LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE

    All'udienza  in  camera  di  consiglio  del  12  maggio  2006, ha
pronunciato  la  seguente  ordinanza  nel ricorso n. 422/2005 di reg.
gen.  ric.,  proposto  dal sig. Francesco Fallara, assistito dal rag.
Lorenzo Fallara;
    Contro  l'Agenzia  delle  entrate  di Novara, avverso l'avviso di
accertamento  n. R  19010200043 adottato dal predetto ufficio in data
1° marzo 2005.
    Visto  il  ricorso  ed  i  relativi  allegati,  nonche'  tutta la
documentazione in atti.
    Sentita  in  camera  di  consiglio  la  relazione del dott. Paolo
Scafi.
    Ritenuto e considerato quanto segue.
    Con  il presente ricorso il contribuente aveva impugnato l'avviso
di  accertamento  con il quale era stato accertato per l'anno 1999 un
maggior  imponibile  I.V.A.  pari  a lire 6. 900.000, con conseguente
maggior imposta per lire 1. 380.000, oltre a sanzioni ed interessi.
    A   sostegno   dell'invocato  annullamento  veniva  lamentata  la
mancanza    di    prova    della    pretesa    impositiva   formulata
dall'amministrazione.
    Nella  circostanza  il  ricorrente  depositava  esclusivamente la
copia dell'atto impugnato.
    La  resistente  Agenzia delle entrate, in sede di costituzione in
giudizio,  richiamava  innanzitutto la giurisprudenza di legittimita'
in materia di motivazione degli accertamenti tributari e, in punto di
merito,  richiamava  un p.v.c., redatto il 7 luglio 2004 dal Servizio
Ispettivo  dell'INPS  all'esito di una verifica amministrativa svolta
tra  il  giugno  ed  il  luglio  2004, durante la quale sarebbe stato
riscontrato  l'impiego  di quattro lavoratrici non iscritte nei libri
di  legge, ed un successivo p.v.c. della Guardia di finanza di Arona,
che  in  data  10 settembre 2004 aveva quantificato l'ammontare delle
ritenute  non  operate  sulla base degli emolumenti ricostruiti dagli
ispettori dell'INPS.
    Con   l'atto  impugnato  l'Agenzia  si  era  limitata  quindi  ad
accertare ai fini I.V.A. la sottrazione dei ricavi non contabilizzati
corrispondenti alle retribuzioni corrisposte «in nero».
    Il resistente concludeva pertanto per il rigetto del ricorso e la
condanna del ricorrente alle spese di giudizio.
    All'esito della prima udienza celebrata in camera di consiglio il
7   aprile  2006  la  Commissione,  rilevata  la  complessita'  della
questione, si riservava la decisione per la data odierna.
    In  questa  sede  il  collegio rilevava innanzitutto come nessuna
delle  due  parti costituite abbia prodotto in giudizio ne' il p.v.c.
redatto  il  7  luglio  2004  dal Servizio ispettivo dell'INPS ne' il
successivo  p.v.c.  stilato  il  10  settembre  2004 della Guardia di
finanza  di  Arona, documenti menzionati dall'ufficio, al secondo dei
quali peraltro faceva gia' esplicito riferimento l'atto impugnato.
    A  parere  della Commissione si tratta evidentemente di documenti
assolutamente  necessari  ai  fini del decidere in mancanza dei quali
l'esito  del  giudizio,  anziche'  da  un  effettivo  riscontro della
fondatezza  della  pretesa tributaria contestata, dovrebbe conseguire
(esclusivamente)  alla  verifica del (mancato) adempimento dell'onere
della  prova,  vedendo  perdente  la parte che, nel caso concreto, si
ritenga non aver provato le circostanze delle quali era onerata.
    Il   collegio,   peraltro,   ben   consapevole   dell'intervenuta
abrogazione,  con decreto legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito
con  legge  2  dicembre  2005, n. 248, del comma 3, dell'art. 7 della
legge  31  dicembre  1992,  n. 546,  ove  era riconosciuta al giudice
tributario  la  facolta'  di  ordinare  alle  parti  il  deposito  di
documenti  ritenuti  necessari  per  la  decisione,  non ritiene piu'
vigente  una  possibilita'  in  tal  senso,  che di contro si sarebbe
probabilmente potuta ipotizzare, in applicazione di principi generali
o  in  analogia  di  quanto  disposto  dal  primo  comma del medesimo
articolo, ove il ripetuto terzo comma non fosse mai esistito.
    Si  tratta,  invero,  di  documenti  in  ogni  caso  decisivi per
verificare  se  e  come  la presenza di lavoratori non registrati sia
stata  constatata  dai verificatori, nonche' di riscontrare con quali
modalita' siano stati ricostruiti le relative retribuzioni «in nero».
