IL TRIBUNALE

    Ritenuto  che  deve  essere  sollevata  questione di legittimita'
costituzionale   dell'art.  14,  comma  5-ter,  prima  parte,  d.lgs.
n. 286/1998  come  sostituito  dall'art.  1,  comma  5-bis  legge  12
novembre  2004,  n. 271 (che ha convertito in legge con modificazioni
il d.l. 14 settembre 2004, n. 241) nella parte in cui prevede la pena
della  reclusione  da  uno  a quattro anni per lo straniero che senza
giustificato  motivo  si  trattiene  nel  territorio  dello  Stato in
violazione  dell'ordine  impartito  dal  questore  ai sensi del comma
5-bis  in  riferimento agli artt. 3 e 27, comma 3 della Costituzione,
rileva quanto segue:
        l'imputata  e'  stata  arrestata  il  3  dicembre  2004 nella
flagranza  del  reato  di  cui  all'art. 14,  comma  5-ter del d.lgs.
n. 286/1998. Il decreto di espulsione, fondato sui motivi di cui alla
lettera  a)  dell'art. 13,  comma 2, d.lgs. cit. el'ordine emesso dal
questore  ai  sensi  dell'art. 14  comma  5-bis,  tradotti  in lingua
francese  sono  stati  notificati  all'imputata  il  14 ottobre 2003.
L'imputata  non  ha  allegato  giustificato  motivo  per  la  propria
inottemperanza  all'ordine.  La  richiesta  dell'imputata  di  essere
giudicata  con  rito abbreviato e' stata accolta ed e' stata conclusa
la  discussione.  Pertanto, ove si dovesse pervenire ad una condanna,
la  pena  comminata dovrebbe essere quella prevista della norma della
cui legittimita' costituzionale si dubita.
    Appare  necessaria  una  breve  premessa sull'iter che ha portato
all'attuale formulazione della norma
        il   testo   originario  dell'art. 14  non  prevedeva  alcuna
sanzione   penale   per  lo  straniero  che  non  avesse  ottemperato
all'ordine emesso da questore in esecuzione del decreto di espulsione
del prefetto;
        la  fattispecie  penale  di  cui trattasi e' stata introdotta
dalla  legge  n. 189/2002,  come reato contravvenzionale punibile con
l'arresto  da sei mesi a un anno, prevedendo per tale reato l'arresto
obbligatorio;
        con   la   sentenza  n. 223  del  15  luglio  2004  la  Corte
costituzionale    ha   dichiarato   l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 14,  comma  5-quinquies  per contrasto con gli artt. 3 e 13
Cost.  «nella  parte  in cui stabilisce che per il reato previsto dal
comma   5-ter   del   medesimo   art. 14  e'  obbligatorio  l'arresto
dell'autore  del  fatto»,  per  la  manifesta  irragionevolezza della
previsione  di  misura  precautelare  non suscettibile di sfociare in
alcuna misura cautelare in base al vigente ordinamento processuale;
        e'  quindi intervenuto il d.l. 14 settembre 2004, n. 241, che
non  modificava  per  la  fattispecie in esame la pena prevista dalla
legge  n. 189/2002,  ma  riformulava  il  testo  dell'art. 14,  comma
5-quinquies  limitando  l'arresto  obbligatorio all'ipotesi di cui al
comma 5-quater (reingresso nel territorio dello Stato dello straniero
espulso),  gia'  prevista  come delitto punibile con la reclusione da
uno a quattro anni;
        in  sede  di  conversione  del  d.l.  citato  il reato di cui
all'art. 14, comma 5-ter veniva previsto come delitto punibile con la
reclusione  da  uno  a  quattro  anni  (ad  eccezione dell'ipotesi di
espulsione  motivata  dall'essere  scaduto  il permesso di soggiorno,
ipotesi  per  la  quale  veniva mantenuta la pena dell'arresto da sei
mesi a un anno); veniva nuovamente stabilito l'arresto obbligatorio.
    E'  dunque intervenuto un notevole inasprimento della pena, della
cui proporzionalita' e ragionevolezza si dubita.
    Deve  essere  qui  richiamato  il criterio costantemente adottato
dalla    Corte    costituzionale,    che,    pur    riservando   alla
«discrezionalita'   del  legislatore  stabilire  quali  comportamenti
debbano essere puniti, determinare quali debbano essere la qualita' e
la   misura   della  pena  ed  apprezzare  parita'  e  disparita'  di
situazioni»,   ha   pero'   affermato   che   «l'esercizio   di  tale
discrezionalita'  puo'  essere  censurato quando esso non rispetti il
limite  della  ragionevolezza e dia quindi luogo ad una disparita' di
trattamento  palese  e  ingiustificata»  (sentenza n. 25 del 1994; il
principio  e'  richiamato  anche  nella  sentenza  n. 333  del  1992,
nell'ordinanza  n. 220  del  1996,  nella  sentenza  n. 84 del 1997).
