LA CORTE DI APPELLO

    Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento a carico di
Ardizzoni  Elvio,  nato a  Ferrara  il 24 dicembre 1961, imputato del
delitto  di  cui  all'art. 589  c.p.  commesso  in  danno  di Buriani
Stefano, in Ferrara l'8 aprile 1999.
    Il tribunale di Ferrara ha assolto Ardizzoni Elvio dal delitto di
omicidio  colposo  contestatogli con riferimento ad un infortunio sul
lavoro  avvenuto  in  un  cantiere  edile, nel quale erano in corso i
lavori  di costruzione di un lotto di villette e di posa in opera dei
tubi  in PVC destinati alle fognature. Ardizzoni era il gruista della
ditta  addetta  alla  costruzione degli edifici, ditta della quale e'
titolare   Grimaldi   Giancarlo.   Buriani,  la  vittima,  era  socio
dell'impresa  che aveva ottenuto in appalto i lavori di posa in opera
delle fognature.
    Il  giorno  dell'incidente,  un camion della ditta fornitrice dei
tubi  in  PVC  arrivo'  nel  cantiere  per  consegnare  a  Buriani il
materiale  da  quest'ultimo  ordinato. Il conducente del camion, dopo
aver  parcheggiato,  abbasso'  una  delle  sponde  dell'automezzo per
consentire  lo  scarico della merce, mentre Buriani chiese al gruista
Ardizzoni di aiutarlo nell'operazione. Mentre questa era in corso, un
pacco  di  tubi  si  apri,  a  causa  della rottura delle reggette di
contenimento,  ed  un  tubo,  cadendo  dall'alto, colpi' Buriani alla
testa, provocandone il decesso.
    L'imputato  ha sostenuto che, quando il fatto avvenne, egli aveva
appena  azionato  il  braccio della gru per metterlo in posizione sul
carico  e che, essendo la sua vista ostruita dalla sagoma del camion,
egli  non  vide  come  l'incidente  avvenne.  Non ci furono testimoni
oculari del fatto.
    Il  pubblico  ministero  ha  ricostruito  l'incidente  secondo le
indicazioni   del  proprio  consulente  tecnico,  che  ha  addebitato
l'incidente ad un'erronea imbracatura del pacco dei tubi da parte del
gruista.  Quest'erronea imbracatura avrebbe prodotto la rottura delle
reggette  di  contenimento  del  pacco,  nel momento in cui questo fu
sollevato  verso  l'alto  dal gancio della gru. La difesa, supportata
dal  proprio  consulente  tecnico,  sostiene che le reggette si erano
rotte  durante  il  trasporto,  a causa delle vibrazioni del camion e
dell'instabilita'  del  carico.  Il  pacco dei tubi si sarebbe aperto
progressivamente da solo, una volta abbassata la sponda del camion e,
poiche'  si  trattava  del  pacco collocato sopra tutti gli altri, il
tubo  da  esso fuoriuscito e caduto sul capo di Buriani avrebbe avuto
sufficiente  forza,  precipitando,  per  cagionare  alla  vittima  le
lesioni  mortali  contestate.  Secondo  questa ricostruzione, dunque,
l'incidente  avvenne  prima che la gru avesse agganciato il pacco dei
tubi e l'imputato e' estraneo a qualsiasi responsabilita'.
    Si  e'  costituita  in  giudizio,  quale parte civile, la signora
Boschetti  Roberta,  moglie  della  vittima,  che agisce in proprio e
quale  madre del figlio minorenne Buriani Nicola. Grimaldi Giancarlo,
datore  di  lavoro  di  Ardizzoni,  e'  stato citato in giudizio come
responsabile civile.
    All'esito  del  giudizio  di primo grado, il tribunale, sentiti i
testi  ed  i  consulenti  tecnici  delle parti, ha assolto l'imputato
osservando  che  il  consulente  tecnico  del pubblico ministero, nel
corso  dell'esame  dibattimentale,  non  ha  escluso  che l'incidente
potesse  essersi svolto diversamente da quanto da lui, in precedenza,
sostenuto;  cosicche'  ne  risulta  rafforzata la plausibilita' della
ricostruzione  dell'infortunio  fornita  dalla  difesa. Nell'assumere
questa  decisione, il giudice ha disatteso la richiesta, pur avanzata
dalla  parte  civile  nel  corso  del  dibattimento,  di disporre una
perizia sulle cause dell'incidente.
