LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza a seguito di istanza di revisione proposta in data 11 gennaio 2006 dall'avv. Vittorio Trupiano del Foro di Napoli, procuratore speciale di Dorigo Paolo, nato a Venezia il 24 ottobre 1959, residente in Mira, via Corridoni 4. Il difensore di Dorigo Paolo espone che il proprio assistito sta espiando, in regime di detenzione domiciliare, la residua parte della condanna ad anni tredici e mesi sei di reclusione inflittagli dalla Corte d'assise di Udine con sentenza in data 3 ottobre 1994, irrevocabile il 27 marzo 1996. L'avv. Trupiano ricorda che, dopo la condanna, Dorigo si e' rivolto alla Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale, con sentenza del 9 settembre 1998, ha stabilito la non equita' del giudizio subito dal proprio assistito, per violazione dell'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. La lesione dei principi contenuti in quest'articolo e' stata ravvisata nel fatto che i giudici italiani hanno condannato Dorigo in base alle dichiarazioni di tre coimputati non esaminati in contraddittorio, in quanto, in dibattimento, si sono avvalsi della facolta' di non rispondere. Dopo la decisione della Corte europea, il Comitato dei ministri del consiglio d'Europa ha piu' volte sollecitato lo Stato italiano ad adottare le misure necessarie a garantire l'osservanza della pronuncia del giudice di Strasburgo. Tali sollecitazioni sono rimaste prive d'effetto. Solo recentemente il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Udine ha sollevato incidente d'esecuzione davanti alla corte d'assise di quel capoluogo, per verificare la «legittimita» della detenzione di Dorigo ed ha, contestualmente, richiesto la sospensione dell'esecuzione della pena nei confronti del condannato. Con ordinanza 5 dicembre 2005, pero', la corte d'assise di Udine ha rigettato il ricorso affermando che, in sede d'incidente d'esecuzione, l'indagine del giudice va limitata alla verifica della eseguibilita' del titolo esecutivo, restando preclusa ogni valutazione sulla legittimita' del giudizio di cognizione e, dunque, sulla violazione delle regole interne ad esso. Percio', il quesito relativo a quale statuizione dovesse prevalere, nel contrasto tra giudicato interno e sentenza della Corte europea, andava risolto nel senso della prevalenza della sentenza irrevocabile del giudice italiano. Nella stessa ordinanza, la corte d'assise di Udine ha osservato che la sospensione dell'esecuzione richiesta dal procuratore della Repubblica avrebbe determinato la paradossale situazione di congelare la situazione processuale, con l'effetto che, alla liberazione dell'imputato, non sarebbe seguita alcuna celebrazione di un processo equo con la possibilita' che la condanna a carico di Dorigo rimanesse sospesa sinedie senza che alcuna autorita' giurisdizionale avesse, poi, modo di deciderne la sorte. Ha concluso, quel giudice, che meno incongrua gli sembrava la strada, pure prospettata dal procuratore della Repubblica ricorrente, di un'istanza di revisione per ottenere la celebrazione di un nuovo processo, tale da porre rimedio ai vizi d'equita' sostanziale che hanno caratterizzato il precedente giudizio. In tal caso, ha aggiunto la corte d'assise di Udine, l'art. 635 c.p.p. avrebbe consentito al giudice adito per la revisione di sospendere l'esecuzione, accompagnandosi, cosi', il risultato avuto di mira ad una strada giuridicamente piu' corretta. La difesa di Dorigo, condividendo quest'ultima prospettazione, afferma - nell'istanza presentata a questo giudice - che l'ammissibilita' del giudizio di revisione potrebbe essere pronunciata, sin d'ora, ai sensi dell'art. 630, lett. a) c.p.p., per contrasto tra giudicati. Infatti, la decisione della corte europea, che in quanto proveniente da organo sopranazionale deve prevalere su quella del giudice italiano, puo' essere equiparata alla sentenza di un «giudice speciale». Ma, se cosi' non si dovesse ritenere, l'art. 630 c.p.p. sarebbe costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 111 cost., nella parte in cui non prevede, come titolo per ottenere la