Ancora, e' stato chiarito (sentenza 409 del 1989) che il principio di
uguaglianza,  di cui all'art. 3, primo comma, Cost. esige che la pena
sia  proporzionata  al disvalore del fatto illecito commesso, in modo
che  il  sistema  sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di
difesa  sociale  ed  a quella di tutela delle posizioni individuali».
Tale  funzione  non verrebbe adempiuta qualora non venisse rispettato
il  limite  della  ragionevolezza.  A  cio' si aggiunge (sempre nella
sentenza  citata) che il principio di proporzionalita' porta a negare
legittimita'  alle  «incriminazioni  che,  anche  se  presumibilmente
idonee  a  raggiungere  finalita' statuali di prevenzione, producono,
attraverso   la   pena,   danni   all'individuo   (ai   suoi  diritti
fondamentali)  ed  alla  societa'  sproporzionatamente  maggiori  dei
vantaggi  ottenuti  (o da ottenere) da quest'ultima con la tutela dei
beni  e  dei  valori  offesi  dalle  predette incriminazioni». Questo
principio  e' ora recepito anche dalla Costituzione Europea («le pene
inflitte   non  devono  essere  sproporzionate  rispetto  al  reato»,
art. II-109).
    Inoltre, la Corte ha ripetutamente affermato (sentenze n. 313 del
1995 e n. 343 del 1993) che la manifesta mancanza di proporzionalita'
rispetto  ai  fatti  reato  vanifica  il  fine rieducativo della pena
sancito dall'art. 27, comma 3 Cost.
    In  primo  luogo, poiche' il dubbio di costituzionalita' riguarda
un  inasprimento  della  pena, non puo' omettersi di ricordare quanto
affermato  dalla  Corte  costituzionale  su  un'eccezione concernente
l'elevazione  nel  1991  del  minimo  edittale  per  il  reato di cui
all'art. 629    c.p.    Nel   dichiarare   manifestamente   infondata
l'eccezione,  la Corte (ordinanza n. 368 del 1995) ritenne rispettato
il  limite  della ragionevolezza rilevando che l'inasprimento in quel
caso   non   dava  luogo  «a  macroscopiche  differenze  rispetto  al
trattamento   sanzionatorio   previsto  per  il  reato  di  rapina  -
fattispecie  peraltro  non  del  tutto  assimilabile  a  quella della
estorsione».
    La  questione  oggi in esame e' totalmente diversa per due ordini
di ragioni.
    Innanzitutto,  l'inasprimento  e',  in  questo  caso,  certamente
macroscopico:  il massimo edittale della pena detentiva in precedenza
prevista  per  lo  stesso  fatto,  qualificato  come contravvenzione,
corrisponde ora al minimo edittale previsto per il delitto.
    In secondo luogo, l'aumento di pena per il delitto di estorsione,
come  rileva tra le righe la Corte con il riferimento alla «difficile
individuazione    in    concreto   dell'aggravante   di   far   parte
dell'associazione   di  tipo  mafioso»,  costituiva  la  risposta  al
fenomeno  del  «pizzo»  emerso  con  particolare  gravita'  in alcune
regioni nel corso degli anni ottanta e, quindi, a decenni di distanza
(e  quindi  in  un  contesto  sociale  certamente  diverso) da quando
vennero scritte le sanzioni per la rapina e l'estorsione.
    Una   simile   ragione   non   e'   invece   dato  rinvenire  per
l'inasprimento  di pena per lo straniero che non ottempera all'ordine
del  questore.  Nei soli due anni che intercorrono tra legge n. 189 e
la  legge  n. 271  il  fenomeno  dell'immigrazione  clandestina  (per
contrastare  il quale vennero scritte le norme della legge n. 189 del
2002) non ha subito variazioni tali da giustificare la conversione in
delitto    dell'inottemperanza    dello   straniero   all'ordine   di
allontanamento   del   questore  l'elevazione  macroscopica  di  pena
introdotta  in sede di conversione in legge del d.l. n. 241/2002. Ne'
una  tale giustificazione si rinviene nella relazione all'emendamento
del  d.l.  n. 241/2004  che ha introdotto una sanzione cosi' elevata,
posto  che  i  relatori fanno riferimento soltanto alla necessita' di
adeguarsi  alla  sentenza n. 223 del 2004 della Corte costituzionale,
intendendo tale adeguamento come un inasprimento della pena, cosi' da
consentire  l'arresto  obbligatorio  per  coloro  che non ottemperino
all'ordine  del  questore. Che questo fosse l'unico fine per il quale
e'  stata elevata in misura cosi' rilevante la sanzione e' confermato
dall'essere  la  stessa pena prevista per il fatto di chi rientra nel
territorio  nazionale  dopo un'espulsione disposta dal giudice (fatto
evidentemente  ben piu' grave, in quanto presuppone la commissione di
un  reato  o  quantomeno  la  pendenza di un procedimento penale). E'
evidente  che la trasposizione di un'esigenza processuale nel diritto
penale  sostanziale non integra il criterio della ragionevolezza e si
pone  in  contrasto con i principi costituzionali posti dagli artt. 3
e 27, comma 3 Cost.
