Ricorso  della  Regione  Emilia-Romagna in persona del presidente
della  giunta  regionale  pro  tempore  Vasco Errani, autorizzato con
deliberazione  della  giunta  regionale  n. 1994 del 13 ottobre 2003,
rappresentata  e difesa, come da mandato speciale a rogito del notaio
dott.  Federico  Stame di Bologna, rep. n. 47670 del 21 ottobre 2003.
dall'avv.  Giandomenico  Falcon  di Padova e dall'avv. Luigi Manzi di
Roma,  con  domicilio  eletto  in Roma presso l'avv. Luigi Manzi, via
Confalonieri 5;

    Contro   il   Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  per  la
dichiarazione   di  illegittimita'  costituzionale  dell'art. 32  del
decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante Disposizioni urgenti
per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti
pubblici,  pubblicato  nella  Gazzetta Ufficiale n. 229 del 2 ottobre
2003 - suppl. ord. n. 157, ed in particolare dei comuni:
        1,  2,  3,  25,  26, lettera a), in quanto prevedono un nuovo
condono edilizio;
        25,  in quanto non eccettua dal condono gli abusi per i quali
il procedimento sanzionatorio sia gia' iniziato;
        26, lettera a), in quanto subordina la sanabilita' alla legge
regionale  per  gli  abusi minori in zone non vincolate, sottraendo a
questo  regime  gli  abusi  maggiori  e  gli  abusi  minori  in  zone
vincolate;
        3,  25,  26, lettera a), 28, 32, 35, lettere b) e c), 37, 38,
40   e   allegato   1,  in  quanto,  con  disciplina  dettagliata  ed
autoapplicativa,  stabiliscono le condizioni, le modalita', i termini
e le procedure relative al condono edilizio;
        25  e  35,  in  quanto  consentono  di «far passare» per gia'
costruite opere in corso di costruzione o ancora da costruire;
        37, in quanto prevede un meccanismo di silenzio-assenso;
        25,  in  quanto  prevede un limite di volume per ogni singola
richiesta;
        1,  2,  3,  25,  26,  lettera  a),  in quanto contenuti in un
decreto-legge, in violazione degli articoli 3, comma primo, 5, 9, 97,
comma  primo,  114, comma primo, 117, comma secondo, 117 comma terzo,
118,  comma  primo, Cost. nonche' del principio di ragionevolezza, di
indisponibilita'   dei   valori  costituzionalmente  tutelati  e  del
principio di leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni.

                              F a t t o

    Lo «storico» condono edilizio fu introdotto dalla legge n. 47 del
1985,  come  evento assolutamente eccezionale e correlato a rilevanti
innovazioni  nella  disciplina  edilizia.  A distanza di nove anni la
legge  n. 724  del  1994  riapri'  i  termini  del condono. Ed ora, a
distanza  ancora di nove anni, l'art. 32 del decreto-legge n. 269 del
2003  prevede  un  nuovo condono, riprendendo con modifiche le regole
sostanziali e procedurali del 1985 e del 1994.
    L'art. 32  del  decreto-legge,  che  contiene  la  normativa  qui
impugnata,   e'   intitolato:   «Misure   per   la   riqualificazione
urbanistica,   ambientale   e   paesaggistica,  per  l'incentivazione
dell'attivita'  di  repressione dell'abusivismo edilizio, nonche' per
la definizione degli illeciti e delle occupazioni di aree demaniali».
Il  comma 1 dichiara la finalita' di «pervenire alla regolarizzazione
del  settore».  Il  comma  2  dichiara  altresi' che «la normativa e'
disposta  nelle  more  dell'adeguamento della disciplina regionale al
testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia,  approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in conformita'
al   titolo   V   della  Costituzione  come  modificato  dalla  legge
costituzionale  18  ottobre  2001,  n. 3»  e che sono «comunque fatte
salve   le   competenze   delle  autonomie  locali  sul  governo  del
territorio».  Il  comma  3  precisa che «le condizioni, i limiti e le
modalita' del rilascio del predetto titolo abilitativo sono stabilite
dal presente articolo e dalle normative regionali».
    In  questi  termini,  pur se talune delle citate formulazioni non
sembrano  davvero  perspicue - come quella che non si sa a quali fini
precisa  trattarsi  di  una  normativa  adottata  «nelle  more» di un
adeguamento  che  tra  l'altro  per la regione Emilia-Romagna e' gia'
avvenuto  con  la  legge  regionale 25 novembre 2002, n. 31 (mod. con
l.r.  19  dicembre  2002,  n. 37) - l'intitolazione dell'articolo e i
primi commi possono dare l'impressione di una normativa «positiva», o
comunque  - per quanto riguarda piu' strettamente il condono - di una
normativa messa a disposizione delle regioni e delle autonomie locali
come  un principio facoltizzante, secondo cui la legislazione statale
in  materia di «governo del territorio» autorizzerebbe le regioni che
lo  ritenessero  a  permettere  ai  propri  enti locali di rilasciare
concessioni  in sanatoria entro i limiti fissati in primo luogo dalle
stesse  seguenti  disposizioni  dell'art.  32, in secondo luogo dalle
leggi delle singole regioni.
    Se cosi' fosse, il condono introdotto dall'art. 32 si presterebbe
pur  sempre  ad  obbiezioni  di legittimita' e merito - non sembrando
davvero   consono   alle   ragioni  di  garanzia  che  presiedono  al
riconoscimento di una legislazione statale di principio in materia di
governo  del territorio la fissazione di regole che consentono invece
il  «non  governo  o  addirittura  il  malgoverno - ma almeno nessuna
comunita'  regionale  si  vedrebbe costretta ad accettare la sanzione
definitiva  di  quanto  di urbanisticamente disordinato ed irregolare
possa essere accaduto negli ultimi anni.
    Sennonche',  il  carattere  rispettoso,  se  non  del territorio,
almeno  delle  autonomie  territoriali  si  rivela  esso  stesso pura
apparenza   quando   si   considerino   le   rimanenti   disposizioni
dell'art. 32, dalle quali emergono invece i tratti inconfondibili del
vecchio  e  classico condono, nella stessa versione della legge n. 47
del  1985  e  della  legge  n. 724  del  1994:  insomma, del «solito»
condono,  che  si  prospetta  cosi'  come evento ciclico e ricorrente
della storia italiana.
    Sommando  tutti  i  periodi, ne risulta che - tranne le eccezioni
per  le  zone  soggette a particolari vincoli - chiunque negli ultimi
venti  anni  abbia  effettuato opere edilizie in spregio delle regole
sostanziali  e  formali  di governo del territorio ha potuto o potra'
trarre   vantaggio   dal   proprio   illecito,   senza   che   alcuna
considerazione   urbanistica   possa   essergli  opposta,  alla  sola
condizione  di  versare  allo Stato una somma di danaro. E che coloro
che  al  contrario hanno rinunciato ad opere che pure sarebbero state
per  loro  vantaggiose  in  ossequio  alla  normativa  urbanistica  o
nell'attesa  di  regolari  permessi  avranno  una  nuova  ragione  di
chiedersi - se davvero le regole sono queste - se non avrebbero fatto
meglio  in  passato,  e  non  faranno  meglio  in  futuro,  a violare
anch'essi le norme.
    In  effetti, la «vera» disciplina del nuovo condono inizia con il
comma  25,  che stabilisce che «le disposizioni di cui ai capi IV e V
della  legge  28  febbraio  1985, n. 47, e successive modificazioni e
integrazioni,  come ulteriormente modificate dall'art. 39 della legge
23  dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni,
nonche'  dal  presente  articolo, si applicano alle opere abusive che
risultino  ultimate  entro  il  31  marzo  2003  e  che  non  abbiano
comportato  ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della
volumetria   della  costruzione  originaria  o,  in  alternativa,  un
ampliamento  superiore  a  750  mc»,  e che «le suddette disposizioni
trovano  altresi'  applicazione  alle  opere  abusive  realizzate nel
termine  di  cui  sopra relative a nuove costruzioni residenziali non
superiori  a  750  mc  per  singola  richiesta  di titoli abilitativi
edilizi in sanatoria».
    Posto  che  «la  misura dell'oblazione e dell'anticipazione degli
oneri  concessori,  nonche' le relative modalita' di versamento, sono
disciplinate  nell'allegato  1»  (comma 38), l'operativita' di quanto
enunciato e' poi assicurata dal comma 28, il quale dispone da un lato
che  «i  termini  previsti  dalle  disposizioni  sopra  richiamate  e
decorrenti  dalla  data di entrata in vigore dell'art. 39 della legge
23  dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni,
ove  non disposto diversamente, sono da intendersi come riferiti alla
data  di entrata in vigore del presente decreto», dall'altro che «per
quanto   non   previsto   dal  presente  decreto  si  applicano,  ove
compatibili,  le  disposizioni  di  cui  alla legge 28 febbraio 1985,
n. 47, e al predetto art. 39».