revisione, la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Conclude, percio', la difesa, con la richiesta di emissione del decreto di citazione ex artt. 636 e 601 c.p.p., previa ordinanza di sospensione dell'esecuzione, e solleva, fin d'ora, eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 630 c.p.p., nel senso teste' accennato. Il procuratore generale ha depositato il proprio parere, nel quale osserva che le sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo non sono immediatamente eseguibili in Italia e non possono, quindi, invalidare un giudicato; ma questo e' tema attinente alla validita' di titolo esecutivo e non alla possibilita' di dare ingresso al giudizio di revisione. Quanto all'ammissibilita' di quest'ultima impugnazione, il caso di specie non puo' farsi rientrare sotto l'art. 630, lett. a) c.p.p., perche' la Corte europea dei diritti dell'uomo non puo' essere considerata un giudice speciale. In ordine, poi, alla possibilita' che ricorra, nella specie, l'ipotesi della lettera c) dello stesso articolo, non si puo' ignorare - afferma il procuratore generale - la giurisprudenza che esclude che da una modifica della disciplina processuale possa derivare un giudizio di revisione; tant'e' che l'esame in contraddittorio di un collaboratore di giustizia rifiutatosi di rispondere nel corso del giudizio di cognizione, non e' stato ritenuto un caso di nuova prova. Tuttavia, poiche' il concetto di «nuova prova» e' tuttora in fase di elaborazione giurisprudenziale, e siccome il giudizio di ammissibilita' della revisione e' limitato ad una delibazione sommaria, e' necessario che le parti espongano compiutamente le loro opinioni nella pienezza del contraddittorio che si instaura solo con l'udienza. Conclude, pertanto, il procuratore generale, con la richiesta di emissione di decreto di citazione, ai sensi dell'art. 636 c.p.p., mentre, sulla richiesta di sospensione dell'esecuzione della pena, esprime parere contrario. La questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla difesa e' rilevante e non manifestamente infondata per quanto attiene la violazione dell'art. 3 Cost.; come tale, va rimessa al vaglio della Corte costituzionale unitamente alle questioni di legittimita' che, insieme ad essa, questa corte ritiene di dover sollevare con riferimento alla violazione degli artt. 10 e 27 della Costituzione. Il ricorrente, come sopra osservato prospetta in primo luogo un'interpretazione dell'art. 630, lett. a) c.p.p., che eviterebbe la trasmissione degli atti al giudice delle leggi, ma si tratta di un'interpretazione non consentita. Si sostiene che tra le sentenze penali irrevocabili del «giudice speciale» potrebbero rientrare le sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo. Sennonche' l'assunto appare erroneo. Se si prescinde dai giudici delle «giurisdizioni speciali», come la Corte dei conti, il Consiglio di Stato e i tribunali amministrativi regionali, di «giudici speciali» si puo', ormai, parlare - secondo un tradizionale insegnamento - solo in due casi: quello dei tribunali militari e quello della Corte costituzionale. I primi giudicano dei reati militari commessi da appartenenti alle forze armate; la seconda delle accuse mosse al Presidente della Repubblica. Si tratta, in ogni caso, di giudici interni, istituiti dallo Stato e non di giudici sopranazionali riconosciuti dalla Repubblica in base a convenzioni internazionali, cosicche', neppure se si segue un'interpretazione estensiva della norma, pare potersi assimilare la Corte europea dei diritti dell'uomo ad un «giudice speciale» e, conseguentemente, ritenere che le sue sentenze rientrino tra quelle di cui parla l'art. 630, lett. a) c.p.p. Ne' pare potersi accogliere la strada prospettata dal procuratore generale, perche' anche a voler ritenere che la sentenza della Corte europea costituisca una «nuova prova», ai sensi dell'art. 630, lett. c) ne' da sola, ne' unita alle prove gia' valutate, essa dimostrerebbe che il condannato deve essere prosciolto a norma dell'art. 631 c.p.p. Quella sentenza, infatti, nulla aggiunge di diverso rispetto al fatto storico apprezzato