dichiarazione   di   fallimento   di   grandi   imprese  soggette  ad
amministrazione  straordinaria  ex  art. 30  del  decreto legislativo
8 luglio   1999,   n. 270   (Nuova   disciplina  dell'amministrazione
straordinaria  delle  grandi  imprese in stato di insolvenza, a norma
dell'art. 1  della  legge 30 luglio 1998, n. 274), e di dichiarazione
di  stato  di  insolvenza  di  imprese soggette a liquidazione coatta
amministrativa  ex  art. 195, settimo comma, legge fall. e di imprese
soggette ad amministrazione straordinaria ex art. 3 del d.lgs. n. 270
del 1999.
    2.3. - Ad    avviso    del   rimettente,   l'orientamento   della
giurisprudenza  di  legittimita',  secondo  cui il tribunale, a norma
dell'art. 6  legge fall., non puo' dichiarare d'ufficio il fallimento
in  base alla conoscenza di uno stato di insolvenza in qualsiasi modo
ricevuta,  ma  - com'e' desumibile dall'art. 8 legge fall. - in tutte
le   ipotesi   in   cui   esso  tribunale  acquisisca  la  conoscenza
dell'insolvenza di un imprenditore nell'esercizio della sua ordinaria
attivita'  giurisdizionale,  ovvero  grazie  al  rapporto di un altro
giudice   per   situazioni   emerse   in   un   diverso  procedimento
giurisdizionale  (Cass.  9 marzo  1996,  n. 1876),  non  puo'  essere
condiviso, perche', da un lato, finisce col privare di ratio la norma
dell'art. 13   legge   fall.,   la   quale,  invece,  e'  preordinata
all'esercizio   officioso   dell'«azione  fallimentare»  in  assoluta
carenza   sia   di   domanda   di   parte  sia  di  previa  attivita'
giurisdizionale,  e,  dall'altro, non tiene conto che la segnalazione
del  giudice  civile  ex  art. 8 legge fall. in se' non e' diversa da
qualunque  altra  notizia  di  insolvenza  emersa  aliunde. Sostiene,
pertanto,  che  l'art. 6  legge  fall.  va interpretato nel senso che
l'iniziativa  officiosa  e'  attivabile  ogni qual volta il tribunale
apprenda  una  notitia  decoctionis  in  qualunque  modo,  non quindi
esclusivamente  attraverso  il  canale  informativo dell'art. 8 legge
fall.,   com'e'   -   a   suo   avviso  -  costante  indirizzo  della
giurisprudenza di merito.
    2.4. - Cosi'  delineato  il  quadro  normativo di riferimento, il
giudice  a  quo ritiene non manifestamente infondata la questione, in
quanto  i  principi  del  «giusto processo», introdotti nell'art. 111
Cost.  dalla  legge  costituzionale  23 novembre  1999,  n. 2  - gia'
rintracciabili  nella  Carta  costituzionale  attraverso  una lettura
combinata di altre norme (artt. 24, 25, 97, 101 e 106 Cost.) -, hanno
fatto  si'  che  ad  «una  presenza  diffusa  e  non  concettualmente
espressa»  dei  principi  di terzieta' e imparzialita' del giudice si
sostituisse  «l'attribuzione  di  autonoma dignita' costituzionale ai
caratteri  fondanti  il  "giusto  processo"»;  sicche'  la violazione
dell'imparzialita'  e  della  terzieta'  del  giudice assurge de iure
condito a vizio di incostituzionalita' non recuperabile altrimenti.