    Ulteriori  norme  sono dettate dal comma 32 («la domanda relativa
alla  definizione  dell'illecito  edilizio,  con  l'attestazione  del
pagamento dell'oblazione e dell'anticipazione degli oneri concessori,
e'  presentata ai comune competente, a pena di decadenza, entro il 31
marzo  2004, unitamente alla dichiarazione di cui al modello allegato
e  alla  documentazione di cui al comma 35») e dal comma 35, il quale
prevede con precisione e dettaglio la documentazione da allegare alla
domanda (pur ammettendo che vi possa essere «ulteriore documentazione
eventualmente prescritta con norma regionale»!). L'allegato 1 precisa
addirittura  che  la  domanda  di  definizione degli illeciti edilizi
«deve essere compilata utilizzando il modello di domanda allegato».
    La disciplina e' completata dalle norme di chiusura del comma 37,
secondo   cui   «il   pagamento   degli   oneri  di  concessione,  la
presentazione della documentazione di cui al comma 35, della denuncia
in  catasto,  della  denuncia  ai  fini  dell'imposta  comunale degli
immobili  di  cui  al  d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, nonche', ove
dovute,  delle  denuncie  ai  fini della tassa per lo smaltimento dei
rifiuti  solidi  urbani e per l'occupazione del suolo pubblico, entro
il  30 settembre 2004, nonche' il decorso del termine di ventiquattro
mesi  da  tale data senza l'adozione di un provvedimento negativo del
comune,  equivale  a titolo abilitativo edilizio in sanatoria»; e dal
comma  40,  che avverte il bisogno di precisare che «alla istruttoria
della  domanda  di  sanatoria si applicano i medesimi diritti e oneri
previsti  per  il  rilascio  dei  titoli  abilitativi  edilizi,  come
disciplinati   dalle   amministrazioni   comunali   per  le  medesime
fattispecie  di  opere  edilizie»,  e  che «ai fini della istruttoria
delle   domande   di   sanatoria  edilizia  puo'  essere  determinato
dall'amministrazione  comunale  un  incremento dei predetti diritti e
oneri  fino  ad  un  massimo  del  10  per cento da utilizzare con le
modalita'  di cui all'art. 2, comma 46, della legge 23 dicembre 1996,
n. 662».
    Il  quadro ora esposto di una normativa statale che drasticamente
determina - tranne che per specifiche aree di particolare pregio o in
particolari  situazioni  -  il  venire meno di qualunque attivita' di
repressione  degli  abusi  edilizi compiuti - con totale frustrazione
anche  dell'attivita'  amministrativa  in corso - non risulta affatto
alterato  dai  riferimenti  che  lo  stesso  art. 32 opera a poteri o
compiti  regionali.  Si  tratta  infatti  di  poteri  e  compiti  che
rimangono  nel  quadro  marginali  ed  eventuali,  o  che addirittura
determinano situazioni paradossali.
    Gia'  si  e'  accennato  che secondo il comma 3 «le condizioni, i
limiti  e  le  modalita' del rilascio del predetto titolo abilitativo
sono stabilite dal presente articolo e dalle normative regionali». Ma
e'  evidente,  nel  contesto complessivo sopra illustrato, che questa
disposizione non puo' essere affatto intesa come un generico rinvio a
quanto  sul  tema  volessero  disporre le leggi regionali, ma come un
riferimento  ai  limitatissimi  compiti  normativi  che  il «presente
articolo» riconosce alle regioni.
    Di quali compiti normativi si tratti e' presto detto. Su un piano
generale,  il  comma 33 prevede che le regioni «entro sessanta giorni
dalla data di entrata in vigore del presente decreto» (e dunque in un
termine brevissimo, tra l'altro coincidente con quello di conversione
del   decreto   stesso!)   emanino  «norme  per  la  definizione  del
procedimento   amministrativo   relativo   al   rilascio  del  titolo
abilitativo edilizio in sanatoria».
    Per vero, non si intende di quali norma possa trattarsi, dato che
il  procedimento  di  condono  e'  gia'  definito  dalle disposizioni
richiamate  della  legge n. 47 del 1985 e 724 del 1994, nonche' dallo
stesso art. 32 del decreto nei commi sopra illustrati. Ed infatti dal
seguito  del  comma  33 e dal comma 34 si capisce che in realta' cio'
che  alle  regioni  e'  concesso di fare e' di inasprire per i propri
cittadini   i   costi   del   condono:   prevedere   «un   incremento
dell'oblazione  fino  al  massimo  del  10  per  cento  della  misura
determinata  nella  tabella  C  allegata»,  incrementare gli oneri di
concessione  fino  al massimo del 100 per cento». Inoltre, secondo il
comma  34,  la  legge  regionale  dovra'  stabilire  le «modalita' di
attuazione» della regola che consente a coloro che intendano eseguire
in  tutto o in parte le opere di urbanizzazione primaria di «detrarre
dall'importo   complessivo   quanto   gia'   versato,   a  titolo  di
anticipazione  degli  oneri  concessori». Ancora, come gia' visto, il
comma  35  ammette  che  la  legge  regionale  eventualmente  preveda
«ulteriore documentazione» da allegare alla domanda di condono.
    Questo   e'   il   ruolo  generale  che  l'art. 32  riserva  alla
legislazione  regionale.  Un  discorso  a  parte  va  poi  fatto  con
riferimento al comma 26.
    Va  premesso che l'allegato 1 definisce tra l'altro la «tipologia
delle  opere abusive suscettibili di sanatoria alle condizioni di cui
all'art. 7,  comma  2»  (per  vero non si comprende tale riferimento,
dato  che  l'art.  7  del decreto-legge riguarda tutt'altro). In ogni
modo,  tale tipologia distingue le opere abusive numerate da 1 a 6 in
categorie di gravita' decrescente. Precisamente, le tipologie sono le
seguenti:
        Tipologia 1. Opere realizzate in assenza o in difformita' del
titolo  abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e
alle prescrizioni degli strumenti urbanistici;
        Tipologia 2. Opere realizzate in assenza o in difformita' del
titolo  abilitativo  edilizio,  ma conformi alle norme urbanistiche e
alle prescrizioni degli strumenti urbanistici alla data di entrata in
vigore del presente provvedimento;
        Tipologia 3. Opere di ristrutturazione edilizia come definite
dall'art.  3,  comma  1, lettera d) del d. P.R. 6 giugno 2001, n. 380
realizzate  in  assenza  o  in  difformita'  dal  titolo  abilitativo
edilizio;
        Tipologia  4.  Opere  di  restauro e risanamento conservativo
come  definite  dall'art.  3,  comma 1, lettera c) del d. P.R. giugno
2001,  n. 380,  realizzate  in  assenza  o  in difformita' del titolo
abilitativo  edilizio,  nelle zone omogenee «A» di cui all'art. 2 del
decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444;
        Tipologia  5.  Opere  di  restauro e risanamento conservativo
come  definite  dall'art.  3,  comma  1, lettera c) del d.P.R. giugno
2001,  n. 380,  realizzate  in  assenza  o  in difformita' del titolo
abilitativo edilizio;
        Tipologia   6.  Opere  di  manutenzione  straordinaria,  come
definite  all'art.  3,  comma 1, lettera b) del d.P.R. 6 giugno 2001,
n. 380, realizzate in assenza o in difformita' dal titolo abilitativo
edilizio;  opere  o modalita' di esecuzione non valutabili in termini
di superficie o di volume.
    Cio'  premesso,  il  comma  26  dispone che «sono suscettibili di
sanatoria edilizia le tipologie di illecito di cui all'allegato 1:
        a)  numeri  da  1  a  3,  nell'ambito  dell'intero territorio
nazionale,  fermo  restando quanto previsto alla lettera e) del comma
27, nonche' 4, 5 e 6 nell'ambito degli immobili soggetti a vincolo di
cui all'art. 32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47;
        b) numeri 4, 5 e 6, nelle aree non soggette ai vincoli di cui
all'art.  32  della  legge  28 febbraio 1985, n. 47, in attuazione di
legge  regionale,  da  emanarsi  entro  sessanta giorni dalla data di
entrata  in  vigore del presente decreto, con la quale e' determinata
la  possibilita', le condizioni e le modalita' per l'ammissibilita' a
sanatoria di tali tipologie di abuso edilizio».
    Ne  risulterebbe  che,  mentre  gli abusi piu' gravi, e quelli di
minore  gravita'  compiuti  su immobili vincolati (cioe' i piu' gravi
degli  abusi  minori),  sarebbero senz'altro sanabili alle condizioni
generali,  quelli di assoluta minore gravita' (restauro e risanamento
conservativo  o  addirittura  la semplice manutenzione straordinaria)
sarebbero sanabili ... in quanto le singole regioni lo consentano con
le  proprie  leggi. Precisato che la lettera b) - in quanto riconosce
sia  pure  limitati poteri regionali - non forma oggetto specifico di
questa impugnazione, e' tuttavia di immediata evidenza che il sistema
che  risulterebbe dall'insieme del comma e', come meglio si dira' tra
breve,   costituzionalmente   inaccettabile  per  irragionevolezza  e
violazione del principio di uguaglianza.
