ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  per  conflitto  di  attribuzione sorto a seguito della
sentenza  della  Corte  di  Cassazione  sez.  3°  penale,  n.204  del
23 gennaio  2001,  che,  disapplicando  l'art. 4  della legge Regione
Lombardia  19 novembre  1999,  n. 22,  ha  annullato  l'ordinanza del
Tribunale  di  Sondrio  del  28 luglio  2000,  relativa  al sequestro
preventivo  di  un cantiere edile, promosso con ricorso della Regione
Lombardia, notificato il 24 maggio 2001, depositato in Cancelleria il
5 giugno 2001 ed iscritto al n. 16 del registro conflitti 2001.
    Visto  l'atto  di  costituzione  del Presidente del Consiglio dei
ministri;
    Udito   nell'udienza  pubblica  del  20 maggio  2003  il  giudice
relatore Giovanni Maria Flick;
    Uditi l'avvocato Giuseppe Franco Ferrari per la Regione Lombardia
e  l'avvocato  dello  Stato  Franco  Favara  per  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Con  ricorso  depositato  il  5  giugno 2001,  la  Regione
Lombardia  ha  sollevato  conflitto di attribuzione nei confronti del
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri, in relazione alla sentenza
della  Corte di cassazione, sezione terza penale, del 23 gennaio 2001
(depositata  il  7 marzo 2001), n. 204, lamentando «una inammissibile
lesione   di   specifiche   prerogative  regionali,  con  conseguente
violazione degli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione «;
e  chiedendo  che questa Corte «voglia dichiarare che non spetta allo
Stato,  e per esso alla Corte di cassazione, disapplicare la norma di
legge  regionale  di  cui  all'art. 4, comma 3, della legge regionale
[della Lombardia] n. 22 del 1999».
    La   Regione  ricorrente  premette  che  la  sentenza  citata  ha
annullato  senza  rinvio l'ordinanza con cui il Tribunale di Sondrio,
sezione  del  riesame,  aveva  a  sua  volta  annullato il decreto di
sequestro   preventivo   di   un   cantiere   edile,  in  esito  alla
contestazione  del  reato  di  costruzione  edilizia  in  assenza  di
concessione,   ai   sensi  dell'art. 20,  lettera.  b),  della  legge
28 febbraio 1985 n. 47; e che, in particolare, la Corte di cassazione
aveva ritenuto inaccoglibile la tesi - fatta propria dal Tribunale in
sede  di  riesame  e condivisa dalla ricorrente - della insussistenza
dell'ipotesi  di  reato,  in  ragione  del disposto dell'art. 4 della
legge della Regione Lombardia 19 novembre 1999, n. 22: norma che, per
la  tipologia  di  opere  edilizie  oggetto dell'imputazione, avrebbe
sostituito  il  regime  della  concessione edilizia di cui alla legge
n. 47  del  1985  con  quello  della  denuncia  di  inizio  attivita'
(D.I.A.), «regolarmente eseguita nella fattispecie in esame»..
    2.  -  Secondo  la  Regione,  la  citata  norma  di  legislazione
regionale  -  prevedendo la serie di interventi edilizi subordinati a
denuncia  di  inizio di attivita' - avrebbe espressamente sancito che
essa  si  applica  (comma  3)  «...  a  tutti  gli interventi edilizi
definiti  nell'allegato  A  della  deliberazione  di Giunta Regionale
n. 6/38573 del 25 settembre 1998, [...] purche' conformi alla vigente
strumentazione  urbanistica comunale»: e cio' con l'evidente scopo di
ampliare  il  novero degli interventi soggetti alla semplice denunzia
iniziale, mediante l'applicazione di tale norma anche agli interventi
di  nuova  costruzione,  alla  sola condizione della loro conformita'
alla vigente strumentazione urbanistica comunale. Invece, la Corte di
cassazione,  con  la  pronuncia  in  argomento, avrebbe ritenuto - in
netto  contrasto  con la vigente legislazione regionale - che, per le
opere  eseguite  nella  fattispecie  sottoposta  al  suo  esame e, in
generale,  per  «ogni  intervento  di  nuova edificazione», il regime
concessorio  non  potesse  essere  sostituito  dalla mera denuncia di
inizio  attivita',  in forza di asseriti «principi fondamentali della
legislazione   urbanistica   statale»,  cui  la  normativa  regionale
andrebbe ricondotta, ai sensi dell'art. 117 della Costituzione.
