ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nei  giudizi  di  legittimita' costituzionale degli artt. 2621 e 2622
del  codice civile, come modificati dal decreto legislativo 11 aprile
2002,  n. 61  (Disciplina  degli  illeciti  penali  e  amministrativi
riguardanti  le  societa' commerciali, a norma dell'articolo 11 della
legge  3 ottobre 2001, n. 366), promossi con ordinanze del 21 gennaio
2003,   del   20 novembre   2002  e  del  6 marzo  2003  dal  Giudice
dell'udienza  preliminare  del  Tribunale di Palermo e del 19 gennaio
2005  dalla  Corte  d'appello  di Napoli, rispettivamente iscritte ai
numeri  162, 232, 335 del registro ordinanze 2003, e 331 del registro
ordinanze  2005, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
numeri  14, 18, 24, 1ª serie speciale, dell'anno 2003, e 27, 1ª serie
speciale, dell'anno 2005.
    Visti  gli  atti  di  intervento del Presidente del consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 25 gennaio 2006 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto che con le tre ordinanze, di analogo tenore, indicate in
epigrafe,   emesse   nell'ambito  di  distinti  processi  penali  nei
confronti  di  persone  imputate  del  reato  di  false comunicazioni
sociali, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Palermo
ha   sollevato,   in  riferimento  agli  artt. 10,  11  e  117  della
Costituzione ed alla direttiva 68/151/CEE del 9 marzo 1968, questione
di  legittimita'  costituzionale  degli  artt. 2621 e 2622 del codice
civile, come sostituiti dall'art. 1 del decreto legislativo 11 aprile
2002,  n. 61  (Disciplina  degli  illeciti  penali  e  amministrativi
riguardanti  le  societa' commerciali, a norma dell'articolo 11 della
legge  3 ottobre  2001,  n. 366),  «nella parte in cui non consentono
l'effettivita',  a  mezzo  di  idoneo  meccanismo  processuale, della
adeguata  sanzione  penale  prevista dalla direttiva medesima e nella
parte  in  cui  non  prevedono adeguato mezzo processuale in grado di
consentire  la  celebrazione  del  processo penale entro i termini di
prescrizione dei reati previsti dalle stesse norme»;
        che,  ad avviso del rimettente, la nuova disciplina del reato
di  false  comunicazioni  sociali, introdotta dalla legge (recte: dal
decreto  legislativo) n. 61 del 2002, si porrebbe in contrasto con la
direttiva   68/151/CEE   del   9 marzo  1968  (intesa  a  coordinare,
rendendole  equivalenti,  le garanzie che sono richieste, negli Stati
membri,  alle  societa'  a  mente  dell'art. 58,  secondo  comma, del
Trattato  per  proteggere  gli  interessi  dei  soci  e  dei  terzi):
direttiva che, priva di efficacia normativa diretta, sarebbe tuttavia
fonte di obblighi inderogabili per il legislatore nazionale in virtu'
degli artt. 10, 11 e 117 Cost;
        che le norme impugnate violerebbero, in particolare, l'art. 6
della  direttiva, che impone agli Stati membri di prevedere «adeguate
sanzioni» per i casi di «mancata pubblicita' del bilancio e del conto
dei  profitti  e  perdite,  come prescritta dall'art. 2, paragrafo 1,
lettera   f»,   e   di  «mancanza  nei  documenti  commerciali  delle
indicazioni obbligatorie di cui all'art. 4» della direttiva medesima;
        che infatti, da un lato, a fronte della ratio della direttiva
-  di  tutela  dei  soci e dei terzi che hanno come unica garanzia il
patrimonio  sociale  - alla condotta di omessa pubblicazione dovrebbe
essere  senz'altro  equiparata quella di falsificazione dei documenti
considerati e, amplius, delle comunicazioni sociali, la quale implica
una  lesione degli interessi protetti uguale e «forse piu' insidiosa»
della prima;
        che,  dall'altro lato, alla luce dei principi affermati dalla
Corte  di  giustizia  delle  Comunita'  europee,  l'adeguatezza delle
sanzioni  postula  l'effettivita', la proporzionalita' e la capacita'
dissuasiva della sanzione comminata;
        che, in tale ottica, l'obbligo posto dalla direttiva dovrebbe
considerarsi  «eluso  in  radice»  dalla  normativa nazionale, stante
l'estrema  difficolta'  di pervenire, in base ad essa, non solo e non