    Contro   la  sentenza,  hanno  proposto  appello  il  procuratore
generale  e la parte civile. Entrambi si sono doluti dell'assoluzione
dell'imputato  ed,  il  primo,  ai  fini  penali, la seconda, per gli
effetti  civili,  hanno  chiesto la riforma della sentenza impugnata,
previa  parziale  rinnovazione  dell'istruzione  dibattimentale,  con
disposizione   di   una   perizia   per   ricostruire   la   dinamica
dell'infortunio.
    Il  processo d'appello, chiamato all'udienza del 20 gennaio 2006,
e'  stato  rinviato alla data odierna per un difetto di citazione del
responsabile civile.
    Nelle  more, il Parlamento ha approvato, ed oggi entra in vigore,
la   legge  20  febbraio  2006,  n. 46,  sull'inappellabilita'  delle
sentenze di proscioglimento.
    Con  memoria  depositata  fuori udienza in data 1° marzo 2006, il
procuratore  generale eccepisce l'illegittimita' costituzionale delle
modifiche  introdotte  dalla nuova legge agli artt. 593, commi 1 e 2,
606,   comma   1,  lett.  e),  c.p.p.,  nonche'  dell'art. 10,  legge
n. 46/2006.  Risultano violati - ad avviso del procuratore generale -
gli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione.
    All'odierna  udienza,  il procuratore generale ha insistito sulla
preliminare  questione  di  legittimita'  costituzionale  presentata,
rilevando   profili  di  illegittimita'  costituzionale  della  nuova
normativa  anche  rispetto  all'art. 24  Cost.  La parte civile si e'
associata  alle  questioni  dedotte  dal  pubblico  ministero  ed  ha
sollevato,  dal  canto  suo, questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 576  c.p.p.,  come novellato, per violazione degli artt. 3,
24,  e 111 Cost., in relazione alla lesione dei suoi diritti ad opera
della  nuova  normativa.  Il  difensore  dell'imputato  ha chiesto di
dichiarare   irrilevanti  e  manifestamente  infondate  le  questioni
dedotte.  Esse  sarebbero  irrilevanti perche', prima di affrontarle,
questa  corte  dovrebbe  decidere  se  ammettere,  o  no, la parziale
rinnovazione    dell'istruzione   dibattimentale,   decidendo   sulla
richiesta  di  perizia  degli  appellanti; e manifestamente infondate
perche', da un lato, la posizione dell'imputato e quella del pubblico
ministero  non  sono  omologabili,  dovendosi  evitare  che  lo Stato
persegua  ripetutamente e ostinatamente il fine di punire chi e' gia'
stato  prosciolto  una  volta  e,  dall'altro,  perche' la parita' di
condizioni tra le parti di cui all'art. 111 Cost. non significa anche
parita'  di  facolta',  tant'e'  che l'art. 443 c.p.p. stabiliva gia'
delle   limitazioni  all'appello  della  pubblica  accusa  contro  le
sentenze emesse in sede di giudizio abbreviato.
    Ad   avviso   della   corte,   e'  irrilevante  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p.,
prospettata  dal  procuratore  generale.  Nel presente caso, infatti,
anche se si dovessero applicare le norme della nuova disciplina della
cui  conformita' alla Costituzione il procuratore generale dubita, la
corte  dovrebbe,  comunque, limitarsi all'applicazione degli arti 593
c.p.p.  e  10,  legge n. 46/2006, con declaratoria d'inammissibilita'
degli  appelli, riguardando l'art. 606 c.p.p. i casi del ricorso alla
Corte di cassazione.
      Al contrario, le altre questioni di legittimita' costituzionale
sollevate  dal procuratore generale, e la questione prospettata dalla
parte  civile  sono  rilevanti  e  non  manifestamente infondate, nei
termini  e  nei limiti che seguono. E, cio', per le ragioni sostenute
dalla pubblica e dalla privata accusa, e per le argomentazioni che il
collegio ritiene di dover proporre, insieme ad esse, d'ufficio.
