LA CORTE DI APPELLO Letti gli atti del procedimento penale iscritto al n. 142 del registro generale dell'anno 2005 a carico di Zizzi Vincenzo, nato il 27 novembre 1945 a Latiano (BR) ed ivi residente, alla via Torre Santa Susanna n. 155, imputato dei reati di usura e tentata estorsione in danno di Saponaro Carmine, commessi in Latiano, fino al luglio 1993; Dato atto che il detto procedimento e' stato definito in primo grado con sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di Brindisi in data 19 febbraio 2004, avverso la quale, nell'interesse della parte civile costituita, e' stata proposta ai fini civili tempestiva impugnazione, per la cui discussione e' stata fissata l'odierna udienza del 10 marzo 2006; Sentite le parti, che hanno concluso: il p.g., per la conferma della censurata sentenza; il patrono di parte civile, in accoglimento del proprio gravame e previa rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, per la condanna dello Zizzi al risarcimento dei danni ovvero, in subordine, in caso di ritenuta inammissibilita' dell'impugnazione, per effetto dello ius superveniens per la sollevazione innanzi al giudice delle leggi di questione di legittimita' costituzionale, per contrasto dell'art. 576 c.p.p., come modificato dall'art. 6 della legge n. 46/2006, con gli artt. 3 e 24 della Carta fondamentale; il difensore dell'imputato, per la conferma dell'appellata sentenza, rimettendosi a giustizia in ordine alla eccepita questione di legittimita' costituzionale; O s s e r v a E' di tutta evidenza che la delibazione in ordine alla fondatezza o meno dell'impugnazione proposta, inerente esclusivamente al merito della vicenda processuale in quanto incentrata sulla valutazione del materiale probatorio raccolto grazie all'istruttoria dibattimentale espletata nel corso del giudizio di primo grado (peraltro da integrare - in tesi - mediante il conferimento di apposito incarico peritale contabile), presuppone necessariamente il superamento del preliminare vaglio di ammissibilita' dell'interposto appello; vaglio da compiersi alla stregua della legge 20 febbraio 2006 n. 46, nel frattempo entrata in vigore, non prima, pero', di aver dedicato brevi e sintetici cenni, per quanto qui di interesse, alla normativa su cui la menzionata legge e' venuta ad incidere. E' noto come il sistema delle impugnazioni sia rigorosamente improntato al principio di tassativita', formalmente enunciato dall'inalterato art. 568, comma 1 c.p.p. - peraltro, mera riproposizione del primo comma dell'art. 190 dettato dal pregresso codice Rocco - che demanda appunto alla legge il compito di stabilire «i casi nei quali i provvedimenti del giudice sono soggetti ad impugnazione», come pure di determinare «il mezzo con cui possono essere impugnati». Ne e' ovvio corollario l'impossibilita' di far luogo ad interpretazione analogica in subiecta materia. Cio' posto, prima dell'emanazione della legge n. 46, tre erano le disposizioni che il legislatore del 1988 aveva dedicato al potere d'impugnazione della parte civile, due contenute nel titolo I, concernente le norme di carattere generale, ed una nel titolo II, piu' specificamente dedicato all'appello; vale a dire: l'art. 576 del codice di rito, sola norma di portata realmente generale, che, nel riconoscere indistintamente alla parte civile il potere d'impugnazione tanto avverso i capi civili contenuti nella sentenza di condanna, quanto, ai soli fini civili, avverso la sentenza di proscioglimento, ne tratteggia il concreto esercizio ricalcandolo sulla figura del pubblico ministero, per effetto dell'estensione al soggetto che incarna l'accusa privata degli stessi mezzi previsti per l'accusa pubblica; l'art. 577, che, limitatamente ai reati di ingiuria e diffamazione, prevede che la persona offesa costituita parte civile possa proporre impugnazione, «anche agli effetti penali», tanto contro le sentenze di condanna che di proscioglimento; l'art. 600, infine, il cui comma primo prevede che, «se il giudice di primo grado ha omesso di pronunciare sulla richiesta di provvisoria esecuzione proposta a norma dell'art. 540, comma 1 ovvero l'ha rigettata, la parte civile puo' riproporla mediante l'impugnazione della sentenza di primo grado al giudice di appello, il quale, a richiesta della parte, provvede con ordinanza in camera di consiglio». Tale essendo il quadro normativo pregresso, l'intervento operato dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, recante