IL TRIBUNALE

    Ha emesso la seguente ordinanza.
    Visti  gli  atti  del  proc.  penale  con  rito  direttissimo nei
confronti  di Lami Albert, cittadino albanese, arrestato l'11 ottobre
2005  per  violazione  dell'art.  13, comma 13 del d.lgs. n. 286/1998
come modificato dalla legge 12 novembre 2004, n. 271, come sostituito
dalla  legge 12 novembre 2004, n. 271, perche' espulso dal territorio
nazionale con provvedimento del Prefetto di Livorno di data 12 maggio
2005  notificato  in pari data, faceva rientro in territorio italiano
senza   una   speciale   autorizzazione  del  Ministro  dell'interno,
accertato in Gorizia l'11 ottobre 2005.
    Rilevato   che  non  essendo  state  richieste  misure  cautelari
l'imputato   e'   stato   rimesso   in  liberta'  dopo  la  convalida
dell'arresto,  che  prima  dell'apertura  del dibattimento imputato e
difensore hanno chiesto l'applicazione di pena ex art. 444 c.p.p. nei
seguenti  termini:  pena  base  un  anno di reclusione ridotta per le
attenuanti  generiche a 8 mesi di reclusione e per il rito a 5 mesi e
10 giorni di reclusione, pena sospesa.
    Rilevato   che   il   p.m.  ha  prestato  il  consenso,  ritenuto
preliminarmente  di  dover  escludere  il proscioglimento ex art. 129
c.p.p.  in  quanto  il provvedimento di espulsione appare legittimo e
risulta  di fatto ottemperato, come pure provato appare il rientro in
Italia  senza  autorizzazione,  va  affrontata  la  valutazione sulla
congruita' della pena proposta e da applicare.
    Appare  sotto  questo profilo rilevante il dubbio di legittimita'
costituzionale,  che  viene  sollevato  d'ufficio, della norma di cui
all'art.  13,  comma  13,  d.lgs. n. 286/1998 - come sostituito dalla
legge 12 novembre 2004, n. 271 - nella parte in cui prevede il limite
minimo edittale di un anno di reclusione per lo straniero espulso che
rientri  nel  territorio dello Stato senza la speciale autorizzazione
del   Ministro  dell'interno,  norma  in  concreto  applicabile  alla
fattispecie per cui si procede.
    Infatti  tale  norma  e'  rilevante  per  la  decisione  del caso
concreto  in  quanto  e'  proposta la pena ex art. 444 c.p.p. proprio
partendo  da  una  pena  base individuata nel minimo edittale, scelta
condivisibile   stante   l'incensuratezza  e  trattandosi  del  primo
episodio di questo tipo commesso dall'imputato.
    Dunque  se  la  norma  e'  conforme ai principi costituzionali la
richiesta di pena deve essere accolta ma se la norma venisse ritenuta
costituzionalmente  illegittima  laddove determina il minimo edittale
in  un anno di reclusione il giudice potrebbe rigettare l'istanza per
eccessivita' della pena rispetto alla concreta offensivita' sociale e
alla modesta gravita' della condotta.
    La  norma da applicare appare invero constatare con i principi di
cui  agli artt. 2, 3, 10 e 27 comma 3 della Costituzione per i motivi
che di seguito si esporranno.
    I dubbi di costituzionalita' in ordine alla norma di cui all'art.
13,  comma  13,  d.lgs.  n. 286/1998  (nella  parte in cui prevede il
limite  minimo  edittale di un anno di reclusione), paiono trovare in
primo  luogo fondamento nei principi giurisprudenziali costituzionali
elaborati  in materia di limiti alla discrezionalita' del legislatore
nella  determinazione  della  quantita'  e  qualita'  della  sanzione
penale.
    In  particolare  la  Corte  costituzionale,  in  diverse pronunce
richiamate   e   ribadite   nella  sentenza  n. 341/1994,  dopo  aver
riaffermato il principio secondo cui appartiene alla discrezionalita'
del  legislatore  la  determinazione della quantita' e qualita' della
sanzione  penale  e non spetta quindi alla Corte stessa rimodulare le
scelte   punitive   effettuate   dal   legislatore,   ne'   stabilire
quantificazioni  sanzionatorie, ha pero' evidenziato come «alla Corte
rimane  il  compito  di  verificare  che l'uso della discrezionalita'
legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza».
    Detto   principio   e'   stato  cosi'  testualmente  esplicato  e
ricostruito nella sentenza n. 341/1994:
        «Con  la sentenza n. 409 del 1989 la Corte ha definitivamente
chiarito  che  "il principio di uguaglianza, di cui all'art. 3, primo
comma,  Cost.,  esige  che la pena sia proporzionata al disvalore del
fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia
nel  contempo  alla  funzione di difesa sociale ed a quella di tutela
delle  posizioni  individuali; ... le valutazioni all'uopo necessarie
rientrano  nell'ambito  del  potere discrezionale del legislatore, il
cui   esercizio   puo'   essere  censurato,  sotto  i  profilo  della
legittimita'  costituzionale,  soltanto nei casi in cui non sia stato
rispettato  il  limite  della  ragionevolezza"  (v. pure nello stesso
senso  sentenze  nn. 343  e 422 del 1993). Infatti, piu' in generale,
"il  principio  di  proporzionalita'  ... nel caso del diritto penale
equivale  a  negare  legittimita'  alle  incriminazioni che, anche se
presumibilmente   idonee   a   raggiungere   finalita'   statuali  di
prevenzione,  producono,  attraverso la pena, danni all'individuo (ai
suoi  diritti  fondamentali)  ed  alla  societa'  sproporzionatamente
maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la
tutela  dei  beni  e  valori  offesi  dalle  predette incriminazioni"
(sentenza n. 409 del 1989).