    Nei  termini  esposti, le impugnate disposizioni dell'art. 32 del
decreto-legge   n. 269   del  2003  sono  invasive  delle  competenze
costituzionali  delle regioni e costituzionalmente illegittime per le
seguenti ragioni di

                            D i r i t t o


                              Premessa

    Conviene  in  primo  luogo  ricordare  che  la ricorrente Regione
propose  a  suo  tempo impugnazione avverso la riapertura del condono
operata  dall'art. 39  della  legge  n. 724  del 1994. Codesta ecc.ma
Corte      costituzionale,     riconosciuta     la     legittimazione
all'impugnazione,  giudico'  nel  merito  del ricorso con la sentenza
n. 416  del  1995,  Al  punto  7  in diritto  codesta  Corte cosi' si
espresse:
    «Innanzitutto  deve  escludersi  che la riapertura e l'estensione
dei  termini  (riferiti  all'epoca  dell'abuso  commesso) del condono
edilizio  (peraltro  con ulteriori limiti e presupposti riduttivi) il
cui  carattere  essenziale  nella  fattispecie e' quello di norma del
tutto  eccezionale in relazione ad esigenze di contestuale intervento
sulla  disciplina concessoria e a contingenti e straordinarie ragioni
finanziarie  e  di  recupero  della  base  impositiva dei fabbricati,
vanifichi  di  per  se'  l'azione di controllo e di repressione delle
amministrazioni ed in particolare delle piu' attente.
    Infatti  l'entita'  del fenomeno di applicazione ed utilizzazione
della  norma impugnata nelle varie regioni (con un introito effettivo
di  quasi  tremila  miliardi limitato alla prima fase dei pagamenti),
induce  a  ritenere la diffusione tutt'altro che isolata del fenomeno
dell'abusivismo   edilizio   e   della   persistenza  delle  relative
costruzioni,  compiute  nel  periodo  successivo  al  31 ottobre 1983
(termine di riferimento dell'art. 31 legge n. 47 del 1985), fino alla
nuova  data  di  riferimento,  31 dicembre 1993. Cio' e' avvenuto non
solo  per il difetto di una attivita' di polizia locale specializzata
sul controllo del territorio, ma anche in conseguenza della scarsa (o
quasi   nulla   in   talune   regioni)  incisivita'  e  tempestivita'
dell'azione  di  controllo e di repressione degli enti locali e delle
regioni,  che  non  e'  valsa ad impedire tempestivamente la suddetta
attivita'  abusiva o almeno a impedire il completamento e a rimuovere
i relativi manufatti.
    Ben  diversa  sarebbe,  invece,  la  situazione  in caso di altra
reiterazione  di  una  norma  del genere, soprattutto con ulteriore e
persistente  spostamento  dei  termini  temporali  di riferimento del
commesso abusivismo edilizio. Conseguentemente differenti sarebbero i
risultati  della  valutazione sul piano della ragionevolezza, venendo
meno  il  carattere  contingente  e del tutto eccezionale della norma
(con  le  peculiari  caratteristiche  della singolarita' ed ulteriore
irripetibilita)  in  relazione  ai valori in gioco, non solo sotto il
profilo  della  esigenza  di  repressione  dei  comportamenti  che il
legislatore  considera  illegali e di cui mantiene la sanzionabilita'
in via amministrativa e penale, ma soprattutto sotto il profilo della
tutela del territorio e del correlato ambiente in cui vive l'uomo.
    La   gestione   del  territorio  sulla  base  di  una  necessaria
programmazione   sarebbe   certamente  compromessa  sul  piano  della
ragionevolezza   da   una   ciclica   o  ricorrente  possibilita'  di
condono-sanatoria  con  conseguente  convinzione  di impunita', tanto
piu'  che  l'abusivismo edilizio comporta effetti permanenti (qualora
non  segua  la  demolizione o la rimessa in pristino), di modo che il
semplice  pagamento  di oblazione non restaura mai l'ordine giuridico
violato,  qualora  non comporti la perdita del bene abusivo o del suo
equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale.».
    La  ricorrente  Regione  e'  dell'avviso  che  tale  ben  diversa
situazione,  ipotizzata  da codesta Corte nella sentenza del 1995, si
sia purtroppo verificata.
    1.  -  Illegittimita'  costituzionale  dei commi 1, 2, 3, 25, 26,
lettera  a),  in  quanto  dispongono  il  nuovo condono edilizio, per
violazione dell'art. 117, commi secondo e terzo.
    La  precedente  impugnazione  era  stata  presentata, prima della
riforma  costituzionale operata con la legge cost. n. 3 del 2001, con
argomenti  che conservano ad avviso della ricorrente regione tutta la
loro validita'.
    Non  si  puo'  tuttavia  ora  non  considerare  innanzi tutto gli
effetti  che  la  riforma  costituzionale  ha  comportato  per quanto
riguarda  il riparto di poteri legislativi ordinari tra lo Stato e le
Regioni. Nel nuovo quadro, infatti, il legislatore ordinario statale,
pur  godendo  di una potesta' legislativa particolarmente ampia, e di
una   potesta'   esclusiva  nei  fondamentali  rami  dell'ordinamento
giuridico  (quali  l'ordinamento  civile  e  penale  e  l'ordinamento
processuale),   non  ha  piu'  tuttavia  una  competenza  legislativa
assolutamente generale.
    Occorre  dunque  in  primo  luogo  considerare  se  la disciplina
introdotta   dall'art. 32   del  decreto-legge  qui  impugnato  trova
giustificazione  nei  titoli  che  fondano  la competenza legislativa
statale alla stregua dell'art. 117, commi secondo e terzo, Cost.
    Ad  avviso della ricorrente regione la risposta e' negativa, come
ora si cerchera' di illustrare.
        a)  Impossibilita'  di  giustificare la normativa statale nel
quadro della materia «governo del territorio».
    Non  puo'  essere  dubbio  che  la  normativa relativa al condono
incide  profondamente  nella  materia  «governo  del  territorio». Va
tuttavia ricordato che in tale materia come in tutte quelle assegnate
alla  potesta'  concorrente  dello  Stato  e delle Regioni, a termini
dell'art. 117,  comma  terzo,  Cost.,  la potesta' legislativa spetta
alle   regioni,   «salvo  che  per  la  determinazione  dei  principi
fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato».
    Ora,  sembra  palese  che  la disciplina del condono edilizio non
puo'  essere considerata in nessun senso «determinazione dei principi
fondamentali»  della  materia.  Al contrario, i principi fondamentali
della   materia  sono  sempre  stati  e  tuttora  sono  quelli  della
disciplina  edilizia  del  territorio, del controllo preventivo sulle
edificazioni e della repressione dei comportamenti illeciti. Cio' del
resto e' chiarissimo nella citata sentenza n. 416: il carattere della
disciplina del condono e' «quello di norma del tutto eccezionale», in
relazione a comportamenti «che il legislatore considera illegali e di
cui mantiene la sanzionabilita' in via amministrativa e penale».
    E'  dunque evidente che non si tratta di esercizio della potesta'
statale  di  porre  i principi di materia, e che percio' l'intervento
non puo' essere giustificato a questo titolo.
    Va  precisato,  infatti, che il potere statale di «determinazione
dei  principi» non comprende oggi, nel nuovo contesto costituzionale,
il   potere   di  disporre  in  via  derogatoria  di  tali  principi,
determinandone  la non applicazione per classi determinate e concluse
di comportamenti illeciti realizzati nel passato.
    Al contrario, si deve ad avviso della ricorrente regione ritenere
che l'attribuzione allo Stato del compito e del potere di determinare
i  principi  della  materia «governo del territorio» sia correlata ad
una  esigenza  positiva  di  assicurare  che  in tutte le regioni sia
garantita  una  soglia  predefinita di valori connessi al governo del
territorio.  Che tale sia il senso delle attribuzioni statali risulta
talora  piu'  evidente nello stesso testo costituzionale, come accade
ad  esempio  per  la  «tutela  dell'ambiente»  - che, si noti, non e'
limitata  agli  aspetti  di  speciale valore paesistico - di cui 117,
comma  secondo,  lettera  s);  ma  non puo' essere dubbio che tale e'
anche  il  senso della attribuzione allo Stato di definire i principi
in materia di governo del territorio.