il titolo di «modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento, e' consistito, in relazione alla posizione della parte offesa/parte civile, nell'abrogazione dell'art. 577 del codice di rito (cfr. l'art. 9 della legge) e nella modifica dell'art. 576, che, per effetto delle innovazioni apportate, essenzialmente consistenti nell'abrogazione dell'inciso «con il mezzo previsto per il pubblico ministero», contenuto nel periodo iniziale del primo comma della norma, risulta ora del seguente, testuale tenore: «1. - La parte civile puo' proporre impugnazione contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l'azione civile e, ai soli effetti della responsabilita' civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio. La parte civile puo' altresi' proporre impugnazione contro la sentenza pronunciata a norma dell'articolo 442, quando ha consentito alla abbreviazione del rito. 2. - Lo stesso diritto compete al querelante condannato a norma dell'articolo 542.» E', dunque, alla norma teste' riprodotta che occorre fare riferimento, onde stabilire quali siano, allo stato, l'ampiezza ed i limiti del potere riconosciuto in materia all'anzidetta parte civile. Ebbene, l'agevole conclusione che s'impone e' che, nel persistente silenzio (con la sola eccezione in precedenza ricordata, sulla quale, peraltro, si tornera' di qui a poco) degli specifici articoli del codice di rito in tema di appello della parte civile, quali contenuti nel titolo II del libro IX, dedicato alle impugnazioni, l'eliminazione dell'inciso di cui si e' sopra detto, avendo comportato il venir meno del raccordo originariamente previsto con i mezzi di gravame riconosciuti in capo al pubblico ministero, ha finito con il circoscrivere il potere d'impugnazione della predetta parte civile al solo ricorso per cassazione, in ossequio al disposto dell'art. 568 cpv. c.p.p., con cui e' stato espressamente introdotto nel tessuto codicistico il principio gia' affermato dall'art. 111 della Costituzione, a mente del quale e' sempre esperibile ricorso per cassazione nei confronti delle sentenze, per violazione di legge. A contrastare siffatto approdo interpretativo non apporta alcun decisivo elemento la lettura della relazione alla legge, a firma dell'on. Bertolini: invero, senza necessita' di ripercorrere analiticamente le vicende che hanno condotto all'emanazione della legge n. 46, con peculiare riferimento al messaggio di rinvio alle Camere dell'originario testo di legge approvato dal Parlamento da parte del Presidente della Repubblica, in cui si sottolineava - tra l'altro - la compromissione della «possibilita' di far valere la ... pretesa risarcitoria all'interno del processo penale» in capo alla vittima del reato costituitasi parte civile, puo' darsi per scontato che ben altro fosse l'intento del legislatore: nondimeno, cio' che conta e' il «prodotto» normativo confezionato dal Parlamento, che inevitabilmente vive di vita propria, al di la' delle intenzioni perseguite dai relatori. Il che e' tanto piu' vero nel caso di specie, sia per l'assoluta chiarezza del dettato normativo che ne e' scaturito, tale da non legittimare perplessita' esegetiche di sorta (al di la' delle valutazioni di compatibilita' costituzionale di cui infra), sia per il gia' rilevato principio di tassativita' formale cui tradizionalmente e' informato il sistema delle impugnazioni. Allo stesso modo, onde sottrarsi alla inevitabile conclusione gia' rappresentata, neppure potrebbe fondatamente porsi l'accento - come pure e' stato fatto in taluni dei primi commenti apparsi sulla legge n. 46/2006 - sull'art. 600, comma 1 c.p.p. In particolare, e' stato rilevato che, continuando a prevedere detta norma, rimasta estranea all'intervento riformatore compiuto con la legge del 2006, la facolta' della parte civile di proporre appello avverso la sentenza con cui il primo giudice abbia omesso di provvedere sulla richiesta di provvisoria esecuzione proposta a norma dell'art. 540, comma 1, ovvero abbia rigettato la richiesta medesima, la disposizione contenuta nel richiamato art. 600 comma 1 del codice di rito finirebbe con l'assumere la valenza di un vero e proprio fulcro, grazie al quale fare leva per portare innanzi una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 576 c.p.p., si da non ritenere preclusa alla parte civile la facolta' di interporre appello, ai fiuti civili, avverso le