nel giudizio considerato «non equo, e cio' a cui essa mira e' la ripetizione (ove possibile) delle prove ritenute invalide. Emerge, cosi', la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale sollevata. Allo stato, infatti, la corte dovrebbe dichiarare l'istanza inammissibile, ai sensi dell'art. 634 c.p.p.. perche' proposta fuori delle ipotesi previste dall'art. 630 c.p.p.; senza neppure procedere con il decreto di citazione a giudizio. Se, invece, la norma venisse dichiarata incostituzionale, nella parte in cui non ammette la revisione nel caso che i fatti stabiliti nella sentenza (o decreto) di condanna irrevocabile non possono conciliarsi con quelli accertati dalla sentenza irrevocabile della Corte europea dei diritti dell'uomo, allora il giudizio di revisione sarebbe ammissibile e il presidente di questa corte dovrebbe procedere a norma dell'art. 636 c.p.p. Ritiene il collegio che, quando l'art. 630, lett. a), del codice di rito, parla di contrasto tra i «fatti» stabili da due diverse sentenze, non si debba necessariamente intendere l'accezione di «fatto» con esclusivo riferimento alle circostanze storiche della vicenda sottoposta a giudizio. E un «fatto» anche l'accertamento dell'invalidita' (iniquita) della prova assunta nel processo interno, intervenuto ad opera del giudice sopranazionale; infatti, da questo accertamento puo' dipendere l'esclusione, dal novero delle acquisizioni processuali, dei verbali in precedenza entrati nel materiale utilizzabile ai fini della decisione. «Fatto» - secondo l'art. 187, comma 2, c.p.p. - e' anche quello da cui dipende «l'applicazione di norme processuali». In ordine alla fondatezza della questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla difesa, la corte la ritiene manifestamente infondata nella parte in cui eccepisce la violazione dell'art. 111 della Costituzione. Invero, subito dopo aver approvato il nuovo testo dell'art. 111, che ha introdotto all'interno della Carta fondamentale il principio del «giusto processo», lo stesso legislatore costituzionale si e' occupato dei delicati problemi di diritto transitorio che nascevano da quella introduzione. Li ha risolti con un'altra legge di rango costituzionale - la n. 2 del 23 novembre 1999 - che ha demandato al legislatore ordinario l'applicazione dei principi contenuti nell'art. 111 ai procedimenti penali in corso; con cio', escludendo, tra l'altro, l'applicazione degli stessi principi ai procedimenti - come quello in esame - gia' definiti. I principi che regolano la successione di leggi in materia processuale (tempus regit actum) e l'intangibilita' del giudicato, e la stessa chiara lettera del legislatore costituzionale (ubi lex 'dixit, voluit, ubi noluit, tacuit) escludono, pertanto, l'applicabilita' del nuovo testo dell'art. 111 ai casi come quello di Dorigo. La prima norma della Costituzione rispetto alla quale la questione di legittimita' sollevata non appare manifestamente infondata e' l'art. 3. Se il principio d'uguaglianza va inteso come princpio di ragionevolezza e di non ingiustificata discriminazione tra casi uguali o simili, allora l'art. 630, lett. a), c.p.p., che prevede la rilevanza - ai fini dell'aminissibilita' della revisione - del contrasto tra i fatti stabiliti dalla sentenza (o dal decreto) penale di condanna ed i fatti stabiliti nella sentenza penale di altro giudice, sembra violare quel principio, nella parte in cui esclude, dai casi di revisione, la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo emessa ai sensi dell'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea. Come si e' gia' rilevato, per «fatto» non deve semplicemente intendersi il fatto storico all'origine della vicenda processuale, ma anche l'accertamento della invalidita' di una prova del precedente giudizio, essendo questo un fatto «dal quale dipende l'applicazione di norme processuali», che determina il venir meno della legittimita' delle prove assunte e, dunque, dei fatti sui quali la sentenza interna di condanna si e' fondata. La situazione in esame non e' assimilabile al caso di una modifica della disciplina processuale intervenuta