IL TRIBUNALE Tratto a giudizio con decreto di giudizio immediato in data 25 settembre 2006, Souhayel Mohamed - imputato del reato di cui all'art. 73, d.P.R. n. 309/1990 (oltre che del reato di cui all'art. 4 legge n. 110/1975) per avere detenuto a fini di illecita cessione a terzi gr. 33,360 di sostanza stupefacente tipo eroina, con un principio attivo pari a g. 2,902 pari a complessive 116 dosi - formulava, tramite difensore munito di procura speciale, tempestiva richiesta di definizione del procedimento nelle forme del giudizio abbreviato. Alla udienza camerale in data 7 novembre 2006, in sede di discussione, all'esito delle conclusioni del p.m., il difensore chiedeva il riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 73 comma 5 del citato decreto in considerazione del modesto dato ponderale, della scadente qualita' della sostanza, delle rudimentali modalita' di spaccio, in termini di prevalenza sulla contestata recidiva, sottoponendo al vaglio di questo giudice la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69/4 c.p. nella nuova formulazione introdotta dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, posto che dalla mera applicazione del giudizio di equivalenza tra le circostanze in questione, deriverebbe una pena manifestamente sproporzionata e non adeguata rispetto alla condotta contestata all'imputato. Infatti, nella fattispecie, l'imputato e' recidivo reiterato, specifico ed infraquinquennale, atteso che egli ha riportato quattro precedenti condanne per reati in materia di sostanze stupefacenti, una condanna per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali e una condanna per porto in luogo pubblico ingiustificato di armi. E' appena il caso di rammentare in proposito che la recidiva reiterata puo' essere ritenuta, pur in mancanza di una precedente apposita dichiarazione giudiziale dello status di recidivo, dichiarazione che non ha natuta costitutiva (cfr. Cass. 16 marzo 2004, Marchetta e ass. 6 maggio 2003, Andreucci). L'art. 69/4 c.p., novellando la norma codicistica previgente, stabilisce che «Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i casi previsti dall'articolo 99, quarto comma, nonche' dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero 4), per cui vi e' divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti, ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato». Appare di tutta evidenza che il tenore letterale della disposizione teste' riportata introduce una limitazione al potere del giudice di formulare il giudizio di prevalenza di eventuali circostanze attenuanti al cospetto della recidiva reiterata, derogando in tal modo al disposto generale dell'art. 69, comma 4, c.p. introdotto dall'art. della legge 6 del decreto legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 2004, n. 220. In particolare, non puo' accedersi alla diversa interpretazione prospettata al fine di circoscrivere la portata applicativa della disposizione di legge, ossia che il divieto di prevalenza possa essere limitato alle sole circostanze attenuanti inerenti la persona del colpevole, atteso che in tal caso si finirebbe per escludere la praticabilita' del giudizio di prevalenza soltanto alle attenuanti previste agli artt. 89, 91, 95, 96 c.p. con esiti del tutto marginali, rispetto alla finalita' conclamata di inasprimento del trattamento sostanziale e processuale del recidivo reiterato, ed addirittura irragionevoli (in via esemplificativa, potrebbe essere riconosciuta la prevalenza sulla recidiva reiterata dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 2 c.p. e non della seminfermita' mentale). Parimenti non puo' convenirsi sulla soluzione ermeneutica che poggia sulla distinzione tra la generica locuzione «attenuanti» di cui all'inciso e le attenuanti «qualificate» della seconda parte del comma, per farne discendere la limitazione del divieto di prevalenza alle sole attenuanti comuni (art. 62 c.p.) e non alle attenuanti ad effetto speciale ovvero a quelle che prevedono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato, posto che, a prescindere dalla debolezza del dato letterale al quale dovrebbe affidarsi il compito di marcare una consapevole scelta di campo del legislatore (che, interpolando l'art. 69 comma 4 c.p. nella formulazione previgente, ben potrebbe avere adottato, nell'inciso, un termine volutamente omnicomprensivo) non appare scevra anche in questo caso da profili di irragionevolezza consentendo la possibilita' di riservare un trattamento sanzionatorio di maggior favore proprio ai recidivi che, ad esempio, potrebbero lucrare l'effetto di prevalenza dell'attenuante di cui all'art. 648 comma 2 c.p., e non quella dell'art. 62 n. 4 c.p. Non ignora questo giudice che l'ordinamento contempla