    Secondo  il  rimettente,  pertanto,  l'iniziativa  officiosa  del
tribunale  per  la  dichiarazione di fallimento, prevista dall'art. 6
legge  fall.,  confligge  con i principi di terzieta' e imparzialita'
del  giudice,  «di  cui  il  canone  nulla  iurisdictio  sine actione
costituisce   l'indefettibile  corollario  logico»:  il  concetto  di
terzieta'   e   imparzialita'  del  giudice  e'  connaturato  ad  una
dialettica  processuale tra una parte che dice e una che contraddice,
rispetto alle quali il giudice si trova in posizione di equidistanza,
e  viene  leso  quando  la  stessa  autorita' che deve decidere si e'
autonomamente attivata contro la parte cui il provvedimento decisorio
e'  destinato.  I principi di terzieta' e imparzialita' - prosegue il
giudice  rimettente  - «subiscono un'inevitabile compressione laddove
il  giudice  si  comporti  sostanzialmente  come  attore,  rischiando
percio' di condividere pregiudizialmente la prospettazione attribuita
ab  intra al caso da se' posto al proprio vaglio». Per di piu' - egli
aggiunge - il giudice non solo deve essere, ma deve apparire terzo ed
imparziale,  e  non  puo'  ammettersi  che  l'imprenditore chiamato a
difendersi  davanti  al  tribunale  che lo deve giudicare possa anche
soltanto dubitare della terzieta' e della imparzialita' del tribunale
medesimo.
    Il  giudice rimettente osserva, poi, che il paradigma del «giusto
processo»  ex  art. 111, secondo comma, Cost. risulta insidiato anche
sotto  il  profilo  del contraddittorio, giacche', dovendo il giudice
essere  «terzo», non e' piu' ipotizzabile un processo giurisdizionale
senza  (almeno) due parti contrapposte: ove manchi il contraddittorio
fra  parti  contrapposte,  come  avviene  nel  caso  del procedimento
prefallimentare  aperto  d'ufficio ex artt. 6 e 8 legge fall., in cui
di  fronte  al  debitore  non  vi  e' un legittimo contraddittore, il
convincimento  del  giudice  non  puo' dirsi immune da «pre»-giudizi,
«proprio perche' matura in una logica autoreferenziale sottratta alla
ginnastica  dialettica del contraddittorio coessenziale alla dinamica
del "giusto processo"».
    Ne' - prosegue ancora il giudice rimettente - si puo' superare il
problema,  ascrivendo il procedimento prefallimentare alla cosiddetta
«giurisdizione  volontaria»  o  qualificandolo  come  «processo senza
parti»,  dal  momento che la dichiarazione di fallimento comporta una
notevole  capitis  deminutio  dell'imprenditore,  la  quale  comprime
valori  di rilievo costituzionale; sicche' non puo' ammettersi che ad
essa   si   pervenga   attraverso  un'attivita'  giurisdizionale  non
modellata  sui  principi del «giusto processo», ancorche' sussista un
interesse  pubblico alla sollecita liquidazione coattiva dell'impresa
insolvente e alla sua eliminazione dal mercato.
    2.5. - La prospettata censura dell'art. 6 legge fall. - ad avviso
del   giudice   rimettente   -  rende  consequenziale  il  dubbio  di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 8 legge fall., nella parte in
cui  dispone  che  il  giudice  civile  debba riferire dello stato di
insolvenza   al   tribunale   competente   per  la  dichiarazione  di
fallimento,  anziche' al pubblico ministero presso di esso. Se a tale
tribunale  non  puo'  riconoscersi il potere di iniziativa officiosa,
sembra   piu'   conforme  al  paradigma  costituzionale  del  «giusto
processo»  ritenere  che la relazione del giudice civile debba essere
rivolta  non  al  tribunale, ma al pubblico ministero, essendo questo
l'organo  istituzionalmente preposto all'esercizio dell'azione civile
nei  casi  previsti  dalla legge, ai sensi dell'art. 75, primo comma,
del  regio  decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario),
nonche'  all'esercizio  dell'azione  diretta  per  fare  eseguire  ed
osservare  le leggi di ordine pubblico, a norma dell'art. 73, secondo
comma, dello stesso ord. giud.
    2.6. - Quanto  alla  rilevanza  della questione, il giudice a quo
osserva  che,  essendo  stata  espletata  l'istruttoria, la pronuncia
sull'insolvenza,  segnalata  ex  art. 8  legge fall., e' condizionata
alla soluzione del prospettato dubbio di costituzionalita'.

                       Considerato in diritto

    1. - I  giudizi  devono  essere  riuniti  per  la  loro  evidente
connessione.