sentenze di proscioglimento. Sennonche' e' agevole replicare che la norma di cui al succitato art. 600, comma 1 del codice di rito presuppone pur sempre l'esistenza di una sentenza di condanna, laddove la questione problematica - come nella vicenda processuale portata all'attenzione di questa Corte - investe l'esercizio del potere d'impugnazione della parte civile in presenza di una pronuncia di proscioglimento: ne consegne che, atteso il piu' volte rilevato carattere formale e tassativo proprio dell'intero e generale sistema delle impugnazioni, rimane ferma ed incolmabile la radicale assenza di norme in tema di appello della parte civile nei riguardi delle sentenze di proscioglimento. Vero e' semmai che la citata disposizione contenuta nel primo comma dell'art. 600 c.p.p. palesa vieppiu' l'incongruita' dell'intervento riformatore posto in essere, essendosi qui in presenza di una norma che, avulsa dal contesto in cui era coerentemente inserita in passato e che ora e' venuto meno, appare quanto meno di problematica applicazione. Infine, e' solo il caso di puntualizzare che la disposizione transitoria dettata dall'art. 10, comma 1, della legge 20 febbraio 2006 n. 46, nel prevedere l'applicazione della disciplina da essa introdotta «ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima» legge, introduce una deroga all'ordinario principio tempus regit actum, per l'effetto imponendo che l'inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento ad opera della parte civile conduca ad immediata declaratoria di inammissibilita' del mezzo d'impugnazione, benche' esercitato in precedenza, come nella presente fattispecie. Senza, peraltro, che neppure possa trovare applicazione la possibilita' di propone ricorso per cassazione, entro il termine di quarantacinque giorni dalla notifica del non impugnabile provvedimento dichiarativo della inammissibilita', giacche' siffatta eventualita' e' stata riservata dal successivo comma 2 dello stesso art. 10 ai soli imputato e pubblico ministero. Cosi' ultimata, nella parte che qui interessa, la ricognizione del quadro normativo scaturito dalle modifiche apportate dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, la Corte e' dell'avviso che possa fondatamente prospettarsi la lesione di alcuni fondamentali parametri costituzionali. Pur essendo pacifico che il doppio grado di giurisdizione di merito non e' assistito da alcuna garanzia costituzionale, neppure indirettamente, sulla base dei principi accolti dalle convenzioni internazionali recepite dal nostro ordinamento, occorre tuttavia ricordare che l'art. 111 della Carta fondamentale recita, tra l'altro, che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti ad un giudice terzo ed imparziale». E' opinione generalmente accreditata fra gli interpreti che il detto principio di parita' non debba essere inteso in senso esasperato, essendo perfettamente compatibili con il dettato costituzionale eventuali asimmetrie, che siano espressione della naturale diversita' delle funzioni svolte da ciascuna parte in seno al giudizio: donde l'ovvia conclusione che le differenze contemplate della legge devono rispondere a requisiti di ragionevolezza, si' da non frustrare il ruolo processuale della singola parte. Per vero, non va sottaciuta la posizione di quanti sostengono che il principio di parita' sancito dall'art. 111 Cost., in quanto connesso alla c.d. «costituzionalizzazione» del principio del contraddittorio, inerisca unicamente alla posizione delle parti innanzi al giudice, avendo quindi, per cosi' dire, mera valenza endo-processuale in senso stretto, senza investire anche la disciplina degli strumenti che consentono di adire il giudice. Nondimeno, pare alla Corte che tale lettura restrittiva della disposizione costituzionale non sia affatto necessitata: e' di tutta evidenza, infatti, che una interpretazione tesa a circoscrivere l'applicazione del principio di parita' alla sola fase del giudizio, strettamente inteso, rimanendone escluso il successivo momento, di reazione avverso la statuizione con cui e' stato definito il giudizio medesimo, lascerebbe spazio al rischio di un'attuazione meramente formale del principio di cui trattasi, a fronte di una inaccettabile divaricazione sostanziale dei poteri delle parti, cui fosse diversamente ed irragionevolmente riconosciuto il potere di sollecitare la decisione del giudice. Cio' e' tanto vero, ove si rifletta che, una