successivamente al giudizio in cui la prova di cui si tratta e' stata acquisita, perche' il giudizio della Corte europea prescinde da modifiche legislative; esso consiste in un raffronto tra la normativa convenzionale previgente (art. 6, Conv.) e quella interna, ed entra nel merito della legittimita' delle prove gia' acquisite e, dunque, dei fatti accertati dalla sentenza di condanna irrevocabile, dimostrandone l'inconsistenza. Dunque, casi che hanno alla base la medesima rado, vengono trattati diversamente. La seconda norma costituzionale che appare violata e' l'articolo 10, alla stregua del quale «l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». La frase e' stata intesa nel senso dell'adattamento, di tipo automatico, delle nostre norme alle (sole) disposizioni del diritto internazionale consuetudinario. In dottrina si e' autorevolmente affermato che alcune norme della Convenzione di Roma del 1950, «anzi, alcune specifiche garanzie (in esse) contenute ... siano effettivamente riproduttive di analoghe norme consuetudinarie esistenti nella comunita' internazionale»1). In particolare, tra queste garanzie sono state individuate quelle previste dagli artt. 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura), 4 (inammissibilita' della condizione di schiavitu), 6 (presunzione d'innocenza), e 7 (irretroattivita' della legge penale). Si e', ancora, osservato che la particolare importanza di queste norme e' sottolineata dalla stessa Convenzione, che le esclude (con l'eccezione dell'art. 6) dalla possibilita' di deroga anche nei casi di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci l'integrita' dello Stato (art. 15, Conv.)2). E' vero che la presunzione d'innocenza pare esclusa dalla particolare forza riconosciuta ai predetti principi, tuttavia, da un lato, anch'essa e', comunque, annoverabile tra le norme internazionali di carattere consuetudinario, dall'altro, non si deve dimenticare che l'art. 4 del VII protocollo aggiuntivo della Convezione, relativo al divieto di bis in idem afferma che tale divieto non impedisce «la riapertura del processo ... se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella pocedura antecedente sono in grado d'inficiare la sentenza intervenuta (comma 2). Quindi, si precisa (art. 4, comma 3) che: «Non e' autorizzata alcuna deroga a presente articolo ai sensi dell'art. 15 della Convenzione». Sembra, cosi', che quella particolare forza di resistenza che viene attribuita ai principi indicati in tale ultima norma venga, altresi', riconosciuta a quell'aspetto della tutela dell'innocenza che si sostanzia nel diritto alla revisione di una condanna pronunciata in violazione delle garanzie dell'equo processo e, per quanto specificamente qui interessa, del diritto dell'accusato d'interrogare e fare interrogare chi lo accusa, ai sensi dell'art. 6, comma 3, lett. d), della Convenzione europea. 1) Cosi' P. Pustorino, Sull'applicabilita' diretta e la prevalenza delle norme della Convenzione europea dei diritti dell'uomo nell'ordinamento italiano, in Riv. int dir. uomo, 1995, p. 34. 2) Cfr. P. Pustorino, ibidem. Se, dunque, siamo di fronte a norme che configurano garanzie provenienti dal diritto internazionale consuetudinario e che si adattano automaticamente, per volere dell'art. 10, comma 1, Cost., nell'ordinamento interno, allora e' chiara la violazione del dettato costituzionale, da parte dell'art. 630, lett. a), c.p.p., nella parte in cui esclude la revisione del processo quando una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo abbia accertato un «vizio fondamentale nella procedura precedente». A conclusione dell'esame del contrasto, ritenuto non manifestamente infondato, dell'art. 630, lett. a) c.p.p., con l'art. 10 della Costituzione, la corte deve prendere in considerazione un indirizzo giurisprndenziale che permetterebbe, forse, di ritenere che il procedimento di revisione, in caso d'inconciliabilita' della sentenza di condanna con la pronuncia della Corte europea di «non equita» della procedura, sia gia' ammissibile con l'attuale assetto normativo, in modo da evitare la declaratoria d'incostituzionalita' della