    La   Corte   d'appello   di  Venezia  dubita  della  legittimita'
costituzionale  del  solo  art. 6  del  regio  decreto 16 marzo 1942,
n. 267   (Disciplina   del  fallimento,  del  concordato  preventivo,
dell'amministrazione   controllata   e   della   liquidazione  coatta
amministrativa),   laddove  il  Tribunale  di  Saluzzo  dubita  della
legittimita'  costituzionale  anche  dell'art. 8  dello  stesso regio
decreto  (di  seguito, «legge fallimentare»), entrambi in riferimento
all'art. 111, secondo comma, della Costituzione.
    Il  dubbio  investe  l'art. 6  legge  fall.,  nella  parte in cui
prevede  che  il  fallimento  possa  essere  dichiarato d'ufficio dal
tribunale,  e  l'art. 8 legge fall., in quanto prevede che il giudice
debba  riferire  dell'insolvenza di un imprenditore, emersa nel corso
di  un  giudizio civile, al tribunale competente per la dichiarazione
di fallimento, anziche' al pubblico ministero presso detto tribunale,
cosi'    derogando    al   principio   della   domanda,   costituente
«indefettibile   corollario  logico»  dei  principi  di  terzieta'  e
imparzialita' del giudice.
    2. - Preliminarmente,   devono   essere  esaminate  le  eccezioni
proposte  dalla  difesa  delle  curatele  dei fallimenti, volte a far
dichiarare inammissibile la questione sollevata dalla Corte d'appello
di Venezia.
    Tali eccezioni sono infondate.
    Quella  secondo  la  quale  i fallimenti delle societa' Lifegroup
s.p.a. e Dermalife s.p.a. sarebbero stati dichiarati anche su istanza
di  creditori  -  e,  pertanto,  non  d'ufficio - non considera che i
procedimenti  autonomamente  promossi  dai  creditori  non  risultano
formalmente  riuniti  a  quelli  promossi  d'ufficio e sfociati nelle
sentenze  dichiarative  di fallimento. E' vero che nelle due sentenze
dichiarative  si  fa  cenno  alle istanze dei creditori, ma del tutto
irritualmente,  come  confermano  le  circostanze  che  gli  atti  di
opposizione  a  tali  sentenze  sono  stati  notificati  soltanto  ai
curatori,  che  in  tali giudizi di opposizione non e' stata disposta
l'altrimenti   doverosa   (ex  art. 18,  terzo  comma,  legge  fall.)
integrazione   del   contraddittorio  nei  confronti  dei  «creditori
richiedenti»  e che, infine, le sentenze di rigetto delle opposizioni
non sono state emesse (anche) nei confronti di tali creditori.
    Ne consegue che anche i fallimenti della Lifegroup s.p.a. e della
Dermalife s.p.a. devono ritenersi dichiarati d'ufficio.
    Anche  l'eccezione,  secondo la quale la questione della nullita'
delle sentenze dichiarative di fallimento avrebbe dovuto essere fatta
valere  con l'opposizione ex art. 18 legge fall. e, pertanto, sarebbe
preclusa  in  sede  di  appello  sub specie di pretesa illegittimita'
costituzionale,  deve  essere  respinta, (se non altro) perche' dagli
atti  risulta  che  l'illegittimita' della dichiarazione officiosa fu
dedotta  dalle  societa'  fallite  con  l'opposizione  alla  sentenza
dichiarativa  (anche  -  ma  cio'  e'  irrilevante  -  denunciando il
contrasto  con  gli  artt. 3,  24  e  101  Cost.,  non essendo ancora
intervenuta la legge cost. n. 2 del 1999).
    3. - Le   questioni  di  legittimita'  costituzionale  poste  dai
giudici rimettenti non sono fondate.