    In  altre  recenti  decisioni,  inoltre,  la Corte ha maturato la
convinzione  che la finalita' rieducativa della pena non sia limitata
alla  sola  fase  dell'esecuzione, ma costituisca "una delle qualita'
essenziali  e  generali  che caratterizzano la pena nel suo contenuto
ontologico,   e   l'accompagnano   da   quando  nasce,  nell'astratta
previsione  normativa,  fino  a quando in concreto si estingue": tale
finalita'  rieducativa  implica  pertanto  un  costante "principio di
proporzione" tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, e
offesa, dall'altra (sentenza n. 313 del 1990; v. pure sentenza n. 343
del 1993, confermata dalla sentenza n. 422 del 1993).
    In   applicazione  di  questi  principi  le  sentenze  da  ultimo
ricordate  sono  giunte  a dichiarare costituzionalmente illegittime,
come palesemente irragionevoli, diverse previsioni di sanzioni penali
giudicando  che  la  loro  manifesta  mancanza  di  proporzionalita',
rispetto  ai  fatti-reato si traduceva in arbitrarie e ingiustificate
disparita' di trattamento, o in violazioni dell'art. 27, terzo comma,
Cost. In particolare la sentenza n. 343 del 1993 ha affermato che "la
palese   sproporzione   del   sacrificio  della  liberta'  personale"
provocata  dalla  previsione  di  una  sanzione penale manifestamente
eccessiva  rispetto  al  disvalore  dell'illecito  "produce  ...  una
vanificazione  del  fine  rieducativo della pena prescritto dall'art.
27,   terzo   comma,  della  Costituzione,  che  di  quella  liberta'
costituisce  una  garanzia  istituzionale  in relazione allo stato di
detenzione"».
    Tutto  cio'  premesso,  va  osservato  che  -  nella  specie - la
discrezionalita'   del  legislatore  non  pare  esplicata  secondo  i
parametri sopra richiamati.
    Premesso  che  l'inasprimento  della sanzione penale in questione
nel  novembre  2004,  benche'  abbia  riguardato  norme  sostanziali,
direttamente  incidenti  sulla liberta' personale, appare ispirato da
valutazioni ed esigenze di natura essenzialmente processuale.
    Infatti  emerge dai lavori preparatori della legge n. 271/2004 la
mancanza  di  riferimenti  a  particolari  fenomeni  nuovi o gravi da
contrastare  attraverso  un  inasprimento di pene quanto piuttosto la
dichiarata  necessita'  di  superare  le  censure  mosse  dalla Corte
costituzionale  con  le  sentenze  n. 222  e  223 del 2004 alla legge
n. 189/2002. Si e' detto infatti:
        «...  Sul cammino della Bossi-Fini si e' abbattuta la mannaia
della  Corte  costituzionale  ... Ritengo che con il d.l. in esame il
Governo   ed   il  Parlamento  siano  intervenuti  correttamente  per
rispondere  ai  rilievi  della  Corte ...» (A.C.5369 discussione dd 2
novembre  2004  sul  testo  approvato  in  Senato il 20 ottobre 2004,
repliche del relatore alla legge).
    Va   in   proposito   rammentato  che  le  sentenze  della  Corte
costituzionale  n. 222  e  223  del 2004 hanno avuto ad oggetto norme
diverse  - rispettivamente: l'art. 13, comma 5-bis e l'art. 14, comma
5-quinquies del d.lgs. n. 286/1998.
    In particolare, la sentenza n. 223 ha dichiarato l'art. 14, comma
5-quinquies  d.lgs.  n. 286/1998  (nel  testo  integrato  dalla legge
n. 189/2002)  illegittimo  nella  parte  in  cui  stabiliva l'arresto
obbligatorio  per  la  contravvenzione  prevista al comma 5-ter dello
stesso articolo.
    A  seguito  di  cio',  il legislatore del novembre 2004 ha inteso
intervenire  a modifica del presupposto su cui si fondava la sentenza
n. 223/2004,  rendendo  possibile  con la trasformazione in delitto e
l'inasprimento delle pene - in astratto - l'applicazione delle misure
coercitive  secondo  i  limiti  previsti dall'art. 280, secondo comma
c.p.p.  sia  al  reato  di  cui all'art. 14, comma 5-ter che a quello
dell'art. 13, comma 13, oggetto della presente valutazione.