    Per  valutare  se  l'inasprimento  di pena introdotto dalla legge
n. 271/2004  sia  compatibile  con  l'art. 3  Cost.  si deve poi fare
riferimento  a  norme  incriminatrici  poste  a  tutela  degli stessi
interessi   (individuati   nell'ordine  pubblico  e  nella  sicurezza
pubblica)  con  previsione  di  analoghe  modalita' di condotta. Tale
comparazione  e'  stata effettuata dalla Corte costituzionale al fine
di  valutare  la  proporzionalita'  e  la  ragionevolezza  della pena
prevista  per  il reato di cui all'art. 8, comma 2, legge n. 772/1972
(sentenza  n. 409 del 1989) e della pena prevista per il reato di cui
all'art. 341 c.p. (sentenza n. 341 del 1994).
    In  questo  caso,  deve essere preso in considerazione l'art. 650
c.p., che punisce con l'arresto fino a tre mesi o con la sola ammenda
l'inottemperanza  ad  un provvedimento legalmente dato dall'autorita'
per ragioni di sicurezza pubblica o d'ordine pubblico. Ancora, sempre
alla  tutela  dell'ordire  pubblico  e  della  pubblica  sicurezza e'
ispirata  la  fattispecie di cui all'art. 2 della legge n. 1423/1956.
Anche qui vi e' un ordine della pubblica autorita' (il questore, come
nella fattispecie di cui all'art. 14 comma 4-ter) concernente persone
ritenute  «pericolose  per  la sicurezza pubblica» (si osserva che si
tratta  non  di una pericolosita' «potenziale», quale e' quella dello
straniero  clandestino, ma di una pericolosita' concreta) e anche qui
l'inottemperanza  configura  una  contravvenzione,  per  la  quale e'
previsto  l'arresto  da  uno a sei mesi. Marginalmente si osserva che
completamente   diversa   e'  la  fattispecie  del  delitto  previsto
dall'art. 9  della  legge citata. Si tratta della violazione da parte
del  sorvegliato  speciale  dell'obbligo  o  del divieto di soggiorno
impostogli  dal  tribunale  e,  sebbene  gli interessi tutelati dalla
norma  siano  ancora  quelli  della  sicurezza pubblica e dell'ordine
pubblico,  non  soltanto  vi  e'  una  valutazione  in concreto della
pericolosita'  sociale (effettuata dal tribunale e non dall'autorita'
amministrativa),  ma  soprattutto  e'  prevista  una  condotta attiva
dell'autore,  consistente  nella  violazione  di  un  obbligo o di un
divieto  (anche  questo imposto dal tribunale) al quale e' gia' stata
data  esecuzione  a  cura  del questore (art. 7, legge cit.) e quindi
nell'allontanamento  dal  luogo  di  soggiorno  obbligato  ovvero nel
ritorno nel territorio per il quale sussiste il divieto. L'ipotesi in
questione  potrebbe quindi costituire parametro di riferimento per il
delitto  previsto  dall'art. 14 comma 5-quater del d.lgs. n. 286/1998
(reingresso  dello  straniero espulso nel territorio dello Stato), ma
non per la norma oggetto della presente questione, norma che sanziona
la mera inosservanza di un ordine dell'autorita' di polizia.
    Coerentemente  con le sanzioni dettate per analoghe violazioni il
legislatore del 2002 aveva previsto come contravvenzione l'ipotesi di
cui  all'art. 14  comma 5-ter, potendo a maggiore pena (da sei mesi a
un  anno di arresto) dettata per lo straniero (inottemperante, ma non
necessariamente  pericoloso) trovare giustificazione nell'esigenza di
contrastare  il  fenomeno  dell'immigrazione clandestina, inesistente
all'epoca   della   redazione   del   codice  penale  e  della  legge
n. 1423/1956.  Sussiste invece una rilevante sproporzione tra la pena
ora  prevista  per  la  stessa ipotesi, configurata come delitto e le
sanzioni  penali dettate per le contravvenzioni (ad essa analoghe) di
cui agli artt. 650 c.p. e 2 legge n. 1423/1956.
    L'irragionevolezza  sussiste  dunque  sotto  un duplice profilo e
cioe'  sia con riferimento alla pena che il legislatore solo due anni
prima  aveva  ritenuto  congrua  per  l'ipotesi  in  esame,  sia  con
riferimento alle pene previste per analoghe fattispecie.
    Come  si  e'  visto,  la  Corte  ha  ripetutamente  affermato che
l'art. 3  Cost.  impone  che  il  bilanciamento  tra gli interessi da
tutelare  e  il  bene  della liberta' personale (che, se si tratta di
straniero,  non  e'  per  questo  di  rango  inferiore  a  quello del
cittadino)  venga  effettuato  con riferimento alle sanzioni previste
per condotte analoghe, che minacciano gli stessi interessi e che solo
quando   la   sanzione  penale  viene  stabilita  con  la  necessaria
proporzionalita'  la  pena  puo' avere la funzione rieducativa di cui
all'art. 27 comma 3 Cost.