    3.1. - Evidentemente  consapevoli  che questa Corte ha in passato
piu'  volte  statuito  che,  di  per  se',  eccezioni alla «regola ne
procedat  iudex  ex officio non importano lesione del principio della
imparzialita' del giudice» (sentenze n. 17 del 1965; n. 123 del 1970;
n. 148   del   1996)   e,  anzi,  ha  espressamente  riconosciuto  la
legittimita'  costituzionale di iniziative officiose (sentenza n. 133
del  1993) e, talvolta, le ha ripristinate (sentenze n. 41 del 1985 e
n. 46  del  1995),  sancendone  la  compatibilita'  con il valore del
«giusto  processo»,  entrambi  i  giudici  rimettenti  muovono  dalla
premessa  che  il  nuovo  art. 111 Cost., avendo attribuito «autonoma
dignita' costituzionale ai caratteri fondanti il giusto processo» (in
precedenza  allo  «stato  diffuso»  in  altre  norme costituzionali),
avrebbe reso assoluti i valori della terzieta' e della imparzialita',
e,  pertanto, rilevante la loro violazione pur se siano rispettate le
garanzie del contraddittorio e del diritto di difesa.
    3.2. - Questa  Corte  -  che, anteriormente alla legge cost. n. 2
del  1999,  aveva  ripetutamente  fatto  riferimento  al principio di
imparzialita-terzieta' come connaturale alla funzione giurisdizionale
(sentenze n. 93 del 1965; n. 41 del 1985; n. 148 del 1996; n. 351 del
1997; n. 363 del 1998) - ha, poi, chiarito che, quanto alla tutela di
tale  principio,  il  novellato  art. 111  Cost. non introduce alcuna
sostanziale innovazione o accentuazione (ordinanze n. 75 e n. 168 del
2002);  sicche'  meramente  nominalistico  appare l'argomento che, in
senso  contrario,  vorrebbe  dedursi dalla locuzione «giudice terzo e
imparziale»,  quasi  che  essa  sia  espressiva di un nuovo valore di
livello  costituzionale  e non gia' la sintesi di una serie di valori
che  connotano  il modo in cui, nel suo complesso, l'ordinamento deve
far si' che il giudice si ponga di fronte alla res iudicanda.
    4. - Certamente  contraria - ma altrettanto certamente gia' prima
della    legge    cost.   n. 2   del   1999   -   al   principio   di
imparzialita-terzieta'  e'  la  fusione,  in un unico soggetto, delle
funzioni  del  domandare  e  del giudicare sulla domanda, ma cio' non
implica    la   costituzionalizzazione   del   processual-civilistico
principio della domanda e il bando di qualsiasi iniziativa officiosa.
E,  in  effetti, le ordinanze di rimessione rivelano chiaramente come
il   «principio   della   domanda»   sia,  da  esse  stesse,  assunto
esclusivamente    nella    accezione    (ben   diversa   da   quella,
processual-civilistica   appunto,  che  ha  come  suo  corollario  il
principio  della  corrispondenza  tra  chiesto e pronunciato) per cui
soltanto  l'impulso  iniziale  al  procedere  deve  provenire  da  un
soggetto diverso da quello chiamato a giudicare.
    4.1. - La  circostanza  che,  ad espresso avviso del Tribunale di
Saluzzo  (e,  implicitamente, anche della Corte veneziana), non siano
sospettabili  di illegittimita' costituzionale le numerose ipotesi in
cui  la  legge  fallimentare  parla  di  dichiarazione  d'ufficio del
fallimento  in  relazione  al  concordato preventivo (artt. 162, 163,
173,  179,  181,  186  legge fall.) e all'amministrazione controllata
(artt. 188,  192  e 193 l. fall.) e' significativa del modo in cui e'
inteso  il  «principio della domanda»: il tribunale, che, respingendo
la   domanda  di  ammissione  all'amministrazione  controllata  o  al
concordato  preventivo,  dichiara d'ufficio il fallimento, certamente
pronuncia  extra  petita, e, pero', lo farebbe legittimamente perche'
investito  di  una  situazione (comprensiva del presupposto oggettivo
del   fallimento:   l'insolvenza,   ma   dedotta  o  come  temporanea
difficolta' di adempiere o come piu' proficuamente risolvibile con il
concordato)  prospettatagli dall'imprenditore; sicche' vi sarebbe pur
sempre ab externo l'impulso all'esercizio di poteri che il tribunale,
tuttavia,  non e' tenuto a mantenere nell'alveo segnato dalla domanda
di   parte.   E  quel  medesimo  impulso  iniziale  dell'imprenditore
giustifica,   in   assenza   di   qualsiasi   domanda  ulteriore,  la
dichiarabilita'  d'ufficio del fallimento in pendenza della procedura
ora  a  titolo  lato  sensu  «sanzionatorio»  (artt. 173  e 186 legge
fall.), ora prendendo atto del dissenso del ceto creditorio (art. 179
legge  fall.),  ora  perfino  andando di contrario avviso rispetto ai
creditori (art. 181 legge fall.).
