IL TRIBUNALE

    Sciogliendo  la riserva assunta all'udienza del 9 luglio 2003 nel
procedimento  penale  a  carico  di  Vicedomini  Michele + 3, in atti
generalizzati, ha emesso la seguente ordinanza.

                              F a t t o

    Gli  imputati  Vicedomini  Michele  (28  giugno 1935), Vicedomini
Assunta,  Vicedomini Antonio, Vicedomini Marziano sono stati tratti a
giudizio,  in  forza di decreto emesso dal pubblico ministero in data
12  settembre  2001,  per rispondere dei reati di cui agli artt. 110,
582  e  612  commessi in danno di Vicedomini Michele (3 luglio 1935),
piu' compiutamente descritti nei capi d'imputazione.
    Vi e' stata costituzione di parte civile della persona offesa dai
reati.
    Il  procedimento  era  stato  rinviato  all'odierna  udienza  per
l'esame delle persone la cui citazione era stata disposta dal giudice
in forza di ordinanza emessa ai sensi dell'art. 507 c.p.p.
    Introdotto  il  giudizio  per la sua trattazione, la difesa degli
imputati ha chiesto di sospendersi il procedimento ai sensi di quanto
previsto dall'art. 5, comma 2, della legge 12 giugno 2003, n. 134.
    Il pubblico ministero non si e' opposto alla richiesta e la parte
civile si e' rimessa alle valutazioni del giudice.

                               Diritto

    La  sospensione  del  procedimento  invocata  dalla  difesa degli
imputati   e'   stata,   come   anticipato  in  premessa,  introdotta
dall'art. 5,  della  legge  12  giugno  2003  n. 134 che, nella parte
d'interesse, stabilisce:
        comma  I:  «l'imputato,  o il suo difensore munito di procura
speciale,   e  il  pubblico  ministero,  nella  prima  udienza  utile
successiva  alla  data  di entrata in vigore della presente legge, in
cui  sia  prevista  la  loro  partecipazione,  possono  formulare  la
richiesta  di  cui  all'art. 444 del codice di procedura penale, come
modificato  dalla  presente legge, anche nei processi penali in corso
di  dibattimento  nei  quali,  alla  data  di entrata in vigore della
presente  legge,  risulti  decorso il termine previsto dall'art. 446,
comma 1, del codice di procedura penale, e cio' anche quando sia gia'
stata presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso da parte
del  pubblico  ministero  o la richiesta sia stata rigettata da parte
del  giudice,  e  sempre  che la nuova richiesta non costituisca mera
riproposizione della precedente.»
        comma  II:  «su  richiesta  dell'imputato  il dibattimento e'
sospeso  per  un  periodo  non  inferiore a quarantacinque giorni per
valutare  l'opportunita'  della richiesta e durante tale periodo sono
sospesi i termini di prescrizione e di custodia cautelare.»
Profili di ammissibilita' della richiesta di sospensione.
    Appare   prodromico,   alla  delibazione  imposta  dal  comma  2,
dell'art. 23,  della  legge 11 marzo 1953 n. 87, la risoluzione della
questione   attinente   all'ammissibilita'   della   richiesta   come
formulata.
    Innanzitutto  va  osservato che l'istanza di sospensione e' stata
tempestivamente  proposta,  in  quanto  formulata nella prima udienza
utile  successiva  all'entrata  in  vigore  della  legge  n. 134/2003
(vigente dal 29 giugno 2003).
    In secondo luogo, deve considerarsi sussistente la legittimazione
alla  sua  formulazione  da  parte  del  difensore, pur non munito di
procura speciale.
    Invero   l'attribuzione  della  facolta'  di  proposizione  della
richiesta  di  sospensione  all'imputato  non  puo' essere intesa nel
senso di escludere analoga legittimazione al suo difensore.
    In  tal  senso militano una serie di argomentazioni. Innanzitutto
l'art. 99 del codice di rito penale stabilisce al primo comma che «al
difensore  competono  le  facolta' e i diritti che la legge riconosce
all'imputato,  a  meno  che  essi  siano  riservati  personalmente  a
quest'ultimo».