    Andando per gradi, si osserva che il nuovo art. 593 c.p.p., prima
che  il  Presidente della Repubblica presentasse alle Camere i propri
rilievi    d'incostituzionalita',    si    limitava    a    prevedere
l'appellabilita',  da  parte  dell'imputato e del pubblico ministero,
delle  sole  sentenze  di  condanna,  cosi'  escludendo,  ex adverso,
l'appellabilita'  delle  decisioni  di  proscioglimento.  Nella nuova
stesura,  queste  ultime  sono appellabili, ma nelle sole «ipotesi di
cui all'art. 603, comma 2, se la nuova prova e' decisiva».
    L'art. 10  della  legge n. 46/2006 rende applicabili le modifiche
introdotte  alle  norme  del  codice di rito anche ai procedimenti in
corso  alla  data  d'entrata  in vigore della legge. Il secondo comma
della  norma  precisa che: «L'appello proposto contro una sentenza di
proscioglimento  dall'imputato  o  dal pubblico ministero prima della
data  di  entrata  in  vigore  della  presente legge viene dichiarato
inammissibile  con ordinanza non impugnabile». Il terzo comma concede
quarantacinque  giorni dall'ordinanza d'inammissibilita' per proporre
ricorso per cassazione contro le sentenze di primo grado.
    La  rilevanza, nel presente caso, della questione di legittimita'
costituzionale  di  questi  due  articoli  e' palese. Gli appelli del
procuratore  generale  e della parte civile sono stati proposti prima
dell'entrata in vigore della legge n. 46/2006.
    Con  riferimento  al  primo di questi gravami, si osserva che, se
l'art.  10,  comma  2, cit., deve interpretarsi nel senso che - per i
processi  in  corso, con appello gia' presentato - l'impugnazione del
pubblico  ministero va, in ogni caso, dichiarata inammissibile (salva
la  possibilita'  del  ricorso  per  cassazione  entro quarantacinque
giorni),   la   corte  dovrebbe  dichiarare  inammissibile  l'appello
proposto  e  non potrebbe giudicare nel merito. Ma anche se si accede
ad  una lettura, per cosi' dire, coordinata tra il novellato art. 593
c.p.p. e l'art. 10, legge n. 46/2006, e si ritiene che si salvino gli
appelli  proposti  dal  pubblico  ministero  contro  le  sentenze  di
proscioglimento,  nelle  ipotesi  oggi  previste  dal  secondo  comma
dell'art. 593, il risultato non cambia. Recita, infatti, quest'ultima
norma  che:  «... il  pubblico  ministero  (puo)  appellare contro le
sentenze  di proscioglimento nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma
2,  c.p.p.,  se la nuova prova e' decisiva». Tale ultima disposizione
si  riferisce  ai  casi  di  «prove  sopravvenute  o scoperte dopo il
giudizio  di  primo  grado».  Nel nostro caso, la perizia chiesta dal
procuratore generale non e' certo una prova «sopravvenuta o scoperta»
dopo  il giudizio di primo grado e, se anche ad essa si equiparano le
prove  richieste  e  ingiustamente  non  ammesse in primo grado (come
ammette  la giurisprudenza della Corte di cassazione) 1), e' noto che
il giudice di legittimita' nega il carattere di «prova decisiva» alla
perizia.   Questa   e'   una   prova  tipicamente  «neutra»,  per  le
caratteristiche  che  le sono proprie, non essendo possibili prognosi
sulle conclusioni del perito 2).