    Che   invece   l'attivazione   del   condono   sia   in   diretta
contraddizione  con  tali  valori  e' del tutto evidente, solo che si
consideri  che  la  base  del condono e' il puro scambio tra rinuncia
alla salvaguardia di tali valori in cambio di una somma di denaro. Ma
sul  punto  non  vi e' bisogno di insistere, essendo il disvalore del
condono gia' chiarissimo nella giurisprudenza costituzionale.
        b)  Impossibilita'  di giustificare la normativa statale come
esercizio  di  potesta'  legislativa nella materia del «coordinamento
della finanza pubblica».
    L'art. 32    si   colloca   all'interno   di   un   decreto-legge
complessivamente  intitolato:  «Disposizioni  urgenti per favorire lo
sviluppo  e  per  la  correzione  dei  conti  pubblici». La finalita'
complessivamente finanziaria dell'intervento smentisce completamente,
da  un  lato,  il  presunto  scopo  di «regolarizzazione del settore»
proclamato  dal  comma  1 dell'art. 32, ma certamente costituisce uno
scopo  che  lo  Stato puo' e deve perseguire: cio' non toglie, pero',
che  lo  debba  perseguire  nell'ambito dei poteri legislativi che la
Costituzione riconosce al legislatore ordinario, e non al di fuori di
tali poteri.
    Non  c'e'  dubbio, ad esempio, che il legislatore statale avrebbe
potuto  perseguire  le  proprie  finalita'  nel  quadro della propria
potesta'  esclusiva  in  materia  di  sistema tributario dello Stato.
Avrebbe potuto perseguire i propri scopi anche attraverso la potesta'
concorrente  in  materia di «coordinamento della finanza pubblica» di
cui  all'art. 117,  comma  terzo, dettando nuovi principi sul sistema
tributario  e finanziario delle regioni e degli enti locali, come del
resto l'art. 119 gli imporrebbe di fare.
    Sembra tuttavia evidente che neppure il riferimento a tale ultima
materia   conduce   a   soddisfare   la   ricerca  di  un  fondamento
costituzionale  alla  disciplina  statale  qui impugnata. Per ragioni
analoghe  a  quelle  sopra  esposte  va  escluso  che si tratti della
posizione  di principi di materia: i principi di «coordinamento della
finanza  pubblica»  devono  essere norme fondamentali che stabilmente
disciplinano   l'assetto   finanziario   pubblico,  non  certo  norme
eccezionali  quali quelle sul condono; ne' d'altronde la posizione di
principi  in  tale  materia  e'  compatibile  con  il puro e semplice
asservimento  della  materia  urbanistica  ed  edilizia alle esigenze
finanziarie.
        c)  Impossibilita'  di giustificare la normativa statale come
esercizio  di  potesta'  legislativa  nella  materia dell'ordinamento
penale.
    Poiche' tra gli effetti del condono edilizia vi e' il venire meno
della  punibilita'  penale  in  relazione  agli illeciti commessi, va
esaminata l'ipotesi che la potesta' esclusiva statale in tale materia
possa  costituire  il fondamento giustificativo dell'intera normativa
sul   condono   edilizio.   Si   osserva,   in   primo   luogo,   che
l'irriducibilita'  del condono edilizio alla questione penale e' gia'
stata  affermata  da  codesta ecc.ma Corte costituzionale nel momento
stesso  in  cui  essa  ha dichiarato ammissibile il ricorso regionale
avverso l'art. 39 della legge n. 724 del 1994.
    In  secondo  luogo,  va  precisato  che la ricorrente regione non
contesta  affatto  l'esclusivita' del potere statale nel disporre del
«potere  di  clemenza» in materia penale. Benche' certo, come statuto
nella  sentenza  n. 369  del  1988,  che  il  potere di clemenza puo'
incontrare  limiti  costituzionali,  non spetta alle regioni di farli
valere.
    Cio' che si contesta, invece, e' che disponendo di cio' di cui lo
Stato  poteva  -  almeno in relazione alle prerogative costituzionali
delle  regioni  -  disporre, lo Stato abbia anche disposto di cio' di
cui   non   poteva  disporre,  cioe'  della  sanzionabilita'  in  via
amministrativa degli illeciti edilizi.
    In altre parole, circa lo scambio tra danaro e punibilita' penale
la   regione   Emilia-Romagna   ritiene   di   non  avere  titolo  ad
interloquire:  e  cio'  anche se il venire meno della sanzione penale
determina  una  riduzione  di  tutela di valori costituzionali di cui
anche  le  regioni  sono  responsabili.  Spetta infatti allo Stato di
decidere  in  quali  casi  la tutela dei valori debba essere affidata
alla sanzione penale.
    La  regione  contesta  invece che all'esenzione dalla punibilita'
penale  possa o debba accompagnarsi l'accettazione del fatto compiuto
sul    terreno,    specificamente   regionale,   dell'amministrazione
dell'urbanistica,   con   il   venire   meno   della  sanzionabilita'
amministrativa degli illeciti.
    Ne'  si  puo'  dire che le due cose debbano necessariamente stare
insieme,  ne'  dal  punto di vista teorico ne' da quello pratico. Dal
punto  di  vista teorico, e' chiaro che l'esenzione dalla punibilita'
penale  costituisce  per i trasgressori un bene autonomo, distinto da
ogni  altro e particolarmente prezioso, data la gravosita' della pena
sia  in  se'  che  nelle sue conseguenze generali. Dal punto di vista
pratico,  e' agevolmente immaginabile ed organizzabile un sistema che
non  comporti  neppure  sul  piano  operativo  l'interferenza  con il
sistema  delle  sanzioni  aunninistrative: ad esempio ozganizzando la
presentazione  delle  domande  di  condono  penale  al  di  fuori del
circuito  dell'amministrazione locale, o sancendo l'inutilizzabilita'
e   l'irrilevanza   di  tali  domande  nell'ambito  dei  procedimenti
amministrativi sanzionatori.
    Non   puo'  invece  il  legislatore  statale  ordinario  decidere
unilateralmente  il  sacrificio  di  quei  valori  del territorio che
sarebbe  suo  compito  costituzionale  di  tutelare,  e che le stesse
regioni, nell'ambito dei propri poteri legislativi e quali componenti
della  Repubblica  ai  sensi  dell'art. 114 Cost., hanno il dovere di
difendere.
    In  conclusione,  se  ne'  la  potesta'  del  legislatore statale
ordinario  di  fissare  i  principi  del  governo del territorio, ne'
quella di fissare i principi di coordinamento della finanza pubblica,
ne'   infine   l'esclusiva   potesta'   statale   in  materia  penale
giustificano  sul piano costituzionale la normativa qui impugnata, se
ne  deve  concludere  che essa non poteva essere adottata dallo Stato
mediante un atto avente valore di legge ordinaria.
        2.  -  Illegittimita' costituzionale degli stessi commi 1, 2,
3,  25,  26,  lettera  a),  in  quanto  dispongono  il  nuovo condono
edilizio,   per  violazione  dei  principi  di  ragionevolezza  e  di
eguaglianza, dell'art. 97, comma primo, nonche' degli artt. 117 e 118
Cost.
    Si  e'  data  qui  la  precedenza  alle ragioni di illegittimita'
costituzionale  della  normativa impugnata collegati al nuovo riparto
di  poteri  legislativi  tra  lo Stato e le regioni. Cio' non toglie,
tuttavia,   che  conservino  piena  validita'  tutte  le  ragioni  di
doglianza  gia'  prospettate  dalla ricorrente regione con il ricorso
rivolto  avverso  il  condono  attivato  dalla legge n. 724 del 1994:
ragioni  delle  quali  codesta  stessa  Corte  costituzionale ebbe ad
affermare,  nella  citata sentenza n. 416 del 1995, che - se pure non
potevano  accogliersi  di  fronte ad una decisione statale che ancora
poteva  considerare  contrassegnata  dai  caratteri di un eccezionale
intervento, collegato non solo alle contingenti e temporanee esigenze
finanziarie  dello  Stato,  ma alla definitiva chiusura della vicenda
dell'abusivismo edilizio - sarebbero state invece pienamente valide e
necessariamente  da accogliere nell'ipotesi «di altra reiterazione di
una  norma  del  genere,  soprattutto  con  ulteriore  e  persistente
spostamento   dei  termini  temporali  di  riferimento  del  commesso
abusivismo edilizio».