    La  previsione  di  un  minimo edittale cosi' elevato: un anno di
reclusione,   innanzitutto  non  pare  ragionevole  neppure  ai  fini
dichiarati  del  legislatore; l'esigenza di rendere la fattispecie in
esame  compatibile  con  il  sistema  generale  di applicazione delle
misure  coercitive: infatti a tali fini e' rilevante il parametro dei
massimi  edittali  inderogabili  (cfr.  274,  lett. c) e 280, secondo
comma,  c.p.p.),  non  essendo  invece  di  nessun interesse i minimi
edittali  di  pena. Inoltre giustificare una scelta di diritto penale
sostanziale  con  una  esigenza  processuale  non  pare rispondere ai
principi  di  ragionevolezza  e  proporzionalita' della pena rispetto
alla  offensivita'  della  condotta  con conseguente violazione degli
artt. 3 e 27, terzo comma Cost.
    Appare  poi  nella sostanza evidente la disparita' di trattamento
in  tal  modo  attuata  tra  cittadini  extracomunitari  e  cittadini
comunitari  che  violino  ordini amministrativi dati per finalita' di
sicurezza  o  ordine  pubblico: mentre i cittadini comunitari vengono
sanzionati  per  tale condotta solo con una contravvenzione (art. 650
c.p.)  addirittura oblabile o definibile con una condanna a pena solo
pecuniaria, anche se socialmente pericolosi (contravvenzione prevista
dall'art.  2,  legge  27  dicembre  2956,  n. 1423:  inosservanza  di
provvedimenti del questore da parte di persone pericolose, sanzionata
con  l'arresto da uno a sei mesi), i cittadini extracomunitari per lo
stesso  tipo  di  violazione vengono puniti con una pena minima di un
anno di reclusione.
    E'  dunque  evidente  che il legislatore nel bilanciare la tutela
degli  interessi dell'ordine e sicurezza pubblica da un lato e quello
della  liberta'  personale  del  soggetto agente dall'altra non abbia
rispettato  il  criterio  della  parita' di trattamento di situazioni
analoghe-eguali, sancito dall'art. 3 della Costituzione. La pena base
di  un  anno di reclusione appare pertanto una pena sproporzionata in
eccesso  per  non aver rispettato l'ordine di non rientrare in Italia
in  confronto  alla sanzione massima possibile di tre mesi di arresto
per  un  cittadino  italiano  che  ad  esempio  non abbia ottemperato
all'ordine   di   demolizione   di   edificio  pericolante,  condotta
oggettivamente  piu' pericolosa per la pubblica incolumita' di quella
oggetto del presente giudizio.
    La  norma  di  cui  all'art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286/1998 non
pare pertanto neppure conforme ai principi di ragionevolezza, sotto i
profili  della  proporzione  tra  la pena e il disvalore per il fatto
illecito  commesso  ex  artt.  3  e 27 terzo comma Cost. impedendo al
giudice  di determinare la pena ex art. 133 c.p. anche al di sotto di
tale limite minimo per i casi di gravita' minima come il presente con
proporzionalita' rispetto alla gravita' concreta del fatto.
    La  norma  appare dunque in contrasto, nella parte in cui prevede
un  minimo edittale di un anno di reclusione, con gli artt. 3 e 2, in
rel.  all'art.  10  della  Costituzione  che sanciscono e delineano i
principi  fondamentali  di  uguaglianza  davanti  alla  legge  e pari
dignita'   sociale,  nonche'  di  garanzia  dei  diritti  inviolabili
dell'uomo  tra i quali rientra evidentemente il diritto alla liberta'
individuale, e non pare dubitabile che, in ragione dell'art. 10 della
Costituzione,  tali  principi  fondamentali  spieghino  piena vigenza
anche  nei  confronti  degli  stranieri presenti sul territorio della
Repubblica.
    La  norma  citata appare infine in contrasto con l'art. 27, terzo
comma  Cost.  anche  sotto il profilo della mancanza di soggettivita'
criminale  da  rieducare,  in  relazione  a  condotte determinate con
evidenza  da  pressanti  esigenze economiche nel Paese di origine che
spingono  alla emigrazione, senza dolo criminale o volonta' di creare
danno a terzi; sia sotto il profilo della impossibilita' materiale di
attuazione  della  finalita' rieducativa della pena per una categoria
di  soggetti  come  gli  extracomunitari presenti clandestinamente in
Italia  e gia' oggetto di legittima espulsione, infatti, tenuto conto
delle  finalita'  e della interna disciplina legislativa di contrasto
alla  immigrazione  clandestina,  queste  persone  non  potranno  mai
rimanere   in  Italia,  dunque  non  ha  senso  parlare  di  un  loro
inserimento   sociale   in   Italia-Europa,   l'unico  rilevante  per
l'ordinamento.
    La  questione  della  illegittimita' costituzionale dell'art. 13,
comma  13,  d.lgs.  n. 286/1998  come  sopra illustrata appare quindi
rilevante  per  la  decisione e non manifestamente infondata e induce
pertanto la giudicante a rimettere gli atti alla Corte costituzionale
per le valutazioni di competenza.