    Si  deve  concludere  che, se anche la corte ritenesse erronea la
decisione  del tribunale di escludere la perizia, data la presenza di
pareri  tecnici  discordanti  e  di  dichiarazioni dibattimentali del
consulente  del p.m. non univocamente valutabili come un ribaltamento
delle  proprie  precedenti conclusioni; e se anche ritenesse la prova
richiesta  «assolutamente  necessaria»  ai  fini  della decisione (ai
sensi  dell'art. 603,  comma  3,  c.p.p.),  non  potrebbe,  comunque,
disporre la parziale rinnovazione del dibattimento, dando ingresso al
giudizio   d'appello.   La   prova  in  questione,  infatti,  non  e'
qualificabile  come  prova  «decisiva» a carico dell'imputato; non si
puo'  ritenerla una «prova tale da incidere in modo significativo sul
procedimento  decisionale  ...  e  da  determinare ... una differente
valutazione dei fatti e portare in concreto ad una decisione diversa»
da quella assunta in primo grado 3).
    Dunque,   anche  seguendo  l'interpretazione  meno  rigorosa  del
secondo  comma  dell'art. 10 della legge n. 46/2006, la corte sarebbe
costretta a dichiarare l'inammissibilita' dell'appello della pubblica
accusa.
    Se,  invece,  la  Corte costituzionale dichiarasse illegittimo il
comma  2 dell'art. 593 novellato, nelle parti in cui limita l'appello
dell'imputato   e  del  pubblico  ministero  contro  le  sentenze  di
proscioglimento  alle  sole  ipotesi  di  cui  all'art. 603, comma 2,
quando la nuova prova e' decisiva, questo collegio potrebbe procedere
allo  scrutinio  del  gravame  proposto dal procuratore generale, con
eventuale ammissione della perizia richiesta.
    Analogamente,    la    dichiarazione    di    incostituzionalita'
dell'art. 10,  legge  n. 46/2006,  commi  2  e  3, nella parte in cui
affermano  l'inammissibilita'  degli appelli proposti dall'imputato e
dal  pubblico  ministero  prima dell'entrata in vigore della legge ed
escludono,  in  tali  casi,  il  giudizio di merito di secondo grado,
consentirebbe   a   questo   collegio   di   vagliare  la  fondatezza
dell'appello  del  procuratore generale e la necessita' di dare corso
alla prova richiesta.
    Con  riferimento  all'appello della parte civile, la questione di
legittimita' costituzionale e' altrettanto rilevante. l'art. 10 della
legge   n. 46/2006   nulla   dice,  espressamente,  circa  il  regime
transitorio  di  questo genere d'appello. Si deve, peraltro, rilevare
che  il  novellato  art. 576 c.p.p. (applicabile ex art. 10, comma 1,
legge  cit.),  pur  ammettendo  l'impugnazione della parte civile, ha
cancellato  ogni  riferimento  al  mezzo  d'impugnazione. Sono state,
infatti,  abolite  le  parole  «con il mezzo previsto per il pubblico
ministero», che in precedenza permettevano d'individuare nell'appello
lo  strumento  con  il  quale  la  parte  civile  poteva  dolersi del
proscioglimento   dell'imputato   in   primo  grado.  Cosi'  facendo,
probabilmente  contro  la  sua  stessa volonta', ma secondo il tenore
letterale e non equivoco della legge, ed in particolare dell'art. 568
c.p.p., il legislatore ha negato alla parte civile l'appello contro i
proscioglimenti   di  primo  grado,  lasciandole,  come  unico  mezzo
d'impugnazione,  il ricorso per cassazione. E', infatti, la legge che
determina  i casi in cui i provvedimenti del giudice sono soggetti ad
impugnazione  e  che stabilisce il mezzo con cui impugnarli (art. 568
c.p.p.).  Cosicche',  data  la  mancanza di riferimento, nell'attuale
articolo 576,   ad   uno  specifico  mezzo  d'impugnazione,  si  deve
necessariamente    ricorrere   alla   clausola   generale   contenuta
nell'art. 568,  comma  2,  c.p.p., secondo cui sono sempre soggetti a
ricorso  per  cassazione,  quando  non sono altrimenti impugnabili, i
provvedimenti in materia de libertate e le sentenze, salvo quelle ivi
espressamente eccettuate.