    Questo  principio  generale  -  che  attribuisce  al difensore un
generalizzato  potere di rappresentanza del suo assistito - consente,
in  primo  luogo,  di ritenere che la previsione dell'art. 5, secondo
comma,  della  legge  n. 134/2002  vada  interpretata  nel  senso  di
ritenere che l'attribuzione della legittimazione all'imputato non sia
significativa  di  una  esclusione per il difensore dall'esercizio di
analoga facolta'.
    In  senso  contrario  non  appare  conferente l'osservazione (pur
affacciatasi negli articoli dei primi commentatori ed in alcuna delle
prime  pronunce  giurisprudenziali)  secondo  cui  la natura di norma
transitoria  dell'art. 5  e  l'eccezionalita'  dei  principi  da esso
introdotti  richiederebbero  un'interpretazione restrittiva della sua
previsione.  Stando a quest'opinione, infatti, la soluzione in parola
sarebbe  sostenuta sia dall'osservazione che mentre il primo comma di
questo articolo fa riferimento all'imputato ed al difensore munito di
procura  speciale,  il  secondo  comma menziona il solo imputato, sia
dalla  considerazione  che  dalla  proposizione  della  richiesta  di
sospensione  deriva  l'effetto  della cristallizzazione medio tempore
dei termini di prescrizione e di custodia cautelare (la cui incidenza
sulla    posizione   dell'imputato   esigerebbe   una   sua   diretta
manifestazione  di  volonta) sia, infine, dall'assunto secondo cui la
previsione  dell'art. 99  c.p.p.  varrebbe  per le sole disposizioni,
originariamente o successivamente, inserite nel tessuto del codice di
rito.
    Tutte  queste  argomentazioni  appaiono confutabili. Innanzitutto
proprio  l'estensione  al  difensore  munito  di procura speciale del
diritto  di  richiedere  un'applicazione di pena per il suo assistito
(con  gli  irretrattabili  effetti che dall'esecuzione della sanzione
discendono   sull'imputato)   renderebbe,  di  contro,  illogica  una
limitazione   al   solo   imputato  della  facolta'  di  chiedere  la
sospensione    del    procedimento    per    valutare   semplicemente
l'opportunita'  di accedere alla richiesta di definizione alternativa
del giudizio.
    Invero,  proprio  l'attivita'  processuale  che,  a  ben  vedere,
maggiormente   inciderebbe   sullo   status  dell'assistito,  sarebbe
esercitabile  anche  attraverso un procuratore a differenza di quella
che,   rispetto   alla  prima,  costituisce  solamente  un  prodromo,
peraltro, eventuale.
    In  secondo  luogo, la «cristallizzazione» temporanea dei termini
di  prescrizione  e  di custodia cautelare durante il tempo in cui il
procedimento rimane sospeso non costituisce un novum del procedimento
penale,  ma  al contrario e' operante in altre situazioni in cui tale
effetto e' ricollegato alla sola scelta del difensore.
    Si  pensi  ai casi in cui l'udienza di un procedimento penale non
venga  tenuta per legittimo impedimento del difensore (determinato da
un  suo concomitante impegno professionale o dalla partecipazione del
patrocinatore  all'astensione  dalle  udienze  promossa  dalla classe
forense).
    In tutti questi casi e' incontestata l'incidenza della scelta del
difensore  sullo  status  del  suo  assistito,  essendo  prevista  la
sospensione  dei  termini  di  prescrizione  e, se del caso, anche di
quelli di custodia cautelare.
    Ne'  un  tale  risultato comporta un pregiudizio insuperabile per
l'imputato,  dal  momento  che  questi, ai sensi dell'art. 99 c.p.p.,
puo'  togliere  effetto,  con una manifestazione di volonta' di segno
contrario,  all'atto compiuto dal difensore prima che sia intervenuto
un provvedimento del giudice.