volta esercitata dal danneggiato la facolta' di far valere la propria pretesa civilistica in ambito penale, il giudicato che si forma in detta sede ha, rispetto all'azione civile intrapresa per conseguire le restituzioni o il risarcimento del danno, la rilevante efficacia prevista dagli artt. 651 e 652 del codice di rito, di talche' la radicale inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento introdotta dalla legge n. 46 si configura come un inaccettabile vulnus alla tutela giudiziaria apprestata in favore della parte civile; a fortiori, in ragione del fatto che, assai sovente, il danneggiato dal reato ne e' anche la vittima - rectius: la persona offesa - e che, nel processo penale, la salvaguardia delle ragioni di quest'ultima e' affidata esclusivamente ai poteri attribuiti alla prima figura. A maggior conforto di quanto teste' sostenuto, inoltre, non e' inutile rammentare che nel testo legislativo inizialmente licenziato e rinviato alle Camere dal Presidente della Repubblica era presente una modifica dell'art. 652 c.p.p., attraverso la quale si consentiva alla pane civile, fino alla precisazione delle conclusioni e quindi fino alla soglia della sentenza di primo grado, di recedere dall'azione proposta in ambito penale, cosi' da evitare le implicazioni connesse alla gia' ricordata efficacia dell'accertamento penale; modifica che va indubbiamente letta come espressione della consapevolezza, da parte del legislatore, delle pesanti limitazioni apportate ai poteri della parte civile e del conseguente tentativo di ricondurre le medesime nell'alveo della ragionevolezza, per effetto del bilanciamento con il potere, di nuova introduzione, di sottrarsi alle ricadute negative del giudicato penale. Sennonche' il venir meno di detto potere nel testo definitivo della legge n. 46/2006 ha comportato la caducazione anche di tale precario spazio di riequilibrio, vieppiu' accentuando la sperequazione dei poteri in capo alla parte civile costituita. Non solo, ma non puo' non osservarsi che, per effetto dell'assetto introdotto dalla legge di cui trattasi, la persona offesa che ritenga di esercitare in ambito penale l'azione civile viene ad essere inaccettabilmente privata di un grado di giudizio, laddove il ricorso della parte medesima al giudice civile non sottopone l'azione proposta in quella sede a tale restrizione. Per non dire dell'ulteriore aggravamento del quadro, per via del gia' segnalato tenore delle disposizioni transitorie, con conseguente impossibilita', nel caso di specie, di qualsivoglia, pur parziale, tipo di «recupero» dell'azione civile proposta nel giudizio penale. La violazione del precetto costituzionale di parita' delle parti processuali involge, quale inevitabile ricaduta, anche la lesione del principio di eguaglianza e del diritto di agire in giudizio a salvaguardia dei propri diritti, quali sanciti, rispettivamente, dagli artt. 3 e 24 della Carta costituzionale. Profili che - com'e' ovvio - vengono ad assumere valenza primaria e diretta, ove non si voglia addivenire alla lata interpretazione proposta dell'anzidetto principio di parita' delle parti processuali, ex art. 111, comma 2 della Costituzione. Ulteriore parametro di cui non appare manifestamente infondato prospettare la lesione e' quello previsto dall'art. 97 Cost. Invero, la disciplina introdotta dal legislatore del 2006 comportera' inevitabilniente sensibile aumento del carico di lavoro della Suprema Corte, aggravato altresi' dalle modifiche apportate alla casistica del ricorso previsto dall'art. 606 c.p.p., tali da rendere la Corte di assazione giudice della legalita' non piu' della sentenza, ma dell'intero processo, cosi' finendone con il mutare la sua stessa natura di giudice di diritto. Dunque, in conformita' a quanto testualmente segnalato dal Presidente della Repubblica, nel proprio messaggio alle Camere del 20 gennaio c.a., «il rischio e' che ne risulti compromesso «il bene costituzionale dell'efficienza del processo, qual e' enucleabile dai principi costituzionali che regolano l'esercizio della funzione giurisdizionale, e il canone fondamentale della razionalita' delle norme processuali»... Questo rischio va a recare un vulnus al precetto costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione - articolo 97 della Costituzione - applicabile, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, anche agli organi dell'amministrazione della giustizia».