IL TRIBUNALE Letti gli atti del proc. pen. n. 40584/2001 R.G. iscritto a nome di Leofreddi Adriano; O s s e r v a Il sig. Leofreddi e' stato tratto a giudizio, con decreto di citazione in data 13 luglio 2001, per rispondere dei reati di ricettazione e truffa. Il capo d'imputazione non precisava quale fosse il locus commissi delicti della ricettazione e quale fosse quello della truffa, nel senso che non distingueva tra i due fatti, ma si limitava ad indicare un unico luogo di commissione, e pero' la precisazione era necessaria poiche', ricorrendo un'ipotesi di connessione di procedimenti a normadell'art. 12 lettera b) c.p.p. (reati commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso), solo sulla scorta di quella indicazione il giudice avrebbe potuto verificare se la competenza per territorio determinata dalla connessione gli apparteneva. Invero, ove la ricettazione (reato piu' grave) fosse stata commessa in un luogo soggetto alla competenza per territorio di un diverso giudice, la competenza a conoscere di quel reato e del reato di truffa (meno grave) sarebbe spettata a quel diverso giudice ex art. 16, primo comma c.p.p. Omettendo di indicare il locus commissi delicti della ricettazione, il p.m. ha sottratto al giudice del dibattimento il potere di accertare la propria competenza, o meglio (il che costituisce la ragione della presente decisione) gli ha impedito di rilevare la propria incompetenza nel termine previsto dall'art. 21, terzo comma c.p.p. Piu' esattamente, l'omissione in parola ha impedito al giudice di rilevare tempestivamente l'inosservanza delle disposizioni di ordinamento giudiziario relative alla ripartizione tra sede principale e sezioni distaccate dei procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione monocratica, e cioe' di rilevarla entro il termine previsto dall'art. 163-bis disp. att. c.p.p. E' risultato, infatti, che l'assegno oggetto dell'ipotizzata ricettazione fu consegnato dal Leofreddi al sig. Chiavarini in Genzano di Roma e non gia' in Ariccia, cosicche', ove fossero state svolte le opportune indagini preliminari, sarebbe stato agevole concludere che la competenza a conoscere di entrambi i reati spettava (ai sensi dell'art. 9, primo comma c.p.p.) al giudice cui, in applicazione delle disposizioni di ordinamento giudiziario ricordate, e' riservata la cognizione dei reati commessi in Genzano di Roma. Giova evidenziare che Ariccia e' unicamente il luogo di residenza dell'imputato e che, pertanto, l'indicazione di quel luogo era non solo erronea con riferimento al luogo di commissione del fatto, ma altresi' arbitraria con riferimento all'individuazione del giudice competente, giacche' il criterio della residenza dell'imputato e' solo residuale. L'accertamento della circostanza anzidetta (ricezione dell'assegno in Genzano) e' avvenuto per effetto della testimonianza della persona offesa, mai sentita nelle indagini preliminari, e dunque l'incompetenza per territorio di questo giudice (rectius: l'inosservanza delle disposizioni di ordinamento giudiziario menzionate dall'art. 163-bis disp. att. c.p.p.) non poteva essere rilevata entro il termine previsto dalla legge. Si ribadisce che il mancato rilievo tempestivo non e' dipeso da disattenzione delle parti o del giudice, ma unicamente dalle omissioni e dagli errori del p.m. di cui si e' detto. Riassunti cosi' i termini della questione, e atteso che il Presidente del tribunale (rectius: il Presidente della sezione penale del tribunale) ha respinto (ritenendoli tardivi) i rilievi formulati da questo giudice ai sensi dell'art. 163 disp. att. c.p.p. (decreto 29 novembre 2002), sembrano ricorrere le condizioni per dubitare della legittimita' costituzionale dell'art. 163-bis disp. att. c.p.p., per il sospetto contrasto con gli articoli 3 e 25, primo comma Cost. Sembra infatti irragionevole una disposizione che subordini la rilevabilita' dell'inosservanza delle disposizioni di ordinamento giudiziario circa la ripartizione degli affari tra sede principale e sezioni distaccate alla condizione che cio' avvenga prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, anche nei casi in cui il rilievo sia impossibile per difetto di qualsivoglia elemento di cognizione atto a consentirlo. Invero, se il giudice dovesse rilevare la questione sulla scorta delle sole indicazioni contenute nel capo d'imputazione, la norma (ma la considerazione vale evidentemente anche per l'art. 21, commi secondo e terzo c.p.p.) potrebbe trovare applicazione esclusivamente nel caso in cui fosse stato indicato ab origine, cioe' fin dal decreto di citazione, come luogo di commissione del fatto un luogo estraneo al territorio del giudice investito. E' arduo supporre che il legislatore abbia voluto riferirsi unicamente a questa ipotesi paradossale. Dunque la norma andrebbe emendata nel senso che il rilievo dovrebbe ritenersi consentito oltre il termine, se la circostanza su cui si fonda non poteva ricavarsi da alcun elemento conoscibile (prima) dal giudice. E' il caso di aggiungere che se la previsione di un termine di «decadenza» per l'eccezione d'incompetenza per territorio puo' ritenersi giustificata con riguardo alle parti private, giacche' esse hanno diritto di prendere visione del fascicolo relativo alle indagini preliminari e sono comunque in condizione di formulare deduzioni circa il luogo di commissione del fatto o altri dati incidenti sulla competenza per territorio, non altrettanto puo' dirsi con riguardo al giudice, giacche' il giudice non ha alcun accesso al fascicolo delle indagini preliminari e ne ignora totalmente gli esiti, cosicche' non e' dato intendere in che modo il giudice potrebbe mai essere in condizione di rilevare che il fatto sia stato commesso in un luogo diverso da quello indicato nel capo d'accusa. D'altronde la nozione stessa di «decadenza» implica un riferimento a diritti delle parti piuttosto che a poteri del giudice. In conclusione non sembra manifestamente infondato dubitare della ragionevolezza di una disposizione (art. 163-bis disp. att. c.p.p.) che, nella sua letteralita', attribuisce al giudice un potere destinato a non trovare spazio di esercizio se non nell'ipotesi paradossale che fin dal capo d'imputazione sia stato indicato quale luogo di commissione del fatto un luogo diverso da quello che giustifica l'investitura di quel giudice secondo le regole di ripartizione degli affari tra i giudici del medesimo tribunale, e non sembra manifestamente infondato dubitare che detta disposizione consenta di eludere disinvoltamente il principio di precostituzione del giudice. Lo scrivente non ignora, ovviamente, che con l'istituzione del giudice unico, e' erroneo, a stretto rigore, ravvisare una violazione del principio del giudice naturale precostituito, allorquando il giudice investito «di fatto» sia diverso da quello che doveva essere investito «di diritto», se entrambi sono «il medesimo tribunale». Ma l'argomento mostra intuitivamente i suoi limiti poiche' proprio il fatto che una accresciuta pluralita' di magistrati siano diventati formalmente lo stesso giudice (il tribunale), impone di attribuire alle «disposizioni di ordinamento giudiziario relative alla ripartizione ... un'accresciuta valenza di norme a presidio del «giudice naturale» piu' di quanto non si sia gia' ritenuto, in passato, con riguardo alle attribuzioni delle funzioni in via «tabellare».