    Infine,  non appare assolutamente condivisibile l'assunto secondo
cui  l'art. 99  farebbe  riferimento  alle  sole  norme del codice di
procedura  penale,  dal  momento  che testualmente la disposizione fa
richiamo alla «legge» e non alle sole disposizione codicistiche.
    Va,  peraltro,  osservato  che  nell'ambito  stesso del codice di
procedura   penale,   allorquando   il  legislatore  ha  inteso  fare
riferimento  in  via  esclusiva  all'imputato  ha  sempre  utilizzato
l'avverbio   «personalmente»   per   evidenziare,   anche  sul  piano
letterale,  la  restrizione all'esercizio di facolta' (cfr. artt. 46,
secondo  comma, 419, quinto comma, 438, terzo comma, 446, terzo comma
e 571 c.p.p.).
    Nel  caso  che  ci occupa, infine, appare decisiva la circostanza
fattuale della presenza degli imputati in udienza che, alla richiesta
del  loro  difensore,  non  hanno  manifestato  una volonta' di segno
contrario.
    Va,  pertanto,  ritenuta  ammissibile  la richiesta formulata dal
difensore degli imputati ancorche' non munito di procura speciale.
Profili   di   illegittimita'   costituzionale  della  norma  di  cui
all'art. 5 della legge n. 134/2003.
Indicazione delle norme costituzionali violate.
    Ad  opinione di questo giudicante la disposizione prima riportata
dell'art. 5,  primo  e secondo comma, della legge n. 134/2003 si pone
in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 secondo comma, periodo finale,
della  Costituzione  nella  parte in cui, tra i procedimenti in corso
alla  data  della  sua  entrata  in  vigore,  per  i quali prevede la
possibilita'   di   formulare   o   rinnovare  la  richiesta  di  cui
all'art. 444  c.p.p.  nonostante  sia  decorso  il  relativo  termine
previsto  dal  codice  di  rito,  non  ricomprende  anche  i  giudizi
instaurati ai sensi dell'art. 550 c.p.p.
Rilevanza della questione e sua proposizione ex officio.
    La   presente  questione  di  legittimita'  costituzionale  viene
proposta  d'ufficio  ai  sensi  del  terzo comma, dell'art. 23, della
legge  n. 87/1953,  non  essendo  la  stessa stata oggetto di censura
avanzata dalla difesa.
    Innanzitutto  la  questione  appare rilevante, dal momento che la
richiesta  di  sospensione  del procedimento costituisce una facolta'
preliminare alla successiva ed eventuale formulazione dell'istanza di
patteggiamento e, pertanto, una declaratoria d'inammissibilita' della
richiesta   -   che   intervenisse   oggi   e   che   fosse   fondata
sull'inapplicabilita' della previsione dell'art. 5, comma 1, anche ai
procedimenti  in  corso  instaurati  nelle  forme di cui all'art. 550
c.p.p. - impedirebbe agli imputati di fruire di un termine necessario
per  compiere  la  valutazione  sull'opportunita'  di  richiedere  il
patteggiamento e, dunque, comporterebbe per gli stessi la preclusione
ad  accedere,  ancora in questa fase del giudizio, ad una definizione
del  processo  a  loro  carico  in  cui potrebbero beneficiare di una
sensibile riduzione del trattamento sanzionatorio.
Non manifesta infondatezza della questione.
    I  commi primo e secondo (quest'ultimo per il suddetto legame con
la  prima  disposizione,  ora  evidenziato  in  sede  di  esame della
rilevanza   della  questione)  dell'art. 5  della  legge  n. 134/2003
appaiono  contrastare  innanzitutto  con  l'art. 3 della Costituzione
nella   parte   in   cui   ingiustificatamente  escluderebbero  dalla
riapertura  dei  termini  per  la  proposizione  del patteggiamento i
giudizi   incardinati   in   forme   diverse   da  quelli  richiamati
nell'art. 446, primo comma, del codice di procedura penale.