    In  applicazione  di  questa  nuova disciplina, la corte dovrebbe
dichiarare  inammissibile  anche  il  ricorso  in appello della parte
civile.  Diversamente, essa potrebbe giudicare di esso nel merito, se
la  Corte  costituzionale dichiarasse l'illegittimita' dell'art. 576,
comma  1,  c.p.p.,  come  modificato,  nella  parte in cui sono state
abolite  le parole «con il mezzo previsto per il pubblico ministero»;
cosi'  da  ricreare  il  collegamento  con  l'appello  della pubblica
accusa,  di cui si auspica - come visto - il ripristino attraverso la
declaratoria d'illegittimita' costituzionale dell'art. 593, comma 2.
    Cosi'  chiarita  la  rilevanza  delle  questioni  di legittimita'
prospettate,  si  puo'  passare  allo  scrutinio  della non manifesta
infondatezza di quella riguardante l'art. 593 c.p.p.
    La  corte ritiene che la questione sollevata meriti il vaglio del
giudice delle leggi. Invero, la prima norma della Costituzione con la
quale  l'art.  593,  comma  2,  c.p.p.,  novellato,  sembra  porsi in
contrasto,  e'  l'art. 111.  Questo  precisa che la «giurisdizione si
attua  mediante il giusto processo regolato dalla legge». E che «ogni
processo  si svolge in contraddittorio tra le parti, in condizioni di
parita', davanti a giudice terzo e imparziale».
    Questo  collegio  ha  ben  presente  l'insegnamento  della  Corte
costituzionale   in   materia  di  limiti  all'appello  del  pubblico
ministero contro le sentenze emesse a seguito di giudizio abbreviato;
insegnamento  secondo il quale «il principio della parita' fra accusa
e  difesa  non  comporta  necessariamente  l'identita'  tra  i poteri
processuali  del  pubblico ministero e quelli dell'imputato e del suo
difensore  4). Ma il giudice delle leggi non ha mancato di aggiungere
che  un eventuale diverso trattamento delle facolta' processuali - e,
dunque,  anche d'appello - del pubblico ministero per essere conforme
a  Costituzione,  dovra'  trovare una ragionevole motivazione proprio
nella peculiare posizione istituzionale del p.m., o nella funzione ad
esso affidata, o nelle esigenze di una corretta amministrazione della
giustizia  5).  Orbene,  nulla  di  tutto  questo  si riscontra nella
novella  in  esame,  ai  sensi della quale - diversamente dal caso di
cui,  all'epoca,  si  occupo' la corte - non si impedisce al pubblico
ministero  di  appellare  contro  delle  sentenze di condanna, bensi'
contro delle sentenze di proscioglimento.
    Cio'  sembra configurare una violazione della par condicio tra le
parti.   Il   pubblico   ministero,   normalmente,  ha  un  interesse
contrapposto  a  quello  dell'imputato,  e  non  si  vede  come possa
rientrare  nel processo «ad anni pari» la facolta', per una parte, di
proporre  appello  contro  la decisione a lei negativa ed il divieto,
per  l'altra  parte, di proporre lo stesso tipo di gravame in caso di
sentenza   a  lei  sfavorevole.  Ne'  sembrano  ravvisabili  esigenze
strettamente  connesse  alla  posizione  o  alla  funzione tipica del
pubblico  ministero, ne' di corretta amministrazione della giustizia,
tali  da  giustificare il diniego dell'appello del pubblico ministero
contro le sentenze di proscioglimento.
    Al   contrario,   la   funzione  affidata  a  quest'organo  della
giustizia,  cosi'  come  un'adeguata amministrazione di quest'ultima,
dovrebbero  mirare  a  garantire,  attraverso strumenti consoni e non
defedati,  il  ripristino  della  legge  violata  e  la punizione dei
colpevoli  dei  reati.  Non  si  puo'  dimenticare che, alla base del
processo  penale,  vi  e'  l'esigenza  dello  Stato  di  garantire il
ripristino  dei  diritti della persona offesa. Tale ripristino non si
riduce  alla  tacitazione dell'obbligazione civile nascente dal reato
ex  art. 185  c.p.  Esso  si  attua anche attraverso lo strumento del
processo  penale;  uno  strumento che trova insopprimibile fondamento
nell'obbligo di solidarieta' che impegna lo Stato nei confronti delle
vittime.