tanto  all'applicazione  di  una  sanzione  penale  adeguata,  quanto
piuttosto, e prima ancora, di una sanzione qualsiasi;
        che  i  termini  di  prescrizione  dei  reati di cui ai nuovi
artt. 2621  e  2622  cod. civ. (tre anni, prolungabili sino a quattro
anni  e  mezzo  in  caso di atti interruttivi, per il primo reato, di
natura  contravvenzionale;  cinque  anni, prolungabili sino a sette e
mezzo,  per  il  secondo,  di  natura delittuosa) sarebbero, infatti,
cosi'   ristretti   che  -  a  meno  di  configurare  un  «meccanismo
processuale»  che  «in  alcuni  casi»  li  sospenda  - le falsita' in
comunicazioni sociali sarebbero destinate a rimanere impunite; e cio'
non  per una «patologia» del sistema processuale, ma per la oggettiva
complessita'  -  testimoniata  anche dalle cadenze dei procedimenti a
quibus - degli accertamenti e delle valutazioni tecnico-contabili che
la  fattispecie  criminosa  ordinariamente  richiede: complessita' la
quale  impedirebbe,  nella  generalita'  dei casi, tenuto conto anche
delle  garanzie previste dal sistema stesso (comprensive di tre gradi
di  giurisdizione),  di  definire il processo con sentenza passata in
giudicato prima dell'estinzione del reato;
        che la possibilita' di esaurire la verifica processuale prima
dello  spirare dei termini prescrizionali rimarrebbe circoscritta, in
concreto,  ai  fatti  di  minore  gravita' o di piu' agevole verifica
probatoria: determinandosi, cosi', anche una irragionevole disparita'
di  trattamento  rispetto  alla  sostanziale impunita' dei fatti piu'
gravi,  per  i  quali sono di regola necessarie - come nella specie -
indagini particolarmente complesse;
        che  nei giudizi di costituzionalita' relativi alle ordinanze
n. 162  e  n. 335  r.o.  del  2003  e'  intervenuto il Presidente del
Consiglio   dei  ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
generale  dello  Stato,  il  quale  ha  chiesto  che la questione sia
dichiarata infondata;
        che,  con  successiva memoria, la difesa erariale ha peraltro
segnalato  come  alcune autorita' giudiziarie italiane avessero posto
alla   Corte   di   giustizia   delle  Comunita'  europee,  ai  sensi
dell'art. 234  del  trattato CEE, quesiti analoghi a quello formulato
dal giudice rimettente, rappresentando la conseguente opportunita' di
attendere la pronuncia della Corte comunitaria;
        che,    in    accoglimento    della    richiesta    formulata
dall'Avvocatura generale dello Stato all'udienza pubblica del 9 marzo
2004,  questa Corte, con ordinanza n. 165 del 2004, riuniti i giudizi
di  costituzionalita',  ne ha quindi disposto il rinvio a nuovo ruolo
in  attesa  della  decisione  della  Corte  di  giustizia sulle cause
C-387/2002,    C-391/2002   e   C-403/2002,   vertenti   su   quesito
sostanzialmente coincidente con quello oggetto dei giudizi stessi;
        che  la  Corte  di giustizia si e' pronunciata su dette cause
con sentenza del 3 maggio 2005;
        che  con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello
di  Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 10, 11 e 117 della
Costituzione,  ulteriore  questione  di  legittimita'  costituzionale
degli  artt. 2621  e 2622 cod. civ., come sostituiti dal d.lgs. n. 61
del 2002;
        che  la  Corte  rimettente  riferisce di essere investita, in
grado  di  appello,  del  processo  penale  nei  confronti di persona
imputata   di   falso   in  bilancio  continuato  in  relazione  agli
anni 1993-1997;
        che nel corso del giudizio di primo grado era sopravvenuto il
d.lgs.  n. 61 del 2002, che ha scisso la fattispecie criminosa di cui
all'originario art. 2621 cod. civ. - gia' punita con la reclusione da
uno  a  cinque  anni  (oltre  la  multa) - nelle due distinte ipotesi
delineate  dalle  norme  impugnate,  prevedendo  per quella di cui al
nuovo  art. 2621  cod.  civ.  l'arresto  fino  ad un anno e sei mesi,
nonche'  «soglie  obiettive  di  sussistenza  del  fatto di reato»; e
stabilendo,  altresi', per quella di cui al nuovo art. 2622 cod. civ.