    Come  gia'  riportato,  il  primo  comma dell'art. 5, della legge
n. 134/2003  stabilisce  che e' possibile «... formulare la richiesta
di  cui  all'art. 444 del codice di procedura penale, come modificato
dalla   presente  legge,  anche  nei  processi  penali  in  corso  di
dibattimento nei quali, alla data di entrata in vigore della presente
legge,  risulti  decorso  il  termine  previsto  dall'art. 446, primo
comma, del codice di procedura penale».
    Orbene,  la  disposizione  da  ultimo menzionata indica i termini
decadenziali  per  la proposizione dell'istanza di applicazione della
pena  ai sensi dell'art. 444 c.p.p. esclusivamente con riferimento ai
procedimenti  per  i  quali  sia  prevista l'udienza preliminare, per
quelli  incardinati con giudizio direttissimo e per quelli introdotti
nelle  forme del giudizio immediato. Nulla dispone con riferimento al
termine  per  la  richiesta di patteggiamento nei giudizi a citazione
diretta.
    Per   questi   ultimi,   infatti,   la  previsione  e'  contenuta
nell'art. 555,  secondo  comma c.p.p., che prevede la possibilita' di
avanzare la richiesta di giudizio abbreviato o di patteggiamento fino
a  quando  non  sia  intervenuta  la  dichiarazione  di  apertura del
dibattimento.
    Richiamando  quanto  sopra osservato circa l'eccezionalita' della
previsione   dell'art. 5,   primo   comma,   legge  n. 134/2003  che,
«riaprendo»  il  termine  per  la  proposizione  della  richiesta  di
patteggiamento,  va  interpretata  restrittivamente  (dal momento che
introduce una deroga ad una previsione tassativa della legge ai sensi
dell'art. 173, primo comma c.p.p.), appare evidente che la rimessione
in  termini  non puo' analogicamente applicarsi anche ai procedimenti
pendenti  introdotti da citazione diretta a giudizio per i quali gia'
risulti,   come   nella   specie,   gia'  dichiarata  l'apertura  del
dibattimento.
    Se,  dunque,  l'ostacolo  normativo  non appare superabile in via
interpretativa,  resta da chiedersi se il riferimento del legislatore
ai  soli casi richiamati dall'art. 446, primo comma c.p.p. sia frutto
di  una scelta specifica e se essa appaia ragionevole alla stregua di
quelle espresse in casi simili.
    Non  ignora  questo  rimettente che la giurisprudenza del Giudice
delle   leggi   ha   ormai  accolto  una  nozione  del  principio  di
ragionevolezza  (sulla quale viene chiamato ad esprimere un giudizio)
che  e'  disancorato da quello di uguaglianza di cui all'art. 3 della
Costituzione.
    Infatti  nella  relazione  annuale  del 2001 del Presidente della
Corte  si  e'  evidenziato  che  «la  giurisprudenza  della Corte, in
passato,  era  orientata  nel  senso  di  ricondurre  il principio di
ragionevolezza   all'interno   della   previsione  dell'art. 3  della
Costituzione  che  afferma - come noto - il principio di uguaglianza;
di modo che la norma irragionevole era costituzionalmente illegittima
in   quanto   apportatrice  di  irragionevoli  discriminazioni.  Come
conseguenza  di  siffatta  impostazione era necessario, per accertare
l'irragionevolezza della norma, che fosse individuato il c.d. tertium
comparationis.
    Una  volta  affiancato  il  principio  di  ragionevolezza sia dal
principio   di   uguaglianza,   sia   dalla   ricerca   del   tertium
comparationis,  la  Corte  ne  ha  poi potuto affermare la violazione
anche  in  assenza  di  una sostanziale disparita' di trattamento tra
fattispecie  omogenee,  allorche'  la  norma  presenti una intrinseca
incoerenza,  contraddittorieta'  od  illogicita' rispetto al contesto
normativo  preesistente (sentenza n. 450) o rispetto alla complessiva
finalita' perseguita dal legislatore (sentenza n. 416).»