    Certamente, infatti, anche allo Stato si applica il dovere di cui
all'art. 2 Cost. D'altronde, i cittadini hanno pari dignita' sociale,
sono uguali davanti alla legge (art. 3 Cost.), e non sono ammissibili
discriminazioni  in  base  alle  condizioni  personali  o  sociali. I
diritti delle vittime dei reati, pertanto, hanno dignita' almeno pari
a  quelli  dell'imputato, e la loro difesa non puo' essere affidata a
dei  mezzi  irragionevolmente squilibrati rispetto a quelli garantiti
all'incolpato.  Assicurare  al  pubblico  ministero adeguate facolta'
processuali,  significa  preoccuparsi  delle esigenze di difesa delle
vittime.
    Alle  censure  d'incostituzionalita'  mosse  dal Capo dello Stato
alla  prima stesura del nuovo art. 593, il Parlamento ha risposto con
l'introduzione  del  secondo comma sopra ricordato, che, introducendo
l'appello  dell'imputato  e del pubblico ministero contro le sentenze
di  proscioglimento,  lo  limita  ai  soli casi in cui emergano prove
«sopravvenute  o scoperte dopo il giudizio di primo grado». Ma - come
s'e'  visto  -  tali  casi si riducono a quelli in cui, nello stretto
arco di tempo per proporre appello, sopravvengano o si scoprano nuove
prove,  e  a quelli di prove «decisive» ingiustamente negate in primo
grado.  L'esiguita'  di  queste  ipotesi  appare  cosi'  evidente, da
rendere  non  manifestamente  infondata l'opinione che il ritocco del
legislatore  sia  stato  poco piu' che virtuale. Mentre si continua a
negare al pubblico ministero, senza una «ragionevole motivazione», di
appellare   le   sentenze  di  proscioglimento  in  caso  di  erronea
valutazione,  da  parte  del  giudice,  delle prove gia' acquisite in
primo grado.
    Nemmeno dopo le novita' introdotte a seguito dei rilievi del Capo
dello  Stato,  la  disparita' di trattamento mantenuta tra imputato e
pubblico  ministero  sembra compatibile con la diversita' di funzioni
svolte  dalle  parti  nel processo; e tale disparita' e' bene che sia
vagliata  dalla  Corte costituzionale onde verificare se essa violi i
limiti fissati al legislatore ordinario dall'art. 111 Cost.
    La  violazione  di  questa disposizione sembra prospettarsi anche
sotto  il  profilo  del  contrasto  della  nuova  disciplina  con  il
principio  della ragionevole durata del processo. L'impossibilita' di
proporre   appello   contro   le   sentenze   di   proscioglimento  e
l'allargamento  dei  casi  del  ricorso  per  cassazione  mediante la
possibilita', affidata alla suprema Corte, di scrutinare la logicita'
della  motivazione  sulla scorta degli atti processuali, determinera'
un  aumento  esponenziale  del  lavoro di quest'ultima ed, in caso di
accoglimento  del ricorso, un regresso alla fase del primo grado, con
evidente  dilatazione  dei tempi processuali, scarsamente compatibile
con il dettato costituzionale.
    La  seconda  norma,  con  la  quale il nuovo art. 593 c.p.p. pare
configgere,  e' l'art. 3 della Carta fondamentale. Se il principio di
ragionevolezza  si sostanzia nella necessita' di trattamento dei casi
simili  in  modo  simile,  e dei casi disuguali in modo disuguale, si
stenta  a comprendere perche' al pubblico ministero - la cui funzione
nel  perseguimento  dei colpevoli e' sempre la stessa - si continui a
permettere  di  appellare  le  sentenze di condanna, con richiesta di
aumento  delle  pene  ritenute  troppo  lievi,  mentre s'impedisce di
appellare  le  sentenze  di  proscioglimento, che ben piu' gravemente
disattendono l'aspettativa di punizione dello Stato.
    Non manifestamente infondata appare anche la violazione dell'art.