    Tuttavia,  piu'  che  riproporre  alla  lettera  quelle  ragioni,
conviene   qui   riproporre   le   parole  stesse  di  codesta  Corte
costituzionale,  gia'  citate  sopra  nella  premessa.  Nel  caso  di
ulteriore  reiterazione,  osserva ancora la sentenza n. 416, verrebbe
meno  «il  carattere  contingente e del tutto eccezionale della norma
con  le  peculiari  caratteristiche  della  singolarita' ed ulteriore
irripetibilita)  in  relazione  ai valori in gioco, non solo sotto il
profilo  della  esigenza  di  repressione  dei  comportamenti  che il
legislatore  considera  illegali e di cui mantiene la sanzionabilita'
in via amministrativa e penale, ma soprattutto sotto il profilo della
tutela  del  territorio e del correlato ambiente in cui vive l'uomo»,
con conseguente valutazione di irragionevolezza. Infatti, prosegue la
stessa  sentenza,  «la  gestione  del  territorio  sulla  base di una
necessaria  programmazione  sarebbe  certamente compromessa sul piano
della  ragionevolezza  da  una  ciclica  o ricorrente possibilita' di
condono-sanatoria  con  conseguente  convinzione  di impunita', tanto
piu'  che  l'abusivismo edilizio comporta effetti permanenti (qualora
non  segua  la  demolizione o la rimessa in pristino), di modo che il
semplice  pagamento  di oblazione non restaura mai l'ordine giuridico
violato,  qualora  non comporti la perdita del bene abusivo o del suo
equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale».
    Si tratta di considerazioni che, benche' espresse con riferimento
al  piano della ragionevolezza, sono agevolmente collegabili ad altri
ed  espliciti  parametri  costituzionali.  Viene in rilievo, in primo
luogo,  il  principio  di  buon andamento dell'amministrazione di cui
all'art. 97  Cost., evidentemente frustrato dalla inanita' della gran
parte degli sforzi compiuti dalle amministrazioni locali di reprimere
l'abusivismo  edilizio.  Se  e'  vero infatti che in taluni casi - ma
non,  si  ritiene,  se  non marginalmente nei comuni della ricorrente
regione - proprio l'inerzia delle amministrazioni puo' avere favorito
gli abusi, cio' non toglie affatto che consentire indiscriminatamente
la  sanatoria  dell'abuso  vanifica ogni sforzo gia' presente ed ogni
prospettiva  futura  (si  rammenti  che  il  carattere illecito della
costruzione  abusiva  non  viene meno per il solo decorso del tempo).
Cio'  tanto  piu'  e'  vero  se  si  considera  che  gli sforzi delle
amministrazioni  di  colpire  gli  abusi  richiedono di necessita' un
tempo non breve per pervenire al risultato concreto, data l'esistenza
delle   irrinunciabili  garanzie  giurisdizionali:  che  da  un  lato
doverosamente  tutelano chi abusivo in realta' non sia, ma dall'altro
non  raramente  consentono  comunque  di  procrastinare  nel tempo la
sanzione.
    Viene  poi in rilievo lo stesso principio di uguaglianza, leso da
una  normativa che da un lato ingiustamente uguaglia chi ha costruito
in  base  ad  un  titolo  legittimo  e chi ha costruito abusivamente,
dall'altro  ingiustamente  non  consente di riportare ad uguaglianza,
attraverso  la sanzione, chi si e' astenuto da comportamenti illeciti
e chi illecitamente li ha compiuti.
    E' chiaro, poi, che questi vizi si traducono in una lesione delle
competenze  costituzionali della regione, che - a causa del condono -
vede  illegittimamente  frustrata la propria attivita' legislativa ed
amministrativa  di  governo  del  territorio,  in  quanto  gli  abusi
compiuti   possono   sfuggire   alle  sanzioni  amministrative  e  si
incentivano abusi futuri.
    3.  -  Illegittimita'  costituzionale degli stessi commi 1, 2, 3,
25,  26,  lettera a), in quanto dispongono il nuovo condono edilizio,
per  violazione  dell'art. 9  Cost. e del principio costituzionale di
indisponibilila' dei valori costituzionalmente tutelati.
    Ad  avviso  della  ricorrente  regione le violazioni segnalate al
punto  precedente  si  collegano  ad  una  ulteriore  e piu' profonda
violazione   del   principio  implicito  nella  Costituzione  di  non
disponibilta',  da  parte  del  legislatore ordinario (non importa se
statale  o  regionale),  dei  valori costituzionalmente tutelati. Che
l'ordinato  assetto  del  territorio sia un valore costituzionalmente
tutelato  non  puo'  essere  messo  in  discussione,  ed e' del resto
evidente  - oltre che nell'art. 9, comma secondo Cost. - nella stessa
costruzione  costituzionale  del governo del territorio come autonoma
materia di legislazione.
    Tale  valore  costituzionale non puo' essere scambiato con valori
puramente  finanziari. Il fatto che il sistema della finanza pubblica
si  trovi  attualmente  -  ma  in  realta'  da  molti  anni  - in una
situazione  difficile  non  puo'  costituire ragione che autorizzi lo
Stato  allo  «scambio»  tra  illegalita'  edilizia  e  prestazioni in
danaro.
    Sia consentito ricordare alcune argomentazioni svolte nel ricorso
avverso il condono del 1994.
    «Proprio la condizione disastrosa della finanza pubblica non puo'
non  avvisare  della  circostanza che, se tale scambio dovesse essere
riconosciuto  come costituzionalmente legittimo e consentito, ad esso
fatalmente  ed  inevitabilmente  si tornerebbe a ricorrere ogni volta
che,le stime di probabile gettito lo rendessero «consigliabile».
    In  altre  parole,  ogni  potenziale costruttore abusivo saprebbe
bene  che,  poiche'  il  problema  del  disavanzo  dello Stato non e'
destinato a risolversi, nella sua entita' fondamentale, ne' nel breve
ne'  nel  medio  periodo,  ma  semmai  soltanto  a  trovare  modi  di
progressivo  «contenimento»  ogni  suo  abuso  sara'  tollerato  e in
prospettiva  persino gradito, dato che cio' costituira' occasione per
periodiche «contribuzioni» al bilancio statale.
    Ma  basta  enunciare  tale  prospettiva per rendere evidente come
essa   drasticamente   ripugni  ai  valori  costituzionali  trasformi
l'imperativo  della  legalita'  in  una  mera facolta' per chi voglia
semplicemente  vivere tranquillo, trasformi la tutela degli interessi
pubblici  e  dei valori costituzionali cui lo Stato e' chiamato in un
termine  meramente  economico,  rimpiazzabile  per  veri  o  presunti
equivalenti  monetari, secondo la necessita' dei governanti di trarre
fondi dai governati senza loro troppo dispiacere.».
    Come  sottolinea  la  sentenza  n. 416  del  1995,  «il  semplice
pagamento  di  oblazione non restaura mai l'ordine giuridico violato,
qualora   non  comporti  la  perdita  del  bene  abusivo  o  del  suo
equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale.
    In  questo  senso,  il  condono  edilizio  non  e' in nessun modo
paragonabile  ad altri condoni che pure comportino «clemenza» penale,
quali  i  condoni  fiscali.  Infatti,  se  anche  per  questi si pone
indubbiamente   il   problema  del  complessivo  sovvertimento  della
legalita',   e  dell'incoraggiamento  che  da  essi  deriva  a  nuove
illegalita',  va  pero'  osservato  che,  nell'oggetto  specifico, si
tratta  di  una  rinuncia  ad  una  pretesa economica in vista di una
diversa,  e  sia  pure  piu'  ridotta,  pretesa economica: sicche' la
questione  acquista, nel suo oggetto specifico, un connotato quasi di
transazione ordinaria in relazione ad una lite patrimoniale.
    Il   condono   edilizia  opera  invece,  anche  nel  suo  oggetto
specifico,  su  beni  e  interessi indisponibili e costituzionalmente
tutelati  della comunita'. Tali beni, costituzionalmente protetti sia
direttamente in se stessi, sia indirettamente mediante un equilibrato
riparto   di   competenze  tra  diversi  livelli  di  responsabilita'
territoriale,  appartengono  alla comunita' e non possono in linea di
principio essere scambiati con «denaro» da nessun livello di governo,
senza  contraddire  quella «gerarchia di valori» sottolineata proprio
nella giurisprudenza costituzionale.».
    Ne'  oggi  si  puo'  trovare  una  circostanza legittimante nella
«eccezionalita»  della  disciplina  del  condono,  ovviamente  oramai
venuta   meno:  non  si  potrebbe  certamente  ripetere  oggi  quanto
affermava  la  sentenza n. 369 del 1988, quando rilevava come andasse
«nettamente  distinto,  nella legge in esame la legge n. 47 del 1985,
cio'  che attiene al futuro, nel quale il legislatore, nel riordinare
la  materia,  non  ammette  in  alcun  modo  sanatorie  per  le opere
contrastanti  con  gli strumenti urbanistici, da cio' che riguarda il
passato».
    Non le vane promesse di ogni passeggero legislatore ordinario, ma
soltanto  il  rispetto  della Costituzione puo' garantire che in ogni
momento  presente,  e  non  ogni volta in un lontano futuro, i valori
costituzionali si realizzino nella vita sociale.