    In  particolare,  nella  sentenza  in  questione,  la  Cassazione
avrebbe  individuato tali principi desumendoli sia dall'art. 19 della
legge n. 241 del 1990, come modificato dall'art. 2 della legge n. 537
del  1993,  secondo cui per le concessioni edilizie l'atto di assenso
non  potrebbe  essere  sostituito  da  una  mera  denunzia  di inizio
attivita';  sia  dall'art. 2,  comma 60, della legge n. 662 del 1996,
nella  parte  in  cui restringe l'ambito di applicazione della D.I.A.
agli  interventi edilizi di minor rilievo. In realta', a parere della
Regione,  la  Cassazione  avrebbe  «operato  un'illegittima invasione
nelle  competenze  regionali in materia urbanistica, disapplicando la
normativa  lombarda  in  nome  di  generiche esigenze di riconduzione
della  medesima  nell'alveo  dei  principi  fondamentali enunciati da
leggi  dello  Stato»:  cosi'  violando  le prerogative costituzionali
della   Regione  ed  «arrogandosi»  il  potere  di  disapplicare  una
disposizione  di legge regionale, in quanto ritenuta in contrasto con
la norma costituzionale di cui all'art. 117.
    3.  -  Piu' specificamente, la Regione lamenta come il giudice di
legittimita'   -   «scontrandosi  con  l'inequivoco  dato  letterale»
dell'art. 4,  comma 3,  della citata legge regionale n. 22 del 1999 -
abbia ritenuto che la norma «autolimiterebbe la propria applicazione»
ai  soli  interventi  di  recupero  di immobili e di realizzazione di
nuovi  parcheggi:  cosi'  negando,  in  radice,  la  possibilita'  di
avvalersi  della  D.I.A.  per  gli  interventi  di nuova costruzione,
benche'  ricompresi  nell'elenco  del  gia'  citato  Allegato A) alla
deliberazione  di  Giunta regionale n. 6/38573 del 25 settembre 1998.
Pertanto  -  assume  la  ricorrente  -  «indipendentemente  da quanto
testualmente  previsto  dall'art. 4», la Cassazione «e' pervenuta, in
sostanza, alla sua disapplicazione», affermando cosi' l'obbligo della
Regione  a sottrarre in ogni caso gli interventi di nuova costruzione
al  regime  della denuncia di inizio attivita', in forza dei principi
fondamentali  stabiliti  dalle  leggi dello Stato; e postulando cosi'
«l'esistenza  di un precetto diverso da quello voluto dal legislatore
regionale».
    Ad avviso della Regione, «cio' che si contesta non e' un error in
iudicando commesso dalla Suprema Corte, bensi' un difetto assoluto di
giurisdizione  della  magistratura ordinaria, che non puo' sostituire
una  propria  determinazione  a quella del legislatore»: a costituire
fondamento  del  conflitto non sarebbe, cioe', «l'uso illegittimo» di
un  potere  comunque  spettante  all'autorita'  giudiziaria;  quanto,
piuttosto,  «una  vera  e  propria interferenza nell'azione regionale
idonea a condizionare l'attribuzione che in quell'azione si esprime e
si  svolge, mediante atti non consentiti al giudice». Quest'ultimo si
sarebbe  espresso  in  ordine  alla costituzionalita' di una norma di
legge regionale fino al punto da disapplicarla, cosi' pervenendo alla
«negazione  implicita  dell'intrinseca natura legislativa dell'atto»:
il   che   integrerebbe   «un   errore   sui   confini  stessi  della
giurisdizione».