    In   proposito  si  osserva  come  sarebbe  in  termini  generali
ammissibile  che,  cosi' come previsto nel processo civile ordinario,
anche  in  considerazione  dei  principi costituzionali in materia di
terzieta'  del  giudice alle commissioni tributarie sia interdetto di
supplire  ex  officio  alla  inerzia delle parti che non si curino di
produrre  in  giudizio  proprio quei documenti idonei a suffragare le
rispettive  richieste,  allo  stesso  modo  in  cui  cio' avviene nel
processo civile.
    Una disciplina del genere, basata sul principio di disponibilita'
della   prova,   diventa   tuttavia   inaccettabile  in  un  processo
tributario, del tipo di quello vigente, ove di contro vige tuttora la
disposizione  del  primo comma del medesimo art. 7 (cui piu' sopra si
e' fatto cenno) per la quale le commissioni hanno «ai fini istruttori
e  nei limiti dei fatti dedotti, dalle parti ... tutte le facolta' di
accesso,   di  richiesta  di  dati,  di  informazioni  e  chiarimenti
conferiti  agli uffici tributari ed all'ente locale da ciascuna legge
di imposta».
    Assolutamente  irrazionale,  a sommesso parere di questo giudice,
e'  allora  un  quadro normativo per il quale in un processo di parti
sono  riconosciuti al giudice, pur nei limiti dei fatti allegati, gli
stessi  poteri  di istruttori anche autoritativi dell'amministrazione
finanziaria,     con     l'unica    ed    ingiustificata    eccezione
dell'acquisizione  di  documenti,  pur se ritenuti non solo rilevanti
per  provare  i  fatti dedotti dalle parti ma addirittura decisivi ai
fini della decisione.
    A parere del collegio la normativa cosi' come fin qui ricostruita
e'  irrazionale  e  squilibrata,  e  come  tale  presenta  profili di
illegittimita'  costituzionale,  in particolare per contrasto con gli
artt. 3 e 24 della Carta Fondamentale.
    In particolare, sotto il primo profilo, al riconoscere al giudice
tributario  tutti  i  poteri  di  indagine  dell'ufficio,  negandogli
esclusivamente  quello di ordinare il deposito di documenti, consegue
una  discriminazione  ingiustificata tra i cittadini le cui posizioni
processuali  sono  discriminate non in base ad una consapevole scelta
del  legislatore  tra  un  processo  dispositivo  ed uno nel quale il
giudice abbia in determinata misura poteri di indagine ex officio, ma
esclusivamente a seconda della tipologia di accertamenti da svolgere,
essendo  anzi da una parte riconosciuto al giudice medesimo un potere
officioso   di   indagine   financo   senza   la  collaborazione  del
contribuente ed essendogli invece negato quello, ben meno penetrante,
di  richiedere  alle  parti  la  produzione  di determinati atti, con
l'unica  sanzione  in  caso  di  inadempimento di veder probabilmente
ritenuti  non  utilizzabili  ai  fini  del  decidere  i documenti non
depositati  nel  termine fissato e non esistenti le circostanze che i
medesimi dovrebbero comprovare.
    La normativa in questione, inoltre, suscita contestualmente dubbi
anche  per  quanto  riguarda  la  compatibilita'  con  il primo comma
dell'art.  24 della Costituzione, che riconosce a tutti il diritto di
agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi legittimi.
    Accedendo   infatti  all'opinione  dominante,  per  la  quale  il
giudizio   dinanzi   alle  commissioni  tributarie  ha  carattere  di
impugnazione,  ed  al  contribuente  e' pertanto richiesto di addurre
almeno  un  principio di prova idoneo a smentire la ricostruzione dei
fatti  (autoritativamente) operata con l'atto impugnato, nel caso che
occupa  il  ricorrente  vedrebbe  sacrificato  il  proprio diritto di
difesa  in  applicazione di un principio di terzieta' del giudice per
il  resto  estraneo alla disciplina processualtributaria, che come si
e'  evidenziato  riconosce alla commissione ben piu' rilevanti poteri
istruttori da esercitarsi (prevalentemente o esclusivamente) a favore
dell'ufficio finanziario, del quale le commissioni tributarie hanno i
medesimi poteri di accertamento.
    Il  pur  limitato rilievo che il nostro ordinamento nconosce alla
intenzione del legislatore, cosi' come desumibile dalla ricostruzione
dell'intervento  legislativo  che  ha  eliminato il previgente potere
officioso  di  acquisizione documentale, e' parso peraltro costituire
ostacolo  insuperabile  ad  una diversa ricostruzione della normativa
che,  in  considerazione  dei  canoni  costituzionali che si assumono
violati,  estendendo  il  potere  officioso  di cui al primo come del
ripetuto  art.  7  anche  al  caso  della  acquisizione  documentale,
riconoscesse  al  giudice  tributario  un  potere che una legge dello
Stato ha voluta indiscutibilmente sottrargli.
    Per  le  ragioni  suesposte,  ritenendo rilevante la questione di
legittimita'  costituzionale della disciplina processuale in punto di
poteri  istruttori del giudice applicabile nel presente procedimento,
deve   essere   disposta   la   remissione   degli  atti  alla  Corte
costituzionale e la sospensione del giudizio.