    Anche in relazione a questi vizi, e' chiaro che essi si traducono
in una lesione delle competenze costituzionali della regione, che - a
causa  del  condono  -  vede  illegittimamente  frustrata  la propria
attivita' legislativa ed amministrativa di govemo del territorio, nei
termini gia' esposti al punto precedente.
    4.  -  In  subordine: illegittimita' del comma 26. lettera a), in
quanto  subordina  la  sanabilita' alla legge regionale per gli abusi
minori in zone non vincolate, sottraendo alla decisione regionale gli
abusi maggiori e gli abusi minori in zone vincolate.
    Come  gia'  ricordato nella parte in fatto, il comma 26 determina
la  paradossale  situazione  per cui chi ha commesso abusi piu' gravi
puo'  senz'altro usufruire della possibilita' del condono, mentre chi
ha  commesso  abusi  meno  gravi  puo'  usufruirne  se  le regioni lo
prevedono. Sembra chiara la violazione dei principi di ragionevolezza
e  di eguaglianza (e mediatamente degli artt. 117 e 118 Cost., per la
ripercussione  di  quei vizi sulle competenze regionali in materia di
governo del territorio).
    La  differenza e' verosimilmente da ricondurre - nelle intenzioni
del  legislatore  -  al  fatto  che,  nel  d.  P.R.  n. 380/2001, gli
interventi  di  cui  al  comma  26,  lettera b), sono soggetti solo a
denuncia  di  inizio  attivita'  e  non  a permesso edilizio: ma tale
differenza  ha ripercussioni sul solo piano penalistico, mentre resta
costituzionalmente inaccettabile che gli illeciti amministrativi piu'
gravi  siano  senz'altro  condonabili mentre quelli meno gravi non lo
siano.
    Va  precisato  che ovviamente questa regione non impugna il comma
26,  lettera  b),  ma  il comma 26, lettera a) nella parte in cui non
condiziona la sanabilita' dell'illecito amministrativo all'intervento
di  una  legge  regionale  che  la  preveda. Infatti, in relazione ai
profili   amministrativi   dell'illecito   urbanistico,   non   trova
giustificazione  la  diretta sanabilita' degli interventi di cui alla
lettera  a)  e  l'eventuale  sanabilita' degli interventi di cui alla
lettera  b),  e la conformita' a Costituzione puo' essere ristabilita
nel  modo appena indicato. Sulla scindibilita' del profilo penale dal
profilo  dell'illecito  amministrativo  si  richiama  qui quanto gia'
esposto al punto 1.
    5.  -  In  subordine:  illegittimita' del comma 25, in quanto non
eccettua   dal   condono  gli  abusi  per  i  quali  il  procedimento
sanzionatorio sia gia' iniziato.
    Anche  nella  denegata  ipotesi  che le censure sopra esposte non
risultassero  da  condividere,  la  ricorrente  regione  ritiene  che
sarebbe  comunque  illegittimo  che  la  disciplina qui impugnata non
abbia  escluso  - dall'ambito di applicazione del condono - gli abusi
per i quali il procedimento sanzionatorio sia gia' iniziato.
    E'  chiaro, infatti, che, in casi di questo tipo, la possibilita'
di  condono  risulta  ancora piu' irragionevole e maggiormente lesiva
del  principio di buon andamento dell'amministrazione: perche' quando
il procedimento sanzionatorio e' gia' iniziato, il condono non arreca
alcun vantaggio al pubblico interesse, ne' in termini di «uscita allo
scoperto»  di  chi ha commesso l'abuso ne' in termini economici, dato
che spesso le sanzioni urbanistiche hanno carattere pecuniario.
    Si  puo' ricordare che, nella sentenza n. 369 del 1988 di codesta
Corte, si osservava che «il fondamento sostanziale dell'estinzione di
cui  all'art. 38  comma  2  legge  n. 47  del 1985 va ricercato nella
valutazione `positiva' che l'ordinamento compie dei comportamenti del
reo, successivi al reato (`autodenuncia'..., pagamento dell'oblazione
ecc), che inducono a credere ad un sia pur parziale `ritorno', anche'
se  non  del tutto spontaneo, dell'agente alla `normalita''» (punto 4
del  Diritto).  Pare  chiaro  che,  nei  casi  in cui il procedimento
sanzionatorio   sia  gia'  iniziato,  il  fondamento  dell'estinzione
dell'illecito  (non  solo  di  quello  penale,  ma  anche  di  quello
amministrativo)  sparisce.  Si  tenga inoltre presente che, sia nella
sentenza  n. 369/1988  (punto  6  del  Diritto)  sia  nella  sentenza
n. 416/1995  (punto  7  del  Diritto)  sia nella sentenza n. 427/1995
(punto  3  del  Diritto) la Corte costituzionale ha dato rilievo, per
giustificare  il  condono, all'inefficienza delle amministrazioni nel
controllo  sul territorio: inefficienza che non sussiste in relazione
agli abusi per i quali sia in corso il procedimento sanzionatorio.
    Premiare  chi  ha  violato le norme urbanistiche ed e' stato gia'
«scoperto»,   dunque,   e'   profondamente   irragionevole,  vanifica
l'attivita' gia' svolta dai comuni e disincentiva le future attivita'
di repressione, dato il carattere ormai ciclico dei condoni (se anche
questo fosse ritenuto legittimo).
    Anche  tali vizi, naturalmente, si traducono in una lesione delle
competenze  costituzionali  della  regione, che vede illegittimamente
frustrata  la  propria  attivita'  legislativa  ed  amministrativa di
governo del territorio.
    6. - In subordine: illegittimita' costituzionale dei commi 3, 25,
26, lettera a), 28, 32, 35, lettera b) e c), 37, 38, 40 e allegato 1,
in   quanto,   con   disciplina   dettagliata   ed   autoapplicativa,
stabiliscono  le  modalita',  i  termini  e  le procedure relative al
condono edilizio.
    E'  chiaro  che l'accoglimento di una delle censure di cui ai nn.
1,  2  e  3  implicherebbe  la  non  applicabilita'  delle  norme che
disciplinano  la  procedura  di  condono (o, qualora codesta Corte lo
ritenesse  necessario,  la  dichiarazione  della  loro illegittimita'
conseguenziale ex art. 27, legge n. 87/1953).
    Qualora,  invece,  in  denegata  ipotesi,  si'  ritenesse  che la
previsione di un nuovo condono sia, per qualunque e qui imprevedibile
ragione,  legittima,  si  dovrebbe  ad avviso della regione perlomeno
ammettere   l'illegittimita'   di   quelle  norme  di  dettaglio  che
stabiliscono  le  modalita',  i  termini  e  le procedure relative al
condono edilizio.
    Si  fa  riferimento, in particolare, alle norme (gia' individuate
nella  parte in Fatto) di cui ai commi 28 (concernente i termini), 32
(concernente  la  presentazione  della  domanda), 35, lettere b) e c)
(concernente  la  documentazione  da  allegare alla domanda), 37 (che
prevede  il  meccanismo  del silenzio-assenso), 38 (quanto meno nella
parte  in  cui  fa  riferimento  alla misura degli oneri concessori e
delle relative modalita' di versamento) e 40 (concernente i diritti e
gli oneri previsti per l'istruttoria della domanda di sanatoria).
    Nonostante quanto disposto dall'art. 32, comma 3 (secondo cui «le
condizioni,  i limiti e le modalita' del rilascio del predetto titolo
abilitativo   sono  stabilite  nel  presente  provvedimento  e  dalle
normative  regionali»)  e  comma  33  (secondo cui «le regioni, entro
sessanta  giorni  dall'entrata  in vigore del presente provvedimento,
emanano  norme  per  la  definizione  del procedimento amministrativo
relativo  al  rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria»)
il  decreto-legge disciplina il procedimento di condono con norme non
cedevoli,  dato  che,  in  casi specifici (gia' ricordati nel Fatto),
prevede poteri di intervento regionali.
    Ora,  la presenza di norme di dettaglio, per giunta non cedevoli,
potrebbe  giustificarsi  solo  sulla  base  di una competenza statale
esclusiva:  ma  non  si  vede  quale  materia  -  fra quelle previste
dall'art. 117 comma secondo, Cost. - possa comprendere le norme sulle
modalita',   sui  termini  e  sulle  procedure  relative  al  condono
edilizio.