    Sotto  tale  profilo,  secondo la Regione, risulterebbero violate
numerose  norme della Carta fondamentale e, segnatamente, l'art. 127,
«quanto  meno  dal  punto di vista procedimentale»; l'art. 101, nella
parte  in  cui  vincola i giudici alla legge; l'art. 134, che riserva
alla    Corte   costituzionale   il   giudizio   sulla   legittimita'
costituzionale delle leggi statali e regionali.
    4.  -  La ricorrente ritiene inoltre che, con la sentenza oggetto
del  conflitto, sarebbe stata anche «operata un'inammissibile lesione
del  potere  legislativo  regionale  nella materia urbanistica». Essa
rileva   come  la  giurisprudenza  di  questa  Corte  abbia  ritenuto
possibile la lesione delle attribuzioni regionali attraverso pronunce
di  organi  giurisdizionali,  «ove queste espressamente dichiarino di
disapplicare le leggi emanate dalle regioni, ovvero si attengano, nel
giudizio   che   sono   chiamate  ad  esprimere,  ad  interpretazioni
palesemente erronee e, quindi, di fatto meramente apparenti».
    Nel   caso   di  specie,  il  potere  giurisdizionale  esercitato
determinerebbe,   in   concreto,   «un'illegittima   compressione  di
un'attribuzione regionale ed un'altrettanto illegittima espansione di
altra  attribuzione statale»: cio' in quanto la materia «urbanistica»
rientra  tra  quelle  su  cui  la  Regione ha potesta' legislativa ed
amministrativa;   e   tali   potesta'   sono  tutelate  non  soltanto
dall'art. 117   Cost.   (ambito   materiale)   e  127  Cost.  (ambito
procedimentale),  ma  anche  da  tutta  una  normativa  la quale - in
attuazione  dei  principi  di decentramento e di semplificazione - ha
espressamente  statuito che «la disciplina legislativa delle funzioni
e  dei  compiti conferiti alle Regioni ... spetta alle Regioni quando
e'  riconducibile alle materie di cui all'art. 117, primo comma della
Costituzione»   (art. 3  della  legge  n. 59  del  1997,  c.d.  legge
Bassanini).  Dalla  «pretesa», da parte della Corte di cassazione, di
«modificare  il  vigente  dettato  normativo», si' da «sostituirsi al
legislatore»,   discenderebbe   -   conclude   la  ricorrente  -  una
inammissibile  lesione  delle  prerogative regionali: con conseguente
violazione  degli  artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione.
Ne', in senso contrario, varrebbe l'obiezione secondo cui gli effetti
della  sentenza  in  questione sarebbero limitati all'oggetto di quel
giudizio,  «cosi' che la legge regionale n. 22 del 1999 continuerebbe
a  spiegare  la  sua  efficacia  in  via  generale»; infatti, sarebbe
sufficiente la disapplicazione di una disposizione di legge «anche in
un  solo caso», per determinare la rilevata lesione delle prerogative
regionali  costituzionalmente tutelate, con conseguente necessita' di
annullamento della sentenza oggetto del conflitto.
    5. - Si e' costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  deducendo l'inammissibilita' e l'infondatezza delle doglianze
espresse  nel  ricorso. La difesa erariale evidenzia come la sentenza
oggetto   del   conflitto  rechi  «una  interpretazione  delle  norme
vigenti»,  dalle  quali  non  possono  di  certo  essere  escluse  le
norme-quadro  statali:  con  la  conseguenza che la Regione Lombardia
avrebbe, in realta', proposto una «inammissibile impugnazione avverso
sentenza  legittimamente  resa  dalla  Suprema  Magistratura penale».
D'altra  parte,  secondo  l'Avvocatura,  l'esegesi della disposizione
legislativa   regionale   adottata   dalla   ricorrente  risulterebbe
incompatibile  con il principio fondamentale della legislazione dello
Stato  che  sancisce  l'esclusiva  competenza  statale  in materia di
repressione    penale,   poiche'   l'eliminazione   dello   strumento
concessorio, a beneficio della denuncia di inizio attivita', verrebbe
ad  incidere  sulle  fattispecie  penali  (assenza della concessione,
totale   difformita',   variazioni  essenziali)  che  ad  esso  fanno
riferimento.