    Il  piu'  recente  approdo,  di questo Supremo Giudice, e' stato,
pero',  nel  senso  di  offrire un chiarimento alla portata di questo
tipo di valutazione, evidenziando quali siano comunque i limiti della
stessa. Invero nella relazione del 2002 del Presidente si e' posto in
risalto come «applicando il criterio della ragionevolezza, il giudice
delle  leggi non puo' contrastare con una propria diversa valutazione
la   scelta   discrezionale   del   legislatore:   il   controllo  di
costituzionalita'  dovendosi arrestare alla verifica che, rispetto al
fine,  il  mezzo  prescelto  non  sia palesemente incongruo (sentenza
n. 190);  ovvero limitarsi alla verifica del «corretto uso del potere
normativo»  (sentenze  nn. 169  e  180),  la'  dove  si evidenzia una
carenza  di  causa  o  ragione  della disciplina censurata, che, come
tale,  implica  quindi  un  vizio  della  legge,  appalesandosi  come
espressione  di  un  uso distorto della discrezionalita' legislativa,
siccome   fondato  sulla  irragionevole  differenziazione  ovvero,  a
seconda  dei  casi, sulla irragionevole omologazione delle situazioni
poste a raffronto (sentenza n. 171).
    Alla  luce  del  principio  di  eguaglianza,  la dichiarazione di
illegittimita'  serve dunque a ripristinare la parita' violata ovvero
ad  eliminare  quei  trattamenti  deteriori  rispetto  ad  altri, che
determinano   discriminazioni,  assolutamente  prive  di  ragionevole
giustificazione, nei confronti di alcune categorie di soggetti.».
    Dunque,   alla   stregua   di   quanto   affermato   dalla  Corte
costituzionale  la  limitazione operata dal legislatore con l'art. 5,
primo  comma  ai  soli  procedimenti  pendenti  di cui alle categorie
richiamate  dall'art. 446,  primo  comma  c.p.p.  (laddove  non la si
voglia  invece considerare frutto di un'ennesima dimenticanza) appare
affetta    da    irragionevolezza    sia    perche'   intrinsecamente
contraddittoria,  sia  perche'  immotivatamente  distonica rispetto a
previsioni  normative  pregresse  intervenute  con  analoga finalita'
deflattiva,  sia  infine  perche'  introduttiva  di  evidenti  e  non
giustificate disparita' di trattamento tra posizioni omogenee.
    Innanzitutto  se  si vuole ritenere - come pure il dato letterale
della  disposizione  sembrerebbe  prima facie suggerire attraverso il
richiamo  alla «richiesta di cui all'art. 444 del codice di procedura
penale,  come  modificato dalla presente legge,» - che il legislatore
abbia  inteso  consentire  la  riapertura dei termini di proposizione
della  richiesta  di  patteggiamento ai soli procedimenti per i quali
originariamente  questo  tipo di definizione non era ipotizzabile (in
virtu'  dell'originario  tetto  di due anni di pena detentiva fissato
dall'art. 444  c.p.p.), detta opzione ermeneutica appare contraddetta
dall'ulteriore  inciso del primo comma dell'art. 5 legge n. 134/2003,
che  esplicitamente  allarga  la previsione anche ai casi in cui «...
sia stata gia' presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso
da parte del pubblico ministero o la richiesta sia stata rigettata da
parte  del  giudice  e  sempre che la nuova richiesta non costituisca
mera riproposizione della precedente».
    Appare,  infatti,  evidente  che  il  richiamo del legislatore e'
operato  anche  a  quei  procedimenti  per  i  quali  era  ab  initio
ipotizzabile  una  definizione  del  procedimento  nelle forme di cui
all'art. 444  c.p.p.  e  che non siano stati definiti in questa forma
per  una  delle  ragioni  sopra  citate.  Al  riguardo  va, peraltro,
evidenziato  che  non  e'  possibile  ipotizzare  che il dissenso del
pubblico  ministero  od  il  rigetto del giudice siano intervenuti su
richieste  avanzate,  nel  primo  caso, dall'imputato e, nel secondo,
concordate  dalle parti, per l'applicazione di una pena che superasse
i   due   anni   di   pena  detentiva.  In  tal  evenienza  (peraltro
difficilmente  ipotizzabile)  il  provvedimento  richiesto dal p.m. o
pronunciato  dal  giudice  sarebbe  stato  quello di una declaratoria
d'inammissibilita' (e non un dissenso o la pronuncia di rigetto).