    Qualora, invece, si ritenesse che, in virtu' dei commi 3 e 33, le
norme  di  dettaglio  di  cui  sopra  siano  cedevoli, esse sarebbero
comunque  illegittime. Si puo' ricordare che codesta Corte si e' gia'
espressa  sul punto, con un accenno nella sentenza n. 282/2002, punto
4  del  Diritto  («La  nuova  formulazione  dell'art.  117,  comma 3,
rispetto   a  quella  previgente  dell'art.  117,  comma  1,  esprime
l'intento di una piu' netta distinzione fra la competenza regionale a
legiferare  in  queste materie e la competenza statale, limitata alla
determinazione dei principi fondamentali della disciplina») e in modo
piu' chiaro nella sentenza n. 303/2003, punto 16 del Diritto, dove si
statuisce  l'inammissibilita' di norme statali di dettaglio cedevoli,
salvo  il  caso  che  cio' sia necessario per «assicurare l'immediato
svolgersi  di  fuzioni  amministrative  che  lo Stato ha attratto per
soddisfare  esigenze  unitarie  e  che  non possono essere esposte al
rischio  della  ineffettivita»  («Non  puo'  negarsi che l'inversione
della  tecnica di riparto delle potesta' legislative e l'enumerazione
tassativa  delle competenze dello Stato dovrebbe portare ad escludere
la  possibilita'  di  dettare  norme suppletive statali in materie di
legislazione concorrente, e tuttavia una simile lettura dell'art. 117
svaluterebbe  la  portata  precettiva dell'art. 118, comma primo, che
consente  l'attrazione  allo Stato, per sussidiarieta' e adeguatezza,
delle   funzioni   amministrative   e   delle   correlative  funzioni
legislative,  come  si e' gia' avuto modo di precisare. La disciplina
statale  di dettaglio a carattere suppletivo determina una temporanea
compressione   della   competenza   legislativa  regionale  che  deve
ritenersi   non   irragionevole,  finalizzata  com'e'  ad  assicurare
l'immediato  svolgersi  di  funzioni  amministrative  che lo Stato ha
attratto  per  soddisfare  esigenze unitarie e che non possono essere
esposte al rischio della ineffettivita»).
    Poiche'  le norme impugnate non attraggono funzioni allo Stato ex
art.  118,  comma 1, tanto e' vero che attribuiscono la competenza ai
comuni,  le  norme  statali  di dettaglio risultano, alla stregua dei
principi enunciati, chiaramente illegittime.
    Si  noti  che, nel caso di specie, la lesivita' di una disciplina
di   dettaglio,   seppure   in  ipotesi  astrattamente  cedevoli,  e'
particolarmente  evidente:  visto  che  le  domande di condono devono
essere  presentate  entro il 31 marzo 2004, ben poca utilita' avrebbe
una  legge  regionale  che  intervenisse  a  disciplinare il relativo
procedimento,  dato  che  essa si applicherebbe solo alle domande non
ancora  presentate:  con  ulteriore  disuguaglianza  e violazione del
principio di buon andamento dell'amministrazione.
    Dunque,  se  si  legittima  l'inserimento  di  norme di dettaglio
cedevoli  nelle  leggi statali, si rischia di legittimare il completo
esproprio  della  potesta'  legislativa  regionale,  nel  caso in cui
l'applicazione dei nuovi principi statali sia destinata ad esaurirsi,
per  volonta'  dello  stesso legislatore statale, in breve tempo. Ne'
pare  possibile  eccepire  che,  in casi come questi, e' l'urgenza di
applicazione  della  legge  statale  a giustificare l'invasione della
competenza  regionale.  A  parte  il fatto che proprio il caso che ci
occupa  dimostra come la valutazione di urgenza sia molto soggettiva,
un  equilibrato  bilanciam ento delle ipotetiche ragioni di urgenza e
dell'autonomia  regionale  potrebbe  giustificare, al massimo, che lo
Stato  detti una disciplina di dettaglio destinata ad operare qualora
le  regioni  non  si attivassero entro un certo termine, ma non certo
una  disciplina che immediatamente produca i suoi effetti, in pratica
annullando qualsiasi margine d'azione regionale.
    Ne   risulta   confermata   l'illegittimita'  delle  norme  sopra
indicate.
    7. - In subordine: ulteriore illegittimita' dei commi 25 e 35, in
quanto consentono di «far passare» per gia' costruite op ere in corso
di  costruzione  o  ancora di costruire. Violazione degli artt. 3, 9,
97, 117 e 118 Cost.
    Il  comma  25  dell'art. 32 estende il condono alle opere abusive
ultimate  entro  il  31 marzo 2003: dunque, solo sei mesi prima della
pubblicazione  del  decreto-legge  (l'art.  39  legge  n. 724/1994 si
applicava  alle  opere  ultimate  un  anno  prima,  l'art.  31  legge
n. 47/1985  alle  opere ultimate diciassette mesi prima). Il comma 32
prevede  che la domanda sia corredata dalla documentazione «di cui al
comma  35». Questo stabilisce che «la domanda di cui al comma 32 deve
essere corredata dalla seguente documentazione:
        a)  dichiarazione  del  richiedente resa ai sensi dell'art. 4
della  legge  4  gennaio  1968,  n. 15,  e successive modificazioni e
integrazioni,  con  allegata  documentazione fotografica, dalla quale
risulti  la  descrizione delle opere per le quali si chiede il titolo
abilitativo edilizio in sanatoria e lo stato dei lavori relativo;
        b)  qualora  l'opera  abusiva superi i 450 metri cubi, da una
perizia  giurata  sulle  dimensioni  e  sullo stato delle opere e una
certificazione  redatta  da  un tecnico abilitato all'esercizio della
professione attestante l'idoneita' statica delle opere eseguite;
        c)  ulteriore  documentazione  eventualmente  prescritta  con
norma regionale».
    Ora,   e'   intuitivo,   ed  e'  comprovato  dall'esperienza  dei
precedenti  condoni,  che, in assenza di norme rigorose sul punto, la
possibilita'  del condono fa sorgere la «tentazione» di «far passare»
per  gia'  costruite  opere  in  corso  di  costruzione  o  ancora da
costruire.  In altre parole, il condono, che ufficialmente e' rivolto
ad  eliminare  la  sanzionabilita'  degli  abusi  passati, in realta'
produce nuovi abusi presenti.
    I  commi 25 e 35 contengono norme che non fanno nulla per evitare
questa possibilita' e, anzi, la favoriscono.
    In  primis,  la  fissazione di un termine ad quem ravvicinato nel
tempo  rende  piu'  difficile se non impossibile distinguere le opere
ultimate  da  quelle  non ultimate, sia in relazione all'attivita' di
vigilanza  amministrativa (che ha avuto poco tempo per svolgersi) sia
in relazione allo stato di degrado dei materiali.
    Inoltre,   il   comma   35   si   accontenta,   in   pratica,  di
un'autocertificazione  per  la  prova  dello «stato dei lavori»; solo
«qualora  l'opera  abusiva  superi i 450 metri cubi» si richiede «una
perizia  giurata  sulle dimensioni e sullo stato delle opere» (che, a
quanto   pare,  dovrebbe  esser  anch'essa  redatta  «da  un  tecnico
abilitato  all'esercizio della professione», anche se, letteralmente,
il  tecnico  e'  menzionato  solo con riferimento alla certificazione
sull'idoneita' statica).
    Ora,  e'  evidente che questa norma, collegata a quella che fissa
il  dies  ad quem al 31 marzo 2003, rende concreta la possibilita' di
«far  passare» per gia' costruite opere che in quella data erano solo
in  corso  di  costruzione  e, addirittura, si presta ad incoraggiare
nuove  costruzioni  abusive  e  condonabili,  data  la difficolta' di
verificare la veridicita' dell'autocertificazione.
    E'  del  tutto  irragionevole  una norma che fa affidamento sulla
sincerita'  di  chi ha gia' commesso un abuso; le ragioni della buona
amministrazione  e della tutela del territorio (e dunque gli artt. 9,
97,  117  e  118  Cost.) non solo sono menomate dalla sanatoria delle
opere  realmente  ultimate  ma sono ulteriormente poste a repentaglio
dalla  possibilita',  insita  nelle norme di cui sopra, di perpetrare
nuovi abusi e di farli condonare.
    Ne'   si  dica  che  l'amministrazione  puo'  dimostrare  la  non
preesistenza dell'opera:
        perche'   e'   veramente   chiedere  una  probatio  diabolica
pretendere   che  il  comune  sia  in  grado  di  dimostrare  che  un
determinato manufatto edilizio non esisteva nel marzo 2003!
    Dunque, il comma 35 e' illegittimo nella parte in cui non prevede
in  tutti  i casi la necessita' che il costruttore o il direttore dei
lavori  attesti,  sotto  la  propria  responsabilita'  anche  penale,
l'ultimazione  dei lavori alla data prevista. Se pure anche in questo
modo non si potrebbe escludere la possibilita' di falsi attestati, e'
tuttavia   evidente  in  primo  luogo  che  una  dichiarazione  falsa
nell'interesse  di terzi e' meno probabile di una dichiarazione falsa
nell'interesse  proprio,  e inoltre che, dovendo in questa ipotesi di
regola  la  dichiarazione  essere fatta da professionisti, la perizia
falsa  rappresenterebbe  un  illecito  particolarmente grave e dunque
poco probabile.