97  della  Costituzione,  che  presidia  i  beni del buon andamento e
dell'imparzialita'   della   pubblica   amministrazione.   La   Corte
costituzionale  si  e'  espressa  piu'  volte  nel  senso di ritenere
applicabile questa norma anche agli organi dell'amministrazione della
giustizia  6).  Ove  si intenda il riferimento al «buon andamento» ed
alla  «imparzialita» dell'amministrazione in termini non solamente di
efficienza  della  macchina  giudiziaria,  ma anche di assicurazione,
verso  tutti  i  cittadini,  tra  cui  le vittime dei reati, del piu'
completo  ed  imparziale  perseguimento  del  fine di repressione dei
reati,  allora  si  deve  ritenere  che  una  norma che impedisca, al
pubblico    ministero,    di   emendare   l'erroneo   proscioglimento
dell'imputato  ed,  alle  vittime,  di  vedere corrisposta la propria
legittima  aspettativa  di  punizione,  violi il disposto della norma
costituzionale indicata.
    Ulteriore  violazione prospettabile e' quella dell'art. 112 Cost.
La  corte  non  ignora  che  non  sempre  il  giudice  delle leggi ha
ricollegato la facolta' d'appello del pubblico ministero al principio
di  obbligatorieta'  della  azione  penale  7). Tuttavia, non si puo'
dimenticare  un  altro,  anche se piu' datato, indirizzo della stessa
Corte   costituzionale,  secondo  il  quale  l'esercizio  del  potere
d'appello  della  pubblica  accusa non e' altro che un'emanazione del
principio fissato dall'art. 112 Cost. Se, nell'interpretazione di cui
la  Consulta  e'  organo  sovrano,  dovesse  prevalere questo secondo
indirizzo, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593,
comma 2, c.p.p., come novellato, sarebbe non manifestamente infondata
anche con riguardo all'art. 112 della Carta fondamentale.
    Passando    all'analisi    della    questione   di   legittimita'
costituzionale  che  attiene  alla attuale formulazione dell'art. 576
c.p.p.,  le  norme  fondamentali  la  cui  violazione  sembra potersi
prospettare,  senza  pericolo  di  manifesta  infondatezza,  sono gli
artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.
    La  premessa  e' stata gia' esposta: la nuova disciplina parla di
facolta' d'impugnazione della parte civile, ma non specifica il mezzo
con  il  quale  questa si puo' dolere della decisione di primo grado;
d'altro  canto,  e'  stato  tolto  il riferimento che, in precedenza,
individuava  lo  strumento di gravame della parte civile nello stesso
mezzo d'impugnazione concesso al pubblico ministero. Ne consegue che,
per individuare attraverso quale via la parte civile puo' proporre le
proprie   doglianze,  deve  farsi  capo  alla  disposizione  generale
contenuta    nell'art. 568,   comma   2,   c.p.p.,   con   necessaria
individuazione   del   ricorso   per  cassazione  come  unica  strada
percorribile.
    La  violazione  dell'art. 111 Cost. sembra, allora, prospettabile
sotto  il  profilo  che, fintanto che il legislatore avra' concesso a
chi  e'  stato  danneggiato da un reato di esercitare l'azione civile
nel processo penale, costui non potra' essere discriminato in maniera
irragionevole  rispetto  all'imputato.  Se a quest'ultimo si fornisce
uno  strumento  di doglianza nel merito nei confronti della decisione
del  primo giudice, lo stesso strumento, nel caso di soccombenza, non
puo'  essere  sottratto  alla parte civile, pena la lesione della par
condicio processuale.
    Del pari, non manifestazione infondata sembra la questione di una
violazione  del  diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost. Se questo
diritto  e'  garantito  a  tutti  i  cittadini,  e  dunque  anche  ai
danneggiati dal reato, e se esso e' inviolabile in ogni stato e grado
del  procedimento,  sembra  che  questi  principi  siano feriti dalla
previsione  di  un secondo grado di giudizio in cui l'imputato potra'
svolgere le proprie doglianze, mentre la parte civile non potra' fare
entrare  le  proprie. Si badi, tra l'altro, che l'appello della parte
civile  e' escluso anche in caso di condanna dell'imputato, cosicche'
la  parte  civile  non si potra' dolere nemmeno se avra' doglianze di
merito da sollevare in ordine al quantum liquidatole.
