ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 307 e 384 del
codice penale, promosso con ordinanza del 31 ottobre 2002 dal giudice
per  le  indagini  preliminari  del  Tribunale di Reggio Calabria nel
procedimento penale a carico di G.P., iscritta al n. 177 del registro
ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 15, prima serie speciale, dell'anno 2003.
    Udito  nella  camera di consiglio del 10 dicembre 2003 il giudice
relatore Gustavo Zagrebelsky.
    Ritenuto che il giudice per le indagini preliminari del Tribunale
di  Reggio Calabria, con ordinanza del 31 ottobre 2002, ha sollevato,
in  riferimento  agli  artt. 2  e  3 della Costituzione, questione di
legittimita'  costituzionale degli artt. 307 e 384 del codice penale,
nella parte in cui «non includono nella nozione di prossimi congiunti
anche il convivente more uxorio, oltre al coniuge, finanche' separato
di fatto o legalmente»;
        che  nel  giudizio  principale  si  procede  nei confronti di
persona  imputata  del  reato  di favoreggiamento personale (art. 378
cod.  pen.),  per  avere  fornito  alloggio ed ospitalita' al proprio
convivente  more  uxorio,  favorendo  in  tal  modo  la  latitanza di
quest'ultimo;
        che, posta questa premessa di fatto, il giudice a quo ritiene
che  le  norme  impugnate  contrastino con i parametri costituzionali
evocati,  in  quanto, dal loro combinato disposto, risulta esclusa la
possibilita' che la persona che abbia compiuto uno dei reati indicati
dall'art. 384,  primo  comma,  cod.  pen.  -  tra  cui  il  reato  di
favoreggiamento  personale  -,  perche' costretta dalla necessita' di
salvare  il  proprio convivente more uxorio da un grave e inevitabile
nocumento  nella liberta' o nell'onore, possa giovarsi della causa di
non  punibilita'  apprestata  dallo  stesso art. 384 cod. pen. solo a
favore  di  chi  abbia  commesso  il  fatto  per salvare un «prossimo
congiunto»,  nozione  che,  ai sensi dell'art. 307, quarto comma, non
include il convivente di fatto;
        che,  in particolare, le norme impugnate contrasterebbero con
il  principio  di ragionevolezza la' dove esse apprestano un difforme
trattamento a due situazioni, quella del convivente more uxorio e del
coniuge,   ormai  pienamente  assimilabili,  poiche',  a  fronte  del
medesimo  elemento  qualificante  costituito  dalla convivenza tra le
persone  basata  su  una  stabile  relazione affettiva, sarebbe ormai
irrilevante  il  dato  formale  dello  status coniugale alla luce sia
dell'evoluzione   dei   costumi  sociali,  sia  della  giurisprudenza
ordinaria  -  che  ha  ad  altri  fini  assimilato i due casi -, sia,
infine,  della  legislazione,  in particolare dell'art. 199, comma 3,
lettera a),  cod. proc. pen., che ha esteso al convivente di fatto la
facolta' di astenersi dal rendere testimonianza;
        che  tali argomentazioni, ad avviso del rimettente, sarebbero
da  un  lato  sufficienti  a considerare superate le argomentazioni -
incentrate sulla non assimilabilita' delle due situazioni - formulate
dalla  Corte  costituzionale  nel rigettare una analoga questione con
sentenza  n. 237  del 1986, e, dall'altro lato, renderebbero altresi'
evidente  la violazione dell'art. 2 della Costituzione da parte delle
norme impugnate, a causa dell'insufficiente tutela da esse apprestata
alla  famiglia  di fatto, quale formazione sociale che, al pari della
famiglia legittima, rende possibile lo svolgimento della personalita'
dell'individuo.