-   punita   con   la   reclusione  da  sei  mesi  a  tre  anni -  la
perseguibilita' a querela;
        che,   non   avendo   il   pubblico   ministero  proceduto  a
contestazione,  neanche  suppletiva,  degli  elementi  di  fatto  che
permettessero   di  ritenere  superate  le  neointrodotte  soglie  di
punibilita',  il  Tribunale di Napoli aveva quindi assolto l'imputato
«perche' il fatto non e' previsto dalla legge come reato»;
        che nell'ambito del susseguente giudizio di appello, attivato
dal  pubblico  ministero,  il  Procuratore  generale  aveva  peraltro
eccepito  l'incostituzionalita'  delle  disposizioni del d.lgs. n. 61
del  2002,  «nella  parte in cui introducono una piu' mite disciplina
sanzionatoria del falso in bilancio»;
        che,   ad   avviso   del  giudice  a  quo,  la  questione  di
costituzionalita'  sarebbe  rilevante,  in  quanto,  nel  caso in cui
questa   Corte   la   dichiarasse   fondata,   «annullando  le  norme
denunciate»,   il  pubblico  ministero  verrebbe  sollevato  ex  tunc
dall'«obbligo di contestazione» delle soglie di punibilita', con ogni
conseguente  effetto  sulla  sorte  del  gravame da esso proposto, ed
inoltre verrebbero a modificarsi i termini di prescrizione del reato;
        che  quanto,  poi,  alla  non  manifesta  infondatezza  della
questione,  il  giudice  a  quo  osserva come, per effetto del d.lgs.
n. 61  del  2002,  la  tutela  dell'interesse alla «trasparenza delle
attivita'   societarie»   risulti  «enormemente  e  sconvenientemente
assottigliata»,  a  fronte  sia  della  rilevante  compressione della
risposta   sanzionatoria   e,   conseguentemente,   dei   termini  di
prescrizione;  sia  della  descrizione  dei fatti incriminati e della
sottrazione degli stessi alla «incondizionata perseguibilita»;
        che  il  nuovo  assetto  risulterebbe  pertanto  lesivo degli
artt. 10,  11  e 117 Cost., in quanto contrastante con l'art. 6 della
direttiva  n. 68/151/CEE,  che  impone agli Stati membri di prevedere
adeguate  sanzioni  per i casi di «mancata pubblicita' del bilancio e
del  conto  dei  profitti  e  perdite»,  come prescritta dall'art. 2,
paragrafo 1, lettera f), della medesima direttiva;
        che  nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  il  quale ha chiesto che la
questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata.