    6. - Con  memoria  depositata  in  prossimita'  della udienza, la
Regione  ricorrente  ha  richiamato  e  sviluppato  ulteriormente  le
considerazioni  gia'  poste  a  fondamento del ricorso, sottolineando
come,  nel caso in esame, sarebbe altresi' «riscontrabile un evidente
abuso  anche  nel  concreto  esercizio  del  potere  giurisdizionale,
connesso all'interpretazione palesemente erronea che la Suprema Corte
ha  fornito  della  norma  di legge regionale applicabile nel caso de
quo,  vale  a  dire dell'art. 4, comma 3, legge regionale n. 22/1999,
anche in raffronto ai principi desumibili dalle leggi dello Stato».

                       Considerato in diritto

    1. - La  Regione  Lombardia propone conflitto di attribuzione nei
confronti  dello  Stato, in relazione alla sentenza pronunciata dalla
Corte  di  cassazione,  sezione  terza  penale,  il  23 gennaio 2001,
n. 204,  con  la  quale e' stato disposto l'annullamento senza rinvio
dell'ordinanza del Tribunale del riesame di Sondrio del 28 luglio del
2000,  che  aveva  a  sua  volta  annullato  il  decreto di sequestro
preventivo   di   un   cantiere   edile,  disposto  a  seguito  della
contestazione  del  reato  di  costruzione  in assenza di concessione
edilizia, a norma dell'art. 20, lett. b), della legge n. 47 del 1985.
La  Corte  regolatrice,  infatti, « in netto contrasto con la vigente
legislazione  regionale»,  avrebbe  ritenuto  -  sulla  base  di  una
asserita  necessita'  di  riconduzione  della  normativa regionale ai
principi  fondamentali  della legislazione urbanistica statale - che,
per  le  opere  eseguite  nella  vicenda  sottoposta al suo esame, il
regime  concessorio  non  potesse  essere  sostituito  dalla semplice
denuncia  di  inizio  di attivita'. In tal modo - sostiene la Regione
ricorrente  -  la Corte di cassazione avrebbe operato una illegittima
invasione   nelle   competenze   regionali  in  materia  urbanistica,
disapplicando   la  disciplina  legislativa  regionale  «in  nome  di
generiche  esigenze  di  riconduzione  della  medesima nell'alveo dei
principi  fondamentali  enunciati  da  leggi  dello  Stato»; cosi' da
vulnerare «gravemente ... le prerogative costituzionali» della stessa
ricorrente.
    2. - Il conflitto non e' ammissibile.
    Come  osserva  la stessa ricorrente, questa Corte ha affermato in
piu'  occasioni  che anche gli atti giurisdizionali sono suscettibili
di essere posti a base di un conflitto, non soltanto tra poteri dello
Stato,  ma  anche  tra  Regioni  e  Stato:  sempre  che, tuttavia, il
conflitto  stesso  non  si  risolva  in  un  improprio  strumento  di
sindacato   e  di  censura  del  modo  di  esercizio  della  funzione
giurisdizionale,   assumendo   le   connotazioni   di   un  mezzo  di
impugnazione atipico. Una eventualita', quest'ultima, la cui evidente
patologia  risulterebbe aggravata dalla circostanza che lo scrutinio,
in  tal  modo  impropriamente richiesto a questa Corte, finirebbe per
sovrapporsi  a  quello  gia'  operato in sede giurisdizionale, con un
perimetro  decisorio  peraltro neppure coincidente e nel quadro di un
contrasto tra enti, diversi dalle parti del procedimento nel quale e'
stato adottato l'atto posto a base del conflitto.