    Considerato  che  il  giudice  per  le  indagini  preliminari del
Tribunale  di Reggio Calabria dubita, in riferimento agli artt. 2 e 3
della Costituzione, della legittimita' costituzionale degli artt. 307
e  384 del codice penale, nella parte in cui, prevedendo (l'art. 384,
primo  comma)  una causa di non punibilita' per taluni reati a favore
di  chi  li abbia commessi per la necessita' di salvare da un grave e
inevitabile   nocumento  nella  liberta'  o  nell'onore  un  prossimo
congiunto,  e  fornendo  (l'art. 307,  quarto  comma),  la nozione di
«prossimo  congiunto»  agli effetti della legge penale, non includono
nell'ambito  di applicazione della causa di non punibilita' colui che
commette  gli  stessi  fatti  per la necessita' di salvare il proprio
convivente more uxorio;
        che argomentazioni analoghe a quelle formulate dal rimettente
a sostegno della piena assimilabilita' delle situazioni di coniugio e
convivenza  di  fatto  sono  state  rigettate  da questa Corte con la
sentenza  n. 8  del  1996  - pronuncia che il giudice a quo omette di
considerare   -   nel  dichiarare  in  parte  infondata  e  in  parte
inammissibile  analoga  questione,  essendosi  ribadito come esistano
nell'ordinamento   ragioni   costituzionali   che   giustificano   un
differente trattamento normativo tra i due casi, trovando il rapporto
coniugale  tutela  diretta nell'art. 29 della Costituzione, mentre il
rapporto  di  fatto fruisce della tutela apprestata dall'art. 2 della
Costituzione   ai  diritti  inviolabili  dell'uomo  nelle  formazioni
sociali;
        che,   nella   citata  pronuncia,  questa  Corte  ha  inoltre
sottolineato   che,   se   da  un  lato  la  distinta  considerazione
costituzionale  della convivenza e del rapporto coniugale non esclude
affatto   la  comparabilita'  delle  discipline  riguardanti  aspetti
particolari  dell'una e dell'altro che possano presentare analogie ai
fini  del  controllo  di  ragionevolezza  a  norma  dell'art. 3 della
Costituzione  (cfr.,  a tale proposito, la sentenza n. 416 del 1996),
dall'altro  lato,  tuttavia,  al  di fuori di tali specifici casi che
possono   rendere   necessaria  una  identita'  di  disciplina,  ogni
intervento  in  tal senso rientra nella sfera di discrezionalita' del
legislatore;
        che,  pertanto,  sotto  il  profilo della asserita violazione
dell'art. 3  della Costituzione non v'e' ragione di discostarsi dalle
conclusioni raggiunte nella citata sentenza n. 8 del 1996, tanto piu'
che  «un'eventuale dichiarazione di incostituzionalita' che assumesse
in  ipotesi  la  pretesa  identita'  della  posizione  spirituale del
convivente  e  del coniuge, rispetto all'altro convivente o all'altro
coniuge,   oltre   a  rappresentare  la  premessa  di  quella  totale
equiparazione  delle  due  situazioni  che [...] non corrisponde alla
visione  fatta  propria  dalla  Costituzione, determinerebbe ricadute
normative conseguenziali di portata generale che trascendono l'ambito
del  giudizio  incidentale  di legittimita' costituzionale» (sentenza
n. 8 del 1996);
        che,   quanto  alla  asserita  violazione  dell'art. 2  della
Costituzione  - parametro considerato nella citata pronuncia n. 8 del
1996  come  pertinente  alla  tutela  della convivenza di fatto -, le
sopra   esposte   considerazioni,   e   in  particolare  la  difforme
considerazione  dei  due casi (art. 2 per la convivenza e art. 29 per
il  coniugio),  portano  ad  escludere  che si possa configurare come
costituzionalmente  necessaria  una tutela del rapporto di convivenza
che   passi   attraverso   il  riconoscimento  di  una  generalizzata
esclusione  della  punibilita' delle condotte indicate dall'art. 384,
primo  comma,  cod.  pen.,  qualora  poste  in  essere per salvare il
proprio  convivente  more uxorio da un grave e irreparabile nocumento
nella liberta' o nell'onore;
        che,   di   conseguenza,  sotto  tale  ulteriore  profilo  la
questione di costituzionalita' e' manifestamente infondata.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.