    Non  manifestamente infondata, infine, la questione di violazione
dell'art. 3  della Costituzione. Nel senso che, mentre al danneggiato
che  percorre  la  strada  del processo civile e' riservato il doppio
grado  di giudizio di merito, al danneggiato che sceglie d'esercitare
la   medesima   azione  nel  processo  penale  e'  impedito  di  fare
altrettanto.  Anche  qui, seppure si debba riconoscere al legislatore
un  ampio margine di scelta rispetto all'alternativa se consentire, o
meno,  al  privato  danneggiato  d'inserire  le  proprie richieste di
carattere  civile in un processo dai risvolti eminentemente pubblici,
una  volta  che  questa  scelta  sia stata operata in senso positivo,
sembra  irragionevole  strozzare,  senza  congrua  giustificazione, i
diritti del danneggiato, privandolo di un grado di giudizio.
    Quanto  alla  norma  contenuta nell'art. 10, comma 1, della legge
n. 46/2006, essa sembra violare gli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 Cost.,
laddove  afferma  applicabili  gli attuali artt. 593, comma 2, e 576,
comma  1,  c.p.p.,  ai  procedimenti  in  corso. Le ragioni di questa
violazione  sono  le  medesime  esposte  sopra. Si profila, altresi',
un'ulteriore disparita' di trattamento sotto il seguente aspetto. Non
e'  ragionevole  l'estensione  della  nuova  disciplina al caso degli
appelli  gia' proposti. E' privo di ragionevolezza (v. art. 3 Cost.),
oltre  che contrario al diritto di difesa (art. 24 Cost.), privare di
un   mezzo   specifico  di  gravame  chi  vi  aveva  riposto  congruo
affidamento perche', al momento dell'impugnazione, quel mezzo gli era
garantito dall'ordinamento.
    Anche  i  commi  2  e  3 dell'art. 10 sembrano in contrasto con i
principi  costituzionali.  Tali  commi  -  nell'interpretazione  piu'
restrittiva  -  impongono  al  giudice  di  dichiarare, in ogni caso,
l'inammissibilita'  degli  appelli  proposti  prima  dell'entrata  in
vigore  della  legge  n. 46/2006.  L'unica  possibilita'  concessa al
ricorrente e' di proporre ricorso per cassazione entro quarantacinque
giorni dalla declaratoria d'inammissibilita' dell'appello. Oltre alle
ragioni d'incostituzionalita' gia' indicate, va qui messo in evidenza
che  si  crea,  con  questo  meccanismo,  un'ulteriore  disparita' di
trattamento   (art. 3   Cost.).   Si   discrimina,   infatti,   senza
giustificata  motivazione,  la posizione di coloro che hanno proposto
appello prima dell'entrata in vigore della legge, da quella di coloro
che  proporranno  l'impugnazione  in seguito. Solo a questi ultimi, e
non   ai   primi,   e'   concessa  la  facolta'  d'appello  contro  i
proscioglimenti,  seppure  nei  limiti  del  novellato  comma secondo
dell'art. 593.
          1)  Cfr., in tal senso, Cass., sez. 6, sent. n. 7197 del 10
          dicembre 2003, Rv. 228462, imp. Cellini; Conf.: n. 4882 del
          1997 Rv. 208135, n. 11082 del 1999 Rv. 214334.
          2)  Tra  le  altre,  cfr.  Cass.,  sez. 4, sent. 4981 del 5
          dicembre  2003,  Rv. 229665,  ric. p.g. in proc. Ligresti e
          altri.  Conf.:  Cass.  n. 37033  del 2003 Rv. 228406; Cass.
          n. 17629 del 2003 Rv. 226809.
          3)   Tra  parentesi  le  parole  piu'  significative  della
          definizione di «prova decisiva» contenuta in Cass., sez. 6,
          n. 35122/2003.
          4) Cosi', Corte costituzionale, sent. n. 363/1991.
          5)  V.  la  sentenza della Corte costituzionale di cui alla
          nota che precede.
          6) Cfr. le sentenze nn. 18/1989 e 86/1982.
          7)  Questa  connessione  e' stata negata, ad esempio, dalla
          sentenza della Corte costituzionale n. 280/1995.