    Il  «principio  della  domanda»,  al  quale  fanno  riferimento i
rimettenti,  e che sarebbe costituzionalizzato dal novellato art. 111
Cost.,  dunque,  si  identifica  con  un  qualsiasi  atto di impulso,
proveniente da soggetto diverso dal giudice, che sottoponga al di lui
giudizio  una situazione fattuale potenzialmente riconducibile (anche
se  dall'istante  non  ricondotta)  ai presupposti del fallimento: se
l'imprenditore  che  propone  il  concordato  preventivo esplicita lo
stato   d'insolvenza  in  cui  versa,  altrettanto  farebbe,  pur  se
qualificandolo    come    temporanea    difficolta'   di   adempiere,
l'imprenditore  che  chiede  di  essere  ammesso  all'amministrazione
controllata,  sicche'  le  due  ipotesi hanno in comune l'estraneita'
dell'impulso iniziale rispetto al giudice e si differenziano soltanto
per   la   diversa   qualificazione   giuridica   che  l'istante  da'
(nell'istanza  di  ammissione all'amministrazione controllata) ad una
situazione   di  fatto  che  il  giudice  e'  libero  di  valutare  e
qualificare come insolvenza.
    4.2. - Cosi'  delimitato  il  significato  del  «principio  della
domanda»,  al  quale  alludono  -  ritenendolo  «costituzionalizzato»
dall'art. 111  Cost.  -  i  giudici  rimettenti,  e'  evidente che si
sottrae alla censura di illegittimita' costituzionale ogni ipotesi in
cui   (come   ritenuto   dalla   giurisprudenza  di  legittimita)  la
dichiarazione   di   fallimento   intervenga   a  conclusione  di  un
procedimento   comunque  avviato  da  soggetto  diverso  dal  giudice
decidente:  dal  creditore sedicente o non legittimato o rinunciante,
ovvero dal pubblico ministero.
    4.3. - E'  opinione dominante in giurisprudenza e in dottrina che
l'art. 8  legge  fall. comprenda, oltre a quella in cui altro giudice
riferisca dell'insolvenza al tribunale (v. 4.4.), l'ipotesi in cui lo
stato  d'insolvenza  di  un  imprenditore emerga davanti al tribunale
competente  per  la  dichiarazione  di  fallimento; sicche' in questa
ipotesi   (diversa  dalla  vicenda  che  ha  originato  la  questione
sollevata  dal  Tribunale  di  Saluzzo,  ma - almeno apparentemente -
coincidente  con  quanto denunciato dalla Corte d'appello di Venezia)
si   pone   il  problema  della  identita'  del  giudice  che  assume
l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento con il giudice che su
tale iniziativa e' chiamato a pronunciarsi.
    Questa  Corte  ha  piu'  volte  osservato  che  «il  principio di
imparzialita-terzieta'    della   giurisdizione   ha   pieno   valore
costituzionale  con  riferimento  a  qualunque  tipo  di processo, in
relazione   specifica   al  quale,  peraltro,  puo'  e  deve  trovare
attuazione   con   le   peculiarita'   proprie  di  ciascun  tipo  di
procedimento»  (sentenza  n. 387  del  1999), sicche' l'identita' del
giudice  puo'  coniugarsi  con «la sua veste giurisdizionale e quindi
super  partes»,  senza  far si' che il giudice agisca, e appaia, come
l'attore  del  procedimento  sul  quale  giudica (sentenza n. 148 del
1996).