    Considerato    che,    avendo    ad   oggetto   un   quesito   di
costituzionalita'  in  larga  misura  analogo,  il  giudizio relativo
all'ordinanza  di  rimessione  della  Corte  d'appello  di  Napoli va
riunito,  in  vista  della  definizione con unica decisione, a quelli
relativi  alle  ordinanze  di  rimessione  del  Giudice  dell'udienza
preliminare  del  Tribunale di Palermo, gia' riuniti a loro volta con
la citata ordinanza n. 165 del 2004;
        che,   successivamente   alle  ordinanze  di  rimessione,  e'
intervenuta  la  legge  28 dicembre 2005, n. 262 (Disposizioni per la
tutela  del  risparmio  e  la  disciplina  dei  mercati  finanziari),
pubblicata  nella  Gazzetta Ufficiale n. 301 del 28 dicembre 2005, il
cui  art. 30  ha sostituito le norme impugnate, modificando l'assetto
delle  figure  criminose  in  esame  in  rapporto  a  plurimi profili
investiti dalle censure di costituzionalita' (risposta sanzionatoria,
impunita'  dei  fatti  che  restino  al  di  sotto  delle «soglie» di
rilevanza penale e, indirettamente, prescrizione);
        che  il  nuovo testo degli artt. 2621 e 2622 cod. civ., quale
risultante  a  seguito  della citata legge - oltre ad includere fra i
soggetti  attivi del reato anche i «dirigenti preposti alla redazione
dei   documenti   contabili   societari»   (nuova  figura  soggettiva
introdotta  dall'art. 14,  comma 1,  lettera  n,  della  stessa legge
n. 262 del 2005) - prevede, infatti, rispetto al testo immediatamente
precedente,  oggetto  dell'impugnativa,  una  pena  piu'  elevata nel
massimo  per  la  fattispecie  contravvenzionale di cui all'art. 2621
cod. civ. (arresto fino a due anni); una pena specifica e piu' severa
(reclusione  da  due  a  sei  anni)  per  i fatti delittuosi commessi
nell'ambito  di  societa'  quotate  che  abbiano  cagionato «un grave
nocumento  ai  risparmiatori» (art. 2622, quarto e quinto comma, cod.
civ.);   nonche'   l'irrogazione   di   una  sanzione  amministrativa
pecuniaria,  unitamente  a misure di tipo interdittivo, nei confronti
degli  amministratori  e  degli  altri soggetti qualificati autori di
falsita'  non  punibili  come  reato,  perche'  non produttive di una
alterazione   «sensibile»  della  rappresentazione  della  situazione
economica,  patrimoniale e finanziaria della societa' o del gruppo al
quale  essa  appartiene,  ovvero perche' rimaste comunque al di sotto
delle  «soglie» di rilevanza penale del fatto a carattere percentuale
(artt. 2621, ultimo comma, e 2622, ultimo comma, cod. civ.);
        che  tale  ultima  previsione - nella misura in cui valesse a
rendere applicabile alle falsita' ora indicate la disciplina generale
della    prescrizione   stabilita   in   rapporto   alle   violazioni
amministrative  dall'art. 28  della  legge  24 novembre  1981, n. 689
(Modifiche  al  sistema  penale),  la  quale,  oltre a contemplare un
termine  quinquennale, rinvia alle norme del codice civile in tema di
interruzione,  in  forza  delle  quali  la prescrizione non corre nel
corso  del  giudizio (art. 2945, secondo comma, cod. civ.) - verrebbe
altresi'  ad incidere sullo specifico tema sul quale si incentrano le
ordinanze  di  rimessione  del  Giudice  dell'udienza preliminare del
Tribunale di Palermo: ordinanze nelle quali, peraltro, non si precisa
se,  nel  caso  concreto,  le  soglie  di  rilevanza penale del fatto
risultino  o  meno  superate,  limitandosi  il  giudice  rimettente a
rilevare,  in  una di esse (ordinanza n. 232 del 2003), l'esigenza di
un accertamento sul punto;
        che,  avuto  riguardo anche al particolare parametro evocato,
che   postula   una   valutazione   di   «adeguatezza»   di  risposte
sanzionatorie  non  predefinite, compete quindi ai giudici rimettenti
verificare  se  - anche alla luce dei principi in tema di successione
delle  leggi  penali  (discutendosi, nei giudizi principali, di fatti
commessi   sotto   il   vigore   dell'originaria  disciplina  di  cui
all'art. 2621,  numero  1, cod. civ. e, dunque, in epoca anteriore ad
entrambi   gli  interventi  novativi  succedutisi  nel  tempo)  -  le
questioni  sollevate  restino  o  meno  rilevanti  alla  luce del ius
superveniens;
        che,  a  tal  fine,  si impone pertanto la restituzione degli
atti ai giudici a quibus.