l'esistenza di disposizioni di legge che, derogando al principio dell'art. 69, comma 4 c.p. introducono limitazioni al giudizio di comparazione delle circostanze eterogenee. Una di queste e' l'art. 1, comma 3 del decreto legge 15 dicembre 1979, n. 625, convertito nella legge 6 febbraio 1980, n. 15 per i reati commessi con finalita' di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico; altra e' l'art. 7, comma 2 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni nella legge 12 luglio 1991, n. 203 per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p. o al fine di agevolare le associazioni di stampo mafioso; altra ancora e' l'art. 3, comma 2 del decreto legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205 per i delitti commessi per finalita' di discriminazione o di odio etnico, nazionale, religioso; infine l'art. 12/3-quater legge n. 286/1998 introdotto dall'art. 11/1, lettera c) della legge 30 luglio 2002, n. 189 per i delitti di illegale introduzione di cittadini extracomunitari. Con la prima delle disposizioni sopra citate venne disposto che «le circostanze attenuanti concorrenti con la aggravante di cui al primo comma (ossia la finalita' di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico) non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa ed alle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o ne determina la misura in modo indipendente da quella ordinaria del reato». La norma ebbe a superare il vaglio di costituzionalita' per l'asserita violazione dell'art. 3, avendo il giudice delle leggi ritenuto che la preclusione del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti non avrebbe necessariamente impedito la loro applicazione, dal momento che il venir meno della obbligatorieta' del giudizio di bilanciamento - determinato proprio dalla limitazione del potere discrezionale del giudice imposto dall'art. 1, comma 3 - avrebbe consentito il recupero del principio generale sancito dall'art. 63, comma 3 c.p., con la conseguente possibilita' di calcolare la diminuzione di pena una volta applicata (obbligatoriamente) l'aggravante. In altri termini, la corretta interpretazione della disposizione avrebbe posto il giudice nell'alternativa tra effettuare il giudizio di bilanciamento riconoscendo carattere di prevalenza o equivalenza all'aggravante, ovvero escluderlo e dare luogo all'aumento per l'aggravante ed alla diminuzione per l'attenuante o le attenuanti riconosciute. Di tenore sostanzialmente analogo le ulteriori disposizioni sopra richiamate che, con formulazione pressoche' identica prevedono il divieto di equivalenza o prevalenza delle circostanze attenuanti, diverse da quella di cui all'art. 98 c.p., rispetto alle aggravante da esse introdotte, stabilendo altresi' che «le diminuzioni di pena si operano sulla quantita' di pena risultante dall'aumento conseguente alla predetta aggravante». La rottura dell'obbligatorieta' del giudizio di bilanciamento delle circostanze, affermata dalla sentenza n. 38/1985 con riferimento all'aggravante della finalita' di terrorismo, sostanzialmente ripresa e puntualizzata dalle successive disposizioni derogatrici, potrebbe indurre a ritenere che anche nel caso di specie l'interpretazione costituzionalmente orientata imponga una lettura della disposizione dell'art. 69, comma 4 c.p. su di una duplicita' di piani, scindendo l'ipotesi in cui il giudice tenda a procedere al bilanciamento (caso in cui la rilevanza della recidiva reiterata imporrebbe di pervenire ad un giudizio di prevalenza o di equivalenza), da quella in cui ritenga prevalenti le attenuanti; nel qual caso l'effetto della norma in questione si risolverebbe nell'imporre l'applicazione, a questo punto obbligatoria, dell'aggravante sulla pena risultante dalla comparazione tra attenuanti diverse dalla recidiva reiterata. Reputa tuttavia lo scrivente che siffatta interpretazione non possa ricavarsi ne' dal testo normativo, ne' per via sistematica. In primo luogo, e' il caso di constatare che l'art. 3 della legge n. 251 e' intervenuto direttamente sul testo dell'art. 69, c.p., cio' che pare assumere effetti conformativi della disciplina del concorso di circostanze eterogenee, modellandola in via generale nel senso di precludere uno dei possibili esiti dell'esplicazione del potere discrezionale del giudice, quello della prevalenza della attenuanti sulla recidiva reiterata. In secondo luogo la disposizione in oggetto non prevede, a differenza delle norme di legislazione speciale, il richiamo alla disciplina del concorso eterogeneo stabilita dall'art. 63 c.p., e tale scelta non sembra priva di significato, dal momento che la formulazione delle deroghe al principio ricavabile dall'art. 69 c.p. appariva giustificarsi proprio in ragione dell