    Inoltre  non  e'  nemmeno  sostenibile  che  il legislatore abbia
introdotto  quest'inciso  solo  per  far  richiamo  ai casi in cui la
formazione  del  consenso  da  parte  del  pubblico  ministero  o  la
pronuncia  della  sentenza  di  cui  all'art. 445 c.p.p. da parte del
giudice   non   siano  intervenuti  sol  perche'  la  pena  richiesta
dall'imputato,  limitata  ai  due  anni  di detenzione, non sia stata
ritenuta stricto sensu congrua.
    Invero,  il  dissenso  del  pubblico  ministero od il rigetto del
giudice  in un'ipotesi del genere avrebbero ben potuto appuntarsi, ad
esempio,  sulla richiesta subordinazione della istanza di definizione
alla  concessione  del beneficio della sospensione condizionale della
pena.   In   tal   caso   nessun  ostacolo  normativo  si  opporrebbe
all'applicazione  anche  ad  un'ipotesi  di  tal  fatta  (laddove, ad
esempio,  questa  richiesta  venga  rimossa  nella nuova formulazione
dell'istanza)  della riapertura del termine per la proposizione della
richiesta di applicazione della pena.
    Se,   dunque,   non  puo'  dubitarsi  della  riferibilita'  della
previsione  dell'art. 5,  comma  1,  della legge n. 134/2003 anche ai
procedimenti  aventi  ad  oggetto  reati  che avrebbero potuto essere
definiti   con   richiesta   di  patteggiamento  anche  alla  stregua
dell'originaria  previsione  dell'art. 444  c.p.p.  (o per i quali la
richiesta,  pur  avanzata,  non e' stata raccolta) appare illogica la
scelta  di  restringere  detta  facolta'  solo ad alcune categorie di
procedimenti.
    A  sostenerla  non  concorre  nemmeno la considerazione in ordine
alla maggiore pericolosita' sociale dei reati oggetto delle categorie
di procedimenti richiamati dall'art. 446, primo comma c.p.p.
    Invero,   questa   spiegazione   non   varrebbe   a  giustificare
l'esclusione  dalla previsione della norma censurata per reati quali,
ad  esempio,  quelli  previsti dagli artt. 624 e 625 c.p., 648 c.p. e
349  capoverso  del  codice  penale,  tutti  richiamati dall'art. 550
c.p.p. e puniti con sanzioni particolarmente elevate.
    Non  giustifica, infine, questa differenza di trattamento nemmeno
la  considerazione  del tempo trascorso dal momento in cui e' scaduto
il  termine  riconosciuto  all'imputato  per  l'esercizio  della  sua
facolta' di richiedere il patteggiamento.
    Se,    invero,    questa   distinzione   potrebbe   con   qualche
significativita' richiamarsi con riferimento ai termini stabiliti per
i  procedimenti  provenienti  da  udienza  preliminare  e  quelli  da
giudizio  immediato,  lo  stesso  non  potrebbe sostenersi per quelli
fissati  all'esito  della  convalida  nel  giudizio  direttissimo nei
quali,  pure,  il  termine  decadenziale  e' quello dell'apertura del
dibattimento.
    Ne',  sempre con riferimento a questi ultimi, potrebbe osservarsi
che,  in  tal caso, detta fase viene ad instaurarsi immediatamente o,
al  piu',  dopo  cinque  o  dieci  giorni (a seconda della competenza
monocratica    o   collegiale)   dalla   contestazione   del   fatto,
restringendosi  cosi'  i tempi entro i quali l'imputato puo' valutare
di   richiedere   il   patteggiamento.  Di  contro,  nell'ipotesi  di
procedimenti a citazione diretta, l'imputato potrebbe fruire del piu'
ampio  termine  di  60  giorni  (cui si andrebbe ad aggiungere quello
cagionato  dai rinvii del dibattimento in fase preliminare) per poter
compire questa scelta.