    Il  costante  orientamento  di questa Corte, in altri termini, e'
nel senso che anche l'iniziativa officiosa - prevista dal legislatore
in  ragione  di  peculiari  esigenze  di  effettivita'  della  tutela
giurisdizionale   -   non   lede   il   fondamentale   principio   di
imparzialita-terzieta'   del   giudice,  quando  il  procedimento  e'
strutturato  in  modo che, ad onta dell'officiosita' dell'iniziativa,
il  giudice  conservi  il  fondamentale  requisito  di soggetto super
partes ed equidistante rispetto agli interessi coinvolti.
    Tale   fondamentale  requisito  del  giudice  sarebbe  certamente
compromesso ove al tribunale fallimentare fosse consentito, come pure
in   passato   si   e'   ritenuto,   di  promuovere  il  procedimento
prefallimentare  sulla  base  di  una  notitia  decoctionis  comunque
acquisita,  ma  non  puo'  dirsi compromesso ove la conoscenza di una
situazione di fatto in ipotesi riconducibile allo stato di insolvenza
derivi  (non  gia'  da quella che, attesa l'informalita' della fonte,
ben  puo'  definirsi scienza privata del giudice, bensi) da una fonte
qualificata,   perche'   formalmente   acquisita   nel  corso  di  un
procedimento,  del  quale  il giudice sia, come tale, investito: come
conferma  la  ben  diversa formulazione degli artt. 6 e 8 legge fall.
rispetto alla corrispondente norma (art. 688) del codice di commercio
(che  autorizzava  il  tribunale a dichiarare d'ufficio il fallimento
«se  sia  notorio  o  se  per altri mezzi siavi sicura notizia che un
commerciante abbia cessato di fare i suoi pagamenti»).
    In  tale ipotesi, e solo in tale ipotesi, il giudice investito di
un   procedimento,  del  quale  sia  parte  (o  al  quale,  comunque,
partecipi)   l'imprenditore,   puo'   legittimamente   acquisire   la
conoscenza  di  una  situazione  di  fatto, delibata positivamente la
quale  deve  avviare  la  procedura prefallimentare e giudicare, dopo
aver  consentito  all'imprenditore  il pieno esercizio del diritto di
difesa in relazione ai fatti delibati, della fondatezza della notitia
decoctionis.
    Infatti il tribunale, acquisita, nelle forme di legge, la notizia
di  una situazione di fatto nella quale si profilano i presupposti di
cui  agli  artt. 1  e  5  legge fall. e delibatane la consistenza, e'
tenuto  ad  aprire il procedimento per accertare la sussistenza degli
anzidetti   presupposti,   senza  avere  alcuna  discrezionalita'  al
riguardo,  essendogli del tutto preclusa dalla legge ogni valutazione
di opportunita': in simile ipotesi, quindi, l'iniziativa officiosa e'
«doverosa»,  non  meno  che  nelle  specifiche  ipotesi (sub 4.1.) di
dichiarazione   di   fallimento   d'ufficio   previste   dalla  legge
fallimentare.
    Le  prevalenti  finalita'  pubblicistiche,  che caratterizzano la
procedura fallimentare (sentenze n. 141 e n. 142 del 1970, n. 110 del
1972,  n. 148 del 1996), impongono al tribunale di attivarsi anche in
assenza  di  un'iniziativa  di  parte,  dando  cosi'  attuazione alla
volonta'  della  legge,  che  ha gia' valutato, preventivamente e una
volta  per  tutte,  l'interesse pubblico sotteso; di tal che non puo'
dubitarsi  che  il  tribunale, procedendo d'ufficio, «agisca non come
attore,  ma  nella  sua  veste giurisdizionale e quindi super partes»
(sentenza n. 148 del 1996).
    Ed  e'  solo all'esito della successiva attivita' istruttoria, da
espletarsi   nel  pieno  rispetto  delle  garanzie  difensive  e  del
principio  del  contraddittorio, che puo' pervenirsi all'accertamento
dei   presupposti  del  fallimento:  e'  da  escludere,  dunque,  che
l'imprenditore,  convocato  in camera di consiglio, possa trovarsi di
fronte ad un giudice che abbia gia' maturato il suo convincimento (il
«convincimento di un giudice-attore», per usare ancora un'espressione
della  sentenza  n. 148  del 1996), questo dovendo formarsi dopo, non
gia' prima, dell'atto di iniziativa officiosa.