norma del codice di rito. S'intende fare riferimento all'insegnamento della Corte di cassazione secondo cui le norme della Convenzione europea del 1950 che non siano di contenuto generico e trovino nel diritto interno un modello normativo completo nei suoi elementi essenziali, sono di immediata applicazione nel nostro paese3). Stando a questo indirizzo, poiche', l'art. 46 della Convenzione di Roma, sulla forza vincolante delle sentenze della Corte europea, non pare un precetto generico, e nell'ordinamento interno esiste il modello della revisione, che sembra idoneo ad accogliere tale precetto, si potrebbe affermare che la norma internazionale trova automatico adattamento nel nostro ordinamento, imponendo l'ammissione del giudizio di revisione, anche se questo caso non e esplicitamente menzionato tra quelli di cui all'art. 630 c.p.p. La soluzione prospettata, non e' in contrasto, anzi pare incoraggiata, dalle affermazioni della stessa Corte costituzionale contenute nella sentenza n. 10/1993. In essa, il giudice delle leggi, pronunciandosi sulla legittimita' costituzionale di alcune norme relative alla citazione a giudizio che - secondo la censura dei giudici di merito - non prevedevano l'obbligo di traduzione dell'atto nella lingua dell'imputato straniero, ha affermato che il diritto dell'accusato di essere immediatamente informato in una lingua a lui comprensibile, contemplato dall'art. 6 della Convenzione europea - lo stesso che riguarda il presente caso - andava direttamente collegato con la previsione dell'art. 143 c.p.p., in quanto diritto soggettivo «direttamente azionabile». E, cosi', ha salvato dalla declaratoria d'illegittimita' le norme del codice di rito sottoposte al vaglio di costituzionalita' dai giudici di merito. Questo collegio, tuttavia, di fronte al dato letterale dell'art. 630, lett. a) c.p.p., non e' in grado di sposare pacificamente la soluzione delineata, e dovendo compiere, in questa sede, una mera delibazione di non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale prospettata, reputa di dover rimettere ogni valutazione piu' approfondita al sovrano giudizio del giudice delle leggi. La terza violazione delle regole costituzionali e' ravvisabile per contrasto l'art. 27 Cost. Infatti, il principio secondo cui le pene devono «tendere alla rieducazione del condannato», ha un senso solo se si parte dal presupposto che tali pene siano inflitte a seguito di un processo giusto. Nessun condannato potra' sentire il dovere di rieducarsi e di riadattarsi alle regole sociali, se queste regole lo hanno condannato secondo un processo privo di equita'; correlativamente, lo Stato non potra' pretendere dal condannato la rieducazione e il reinserimento nella societa', se lo ha giudicato secondo regole inique. La stessa finzione retributiva della pena pare messa in discussione, nel caso essa venga inflitta in esito ad un processo le cui regole non garantiscono l'innocente. Infatti, in tal caso, la retribuzione ricade su chi, con elevata probabilita', non ha commesso le colpe attribuitegli. L'art. 27 della Costituzione presuppone istanze etiche che trovano contrappunto in regole processuali non inique. Il fatto di non consentire la revisione del processo a chi e' stato condannato con una procedura giudicata non equa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, le cui decisioni il nostro Paese si e' impegnato a rispettare, sembra, pertanto, violare anche la norma costituzionale che presidia la corretta finzione della pena. In esito alla disamina della questione, va precisato che la corte, in ossequio alla disposizione di cui all'art. 46 della Convenzione del 1950, in cui e' stabilita la forza vincolante delle sentenze della Corte europea, ed in considerazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale prospettata, ha provveduto, con separata ordinanza gia' depositata, a sospendere l'esecuzione della pena inflitta a Dorigo, a mente dell'art. 635 c.p.p. 3) Cfr., se non se ne e' frainteso il senso, la sentenza della Corte di cassazione, Sezioni unite, sent. 15 del 23 novembre 1988, Rv. 181288, imp. Polo Castro.