    Analogamente   potrebbe  opinarsi,  pero',  pure  nei  casi  (non
infrequenti)  di  procedimenti  che  vedano  protrarsi in piu' sedute
l'udienza  preliminare  e  nei  quali  solo  in  fase  di conclusioni
l'imputato  manifesti  la volonta' di richiedere l'applicazione della
pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p.
    Orbene,  accanto a ragioni che fanno apparire non giustificata la
disparita'   di  trattamento  cagionata  dalla  ristretta  previsione
dell'art. 5, primo comma della legge n. 134/2003 si pongono ulteriori
censure di illegittimita' costituzionale della norma sotto il profilo
della  sua irragionevolezza, ora intesa come «illogicita' rispetto al
contesto normativo preesistente o rispetto alla complessiva finalita'
perseguita dal legislatore.»
    Sotto tale profilo puo' farsi riferimento ad altri due precedenti
interventi  normativi con cui il legislatore, nel porre la disciplina
transitoria  per  l'entrata  in  vigore  di modifiche processuali, ha
colto  l'occasione per realizzare anche una funzione deflattiva delle
pendenze giudiziarie.
    Un  primo  evidente esempio e' quello rappresentato dall'art. 224
del  d.lgs.  19 febbraio 1998 n. 51. Questa disposizione, senza porre
alcuna  distinzione  in  base  alle  varie tipologie di procedimento,
aveva  previsto  la  riapertura dei termini per la proposizione della
richiesta  di  cui  all'art. 444  c.p.p.  purche'  la  stessa venisse
formulata  nella  prima udienza successiva alla data di efficacia del
decreto.
    Analogamente   l'art. 223  del  medesimo  testo  normativo  aveva
consentito  di formulare la richiesta di rito abbreviato per tutte le
tipologie  di  procedimenti  a  condizione  che  non  fosse  iniziata
l'istruzione dibattimentale.
    Il  secondo  esempio  e' offerto dalla previsione dell'art. 4-ter
del  decreto-legge 7 aprile 2000 n. 82 convertito con modifiche nella
legge 5 giugno 2000 n. 144.
    Questa  disposizione  prevedeva la possibilita' per l'imputato di
richiedere  la  definizione  del  procedimento  nelle  forme del rito
abbreviato modificato dal d.lgs. n. 479/1999 per tutti i procedimenti
per i quali, pur essendo scaduto il termine per la proposizione della
richiesta,    non    fosse   intervenuto   l'inizio   dell'istruzione
dibattimentale.
    Anche  questa  disposizione  transitoria si applicava senza alcun
dubbio anche ai procedimenti con citazione diretta a giudizio.
    D'altra parte anche per questo tipo di procedimenti la previsione
di  una riapertura dei termini per la proposizione della richiesta di
giudizio   abbreviato  era  effetto  necessariamente  discendente  da
un'apposita previsione normativa, dal momento che in mancanza di essa
per  i  procedimenti  gia' pendenti sarebbe stata applicabile, per il
principio  tempus regit actum, soltanto la regola processuale fissata
dal  previgente  art. 556 del codice di procedura penale, a mente del
quale   la   richiesta  di  rito  abbreviato  (come  pure  quella  di
patteggiamento)  andava formulata entro il termine di quindici giorni
dal  ricevimento  della  notificazione  del  decreto  di  citazione a
giudizio.
    Come  appare  evidente, il pregresso orientamento del legislatore
nell'introdurre    discipline    transitorie   a   disposizioni   che
intervenissero  a modificare anche la disciplina dei riti alternativi
e'  stato sempre nel senso di non inserire diversificazioni sul piano
del  «tipo» di procedimento, bensi' soltanto distinzioni giustificate
in  ragione  della  fase  del  procedimento  (come  peraltro e' nello
spirito di ogni normativa di tipo transitori).