    Dal  canto  suo,  il  comma 25 e' illegittimo, per violazione dei
medesimi  parametri, nella parte in cui fissa il termine del 31 marzo
2003  anziche'  uno  piu'  risalente, che potrebbe essere individuato
considerando quale minimo intervallo ragionevole per la condonabiita'
di  abusi  passati  quello  fissato  a  suo  tempo dall'art. 31 legge
n. 47/1985.
    8.  -  In  subordine:  ulteriore  illegittimita' del comma 37, in
quanto  prevede  un  meccanismo di silenzio-assenso. Violazione degli
art. 3, 9, 97, 117 e 118 Cost.
    Il comma 37 prevede che, avvenuti alcuni adempimenti, «il decorso
del  termine  di  ventiquattro  mesi [dal 30 settembre 2004]... senza
l'adozione  di un provvedimento negativo del comune equivale a titolo
abilitativo  edilizio  in  sanatoria».  Il  d.l. n. 269/2003, dunque,
prevede  il meccanismo del silenzio-assenso in relazione alle domande
di  sanatoria, laddove tale istituto non e' contemplato neppure dalla
disciplina   generale  del  permesso  edilizio  (v.  art. 20,  d.P.R.
n. 380/2001).
    Pare  chiara  l'irragionevolezza  di  una  norma  che consente la
sanatoria  degli abusi, con tutte le rilevanti conseguenze, in virtu'
del  solo  decorso del tempo. Tale norma viola gli artt. 9, 97, 117 e
118   Cost.,   perche'   rende  eventuale  il  controllo  dei  comuni
sull'ammissibilita'  delle  domande di condono, ledendo ulteriormente
le competenze regionali in materia di governo del territorio.
    La  lesivita'  della norma pare ulteriormente aggravata dal fatto
che,  nel  caso  di  specie, non sembra applicabile la norma generale
dell'art. 20  legge n. 241/1990, che attribuisce all'amministrazione,
nei  «casi»  di cui al primo periodo dell'art. 20, comma 1, il potere
di  annullare  l'atto  di  assenso  illegittimatuente formato. Ma, se
anche  si  ritenesse che i comuni possano annullare le concessioni in
sanatoria  «sorte»  in  virtu'  del silenzio protratto per il termine
previsto,  nell'esercizio  di  un  potere  generale di autotutela, la
norma  sarebbe  comunque  illegittima, perche', nel momento in cui si
decide  di  sanare,  a  certe  condizioni, gli stravolgimenti operati
abusivamente   sul  territorio,  occorre  che  almeno  le  condizioni
richieste   siano   verificate.   E'   del   tutto   irragionevole  e
discriminatorio   assoggettare   le   domande   di  permesso  che  si
riferiscono ad opere sicuramente abusive (perche' dichiarate tali dal
richiedenti)  ad  un regime di verifica meno severo di quello vigente
per  le  domande di permesso che vengono dichiarate dagli interessati
conformi alla disciplina urbanistica.
    Ne'  varrebbe  obbiettare  che,  sul  piano del fatto, il termine
previsto  e'  sufficientemente  lungo  perche'  i comuni si attivino,
perche'  proprio  il  numero  delle  domande  che  contemporaneamente
vengono   presentate   ovviamente   aggrava   la   situazione   delle
amministrazioni  e  ne  prolunga  i  tempi  di azione, come la stessa
esperienza dei precedenti condoni ampiamente conferma.
    9.  -  In  subordine:  ulteriore  illegittimita' del comma 25, in
quanto  prevede  un  limite  di  volume  per  ogni singola richiesta.
Violazione degli artt. 3, 9, 97, 117 e 118 Cost.
    L'art. 32, comma 25, d.l. n. 269/2003, come gia' l'art. 39, legge
n. 724/1994,   prevede  che  siano  sanabili  le  «nuove  costruzioni
residenziali  non  superiori  a  750 mc per ogni singola richiesta di
titolo abilitativo edilizio in sanatoria».
    Tale  norma  appare irragionevole e lesiva dei paramenti indicati
in  epigrafe nella parte in cui non precisa che non sono ammesse piu'
richieste riferite alla medesima area: e' chiaro, infatti, che, anche
alla   luce  di  quanto  previsto  dall'art. 39,  legge  n. 724/1994,
potrebbero  essere  stati costruiti edifici attigui, ognuno dei quali
rispettoso  del  limite  di  volume  sanabile,  al fine di eludere il
limite stesso. Cio' arrecherebbe un'ulteriore vulnus alle esigenze di
tutela del territorio e alle relative competenze regionali.
    10. - In subordine: illegittimita' costituzionale dei commi 1, 2,
3, 25, 26, lett. a) in quanto contenuti in un decreto-legge.
    A)   Violazione   del   principio   di   leale  collaborazione  e
dell'art. 2,  d.lgs.  n. 281/1997  per  mancato  coinvolgimento delle
autonomie regionali.
    A  quanto  risulta, ne' in sede di adozione del decreto legge ne'
in  sede di adozione del disegno di legge di conversione le autonomie
regionali    sono   state   consultate   attraverso   la   Conferenza
Stato-regioni.  Poiche',  come  visto,  la  disciplina  qui impugnata
riguarda materie di competenza regionale, tale mancato coinvolgimento
lede  il principio di leale collaborazione, espressamente sancito ora
nel titolo V della Costituzione.
    In  particolare,  risulta  violato  l'art.  2,  comma  3,  d.lgs.
n. 281/1997,  in  base  al  quale  «la  Conferenza  Stato-regioni  e'
obbligatoriamente sentita in ordine agli schemi di disegni di legge e
di  decreto legislativo o di regolamento del Governo nelle materie di
competenza  delle  regioni  o  delle province autonome di Trento e di
Bolzano».  Ne'  si'  puo'  obiettare  che,  nel  caso  di  specie, la
consultazione  non  era possibile, dato che l'art. 2, comma 5, d.lgs.
n. 281  disciplina  espressamente  i  casi  di  urgenza:  «quando  il
Presidente del Consiglio dei ministri dichiara che ragioni di urgenza
non   consentono   la   consultazione   preventiva,   la   Conferenza
Stato-Regioni e' consultata successivamente ed il Governo tiene conto
dei  suoi  pareri:  a)  in  sede di esame parlamentare dei disegni di
legge o delle leggi di conversione dei decreti-legge».
    Dunque,   la   mancata  consultazione  della  Conferenza  risulta
comunque illegittima.
    Si  tenga presente, per comprendere l'importanza del principio di
leale  collaborazione  nel  nuovo titolo V, anche il modo in cui esso
viene  concretato  dall'art. 11 legge cost. n. 3/2001. La circostanza
che   non  sia  ancora  stata  realizzata  la  speciale  composizione
integrata  della  commissione parlamentare per le questioni regionali
non   toglie   che   il  principio  di  partecipazione  regionale  al
procedimento legislativo delle leggi statali ordinarie, quando queste
intervengono  in  materia  di competenza concorrente, ha ora espresso
riconoscimento costituzionale.
    Del  resto,  e'  da sottolineare che codesta Corte costituzionale
gia'  nella sent. n. 398 del 1998 (punto 16 del Diritto) ha annullato
una  norma  legislativa  statale incidente sulle competenze regionali
per   mancato   coinvolgimento   delle   regioni   nel   procedimento
legislativo.
    B) Inidoneita' del decreto-legge a porre principi fondamentali ex
art. 117, comma 3, Cost.
    Si  e'  gia'  visto  che in nessun modo la previsione del condono
puo'  essere  considerato  «principio fondamentale» nelle materie del
governo del territorio e del coordinamento della finanza pubblica. Si
vuole  qui  aggiungere  che,  se anche codesta Corte non condividesse
tale  conclusione,  comunque  si  dovrebbe  ritenere incostituzionale
l'uso del decreto-legge per porre principi fondamentali nelle materie
di  competenza  concorrente, dato che, per propria natura, i principi
fondamentali  devono  avere  carattere  di  stabilita', dovendo anche
fungere  da  guida  della  legislazione  regionale,  per cui essi non
possono  essere fissati in una fonte per sua natura precaria quale il
decreto-legge.
    In  tal  senso  si  e'  pronunciata  codesta  Corte  nella  sent.
n. 271/1996,  alla  quale  si  puo'  accostare  la sent. n. 496/1993,
relativa  al  ricorso  per  mancato  adeguamento  di  cui  al  d.lgs.
n. 266/1992  («sarebbe  del  tutto  irragionevole  pretendere  che il
legislatore  provinciale  faccia  affidamento,  ai fini dell'opera di
adeguamento delle proprie discipline normative, su disposizioni, come
quelle   del   decreto-legge,  che  sono  efficaci  soltanto  in  via
provvisoria  e che, per effetto dell'eventuale mancata conversione in
legge,  potrebbero  successivamente  perdere ogni efficacia sin dalla
loro origine»: punto 3 del Diritto).