    Ove,  dunque, relativamente a norme sostanziali o processuali, si
intendano  far  valere  vizi  o  errori di giudizio, gli unici rimedi
attivabili    possono   essere   quelli   previsti   dall'ordinamento
processuale  nel  quale  l'atto  di  giurisdizione  concretamente  si
iscrive.   Se   cosi'   non  fosse,  il  giudizio  costituzionale  si
trasformerebbe  in  un  nuovo  grado  di giurisdizione avente portata
generale:  «avendo infatti per lo piu' le situazioni soggettive delle
Regioni   base   diretta   o  almeno  indiretta  in  norme  di  rango
costituzionale  attributive di competenza - ha osservato questa Corte
-  la gran parte dei motivi di doglianza da parte delle stesse contro
decisioni   giurisdizionali   finirebbe   per   potersi   trasformare
automaticamente  in motivo del ricorso per conflitto di attribuzione,
con  evidente  forzatura  dei  caratteri  propri  di  quest'ultimo  e
alterazione dei rapporti tra la giurisdizione costituzionale e quella
riconosciuta  a istanze giurisdizionali non costituzionali» (sentenza
n. 27 del 1999).
    Perche'  sia  dunque  ammissibile  un  conflitto di attribuzione,
quando  a base della vindicatio sia posto un atto giurisdizionale, e'
necessario  che  da  parte del potere o dell'ente - che da quell'atto
pretende   di   aver  subito  una  lesione  nella  propria  sfera  di
attribuzioni   costituzionali   -  «sia  contestata  radicalmente  la
riconducibilita'  dell'atto  che determina il conflitto alla funzione
giurisdizionale  ... ovvero sia messa in questione l'esistenza stessa
del potere giurisdizionale nei confronti del soggetto ricorrente» (v.
la sentenza citata ed altre ivi richiamate).
    Alla  luce  di  tali  principi,  emerge con chiarezza come, nella
specie,  le  doglianze  prospettate  dalla ricorrente non integrino i
presupposti  di  cui  si  e'  detto.  Infatti,  la Regione stessa non
contesta  tanto  una  vera  e  propria «disapplicazione» di una norma
regionale, quanto piuttosto una «interpretazione palesemente erronea»
di  essa  da  parte  della  Corte di cassazione, la quale «ha fornito
un'interpretazione  alquanto  restrittiva  del  citato articolo 4 ...
fino a sostanzialmente disapplicarlo, almeno parzialmente».
    Orbene,  a  tale  interpretazione  restrittiva - nell'individuare
quale fosse la norma applicabile nel procedimento incidentale a quo -
la  Corte  di  cassazione  e'  pervenuta  attraverso  un  argomentare
tipicamente  interpretativo,  mediante  il  riferimento a «ragioni di
ordine testuale, razionale e sistematico» (cosi' la motivazione della
sentenza); e cio' ha fatto riferendosi, nella motivazione, non gia' a
principi  fondamentali da essa individuati aliunde - per formulare in
base  a  questi  ultimi,  come  sembra  ritenere  la  ricorrente,  un
inammissibile sindacato di disapplicazione per incostituzionalita' ex
art. 117  Cost.  -  bensi'  a  quei  principi  fondamentali enunciati
espressamente proprio dall'art. 4 commi 1 e 2 della legge regionale.
    Si   versa,   pertanto,   in   un  contrasto  avente  ad  oggetto
esclusivamente   la   portata   da   annettere  ad  una  proposizione
ermeneutica,  la quale, per di piu', promana, nella ipotesi in esame,
proprio   da   parte   dell'organo   che   -   a  norma  dell'art. 65
dell'ordinamento   giudiziario  -  e'  chiamato  ad  assicurare  «...
l'esatta   osservanza   e  l'uniforme  interpretazione  della  legge,
l'unita'  del  diritto  oggettivo  nazionale,  il rispetto dei limiti
delle diverse giurisdizioni ...». La situazione e' quindi ben diversa
da  quella  scrutinata  nella  sentenza  n. 285  del 1990 (piu' volte
evocata   dalla   Regione   ricorrente),   ove   un  abnorme  «potere
disapplicativo»   di   leggi   regionali  fu  espressamente  posto  a
fondamento  del  provvedimento  giurisdizionale, costituendone non un
passaggio  dell'iter  argomentativo,  ma  la dichiarata essenza della
ratio decidendi.