    La  diversa  «scelta» operata dal legislatore con l'art. 5, comma
1,  della  legge  n. 134/2003  si  pone,  invece,  immotivatamente in
contrasto con i richiamati precedenti senza avere a fondamento alcuna
giustificazione che faccia da sostegno a questo diverso indirizzo.
    Del  resto la norma censurata, nell'interpretazione resa doverosa
dalla  sua  lettera,  si  pone  in  contrasto con le stesse finalita'
deflattive   che   (parallelamente   a  quelle  transitorie)  mira  a
realizzare,  lasciando  fuori  dalla  sua  previsione  gran parte dei
procedimenti  pendenti  per  i  quali (piu' che per quelli richiamati
dall'art. 446,   primo   comma   c.p.p.)   sarebbe   prevedibile   un
ripensamento dell'imputato a favore di una definizione anticipata del
procedimento a suo carico.
    Accanto    alla    argomentata   violazione   dell'art. 3   della
Costituzione, ad opinione di questo rimettente, l'art. 5, primo comma
si pone in contrasto con l'art. 24 della Costituzione dal momento che
limita   illegittimamente   l'estensione   del   diritto  di  difesa,
assicurato,  dalla  norma  ora  citata,  in  ogni  stato  e grado del
procedimento.
    Invero,  e' evidente che in presenza di un intervento legislativo
che  consente  di recuperare alle scelte difensive quei meccanismi di
definizione  del  giudizio in una forma alternativa al dibattimento e
che  assicurano  all'imputato  un trattamento sanzionatorio piu' mite
(sopratutto   quando  l'istruttoria  dibattimentale  gia'  svolta  fa
apparire  piu'  probabile  l'irrogazione  della pena) risulterebbe un
sicuro  vulnus  all'esercizio della propria difesa l'esclusione dalla
possibilita'  di accesso al patteggiamento in questa fase, sopratutto
alla luce dell'assoluta mancanza di ragioni a sostegno di essa.
    Peraltro   l'opposto  indirizzo  giurisprudenziale  (che  pur  si
registra  in  questi  giorni)  tendente  a  restringere  l'ambito  di
applicazione  della  disciplina  transitoria  ai soli casi consentiti
dalla  lettera  della  norma  di cui all'art. 5, comma 1, della legge
n. 134/2001  finirebbe per far ricadere proprio sugli autori di reati
c.d.   minori  gli  effetti  di  una  (sia  pur  poco  condivisibile)
legislazione   premiale  della  quale,  invece,  senza  alcun  dubbio
potranno   fruire  coloro  che  sono  stati  tratti  a  giudizio  per
rispondere di ben piu' preoccupanti delitti.
    Infine,  l'art. 5  sembra  porsi  in  contrasto  con  l'art. 111,
secondo  comma,  ultima  parte,  della Costituzione che stabilisce il
principio di ragionevole durata del processo.
    Invero  proprio  la  Corte costituzionale ha, di recente ribadito
(sentenza 19-23 maggio 2003 n. 169) che, rispetto al dibattimento, la
definizione  del  processo  con riti alternativi consente comunque un
sensibile risparmio di tempo e di risorse (sentenza n. 115 del 2001),
in  coerenza con il principio enunciato dall'art. 111, secondo comma,
ultimo periodo, Cost.
    Detta  affermazione  (sia pur resa con riferimento specifico alla
possibilita'  riproposizione  innanzi  al giudice del dibattimento di
una  richiesta  di  giudizio  abbreviato  subordinata ad integrazione
probatoria   che   sia   stata  rigettata  dal  giudice  dell'udienza
preliminare)  appare  comunque  espressione  del  principio che fa da
fondamento alla previsione della richiamata norma costituzionale alla
cui  stregua  va  valorizzato  qualsiasi  (legittimo)  meccanismo  di
riduzione della durata dei processi.
    Per  tutte  le  esposte  ragioni  la  questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art. 5,  commi  primo  e  secondo della legge 12
giugno 2003 n. 134, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 14 giugno
2003 n. 136 appare non manifestamente infondata.