    L'esigenza  che  il  tribunale  sia  formalmente  investito di un
procedimento  dal  quale  emerga  lo  stato  di insolvenza giustifica
pienamente  - oltre alla dichiarazione d'ufficio connessa a procedure
concorsuali  minori  (retro  4.1.)  -  la  estensione  d'ufficio  del
fallimento   della  societa'  ai  soci  illimitatamente  responsabili
(art. 147  legge  fall.),  mentre  la  medesima  conclusione non puo'
essere  tratta  a  proposito  dell'art. 13  legge  fall.: tale norma,
infatti, si limita a prevedere che il presidente del tribunale - come
tale  non investito di alcuna «ordinaria attivita' giurisdizionale» -
riceva  l'elenco  dei protesti levati nei quindici giorni precedenti,
e,  pertanto,  si  limita  a  far  acquisire un elemento istruttorio,
utilizzabile  (dal  collegio)  ove  sia  legittimamente  iniziato  il
procedimento,  disponendo  l'audizione del fallendo (ordinanza n. 411
del 2002).
    Analogamente,  non  puo'  dirsi  legittimamente  investito  di un
procedimento  il  singolo magistrato componente di un collegio, se al
collegio  soltanto  la legge riconosce la qualita' di giudice e se il
collegio   soltanto,   quindi,   puo'   legittimamente   acquisire  e
legittimamente  delibare la notitia decoctionis (nel caso di cui alle
ordinanze  di rimessione nn. 348, 349, 368 e 372 del 2002, fornita da
un  ispettore  nominato  ex art. 2409, secondo comma, cod. civ.): non
puo'  certamente  riconoscersi  - ove la legge non riservi al singolo
componente  del  collegio  (ad  es.,  al  giudice istruttore) una sua
propria  funzione  -  ne' al relatore ne' al presidente del collegio,
uti  singuli,  la  qualita'  di giudice, sicche' soltanto al collegio
spetta  il  potere  di disporre l'audizione del fallendo, in tal modo
determinando l'inizio del procedimento. E' del tutto ovvio, peraltro,
che l'eventuale iniziativa adottata da singoli magistrati, e non gia'
dal   giudice   (id   est,  dal  collegio),  non  pone  questioni  di
legittimita'  costituzionale  degli  artt. 6  e 8 legge fall., bensi'
questioni  di  legittimita'  del  procedimento devolute al giudice di
merito.
    4.4. - A    maggior    ragione    si    sottrae    alla   censura
d'incostituzionalita'    l'ipotesi    (esplicitamente    disciplinata
dall'art. 8  legge  fall.)  in  cui  un  giudice civile - diverso dal
tribunale competente per la dichiarazione di fallimento - riferisca a
quest'ultimo  dell'insolvenza  emersa nel corso di un giudizio civile
davanti   a  lui  pendente  e  del  quale  sia  parte  l'imprenditore
insolvente.
    Non e' revocabile in dubbio, infatti, che in questa ipotesi si e'
in  presenza  di una notitia decoctionis non soltanto «formalizzata»,
ma  acquisita  ab  externo,  sicche'  e'  escluso  in  radice  che il
tribunale,  essendo  chiamato  ad  accertare  con  pienezza di poteri
l'esistenza  dei  presupposti  (soggettivo  e  oggettivo)  che  altro
giudice - investito come tale di un procedimento giurisdizionale - si
e'  limitato  a  sommariamente  delibare,  possa assumere, anche solo
apparentemente, la veste di attore.
    5. - In  conclusione,  gli artt. 6 e 8 legge fall., correttamente
interpretati,   non   confliggono   con  la  denunciata  norma  della
Costituzione,   rientrando  nella  discrezionalita'  del  legislatore
riconoscere  al  giudice  il  potere officioso sopra descritto ovvero
disporre  che  il  giudice  riferisca  in  ogni caso dell'insolvenza,
perche' si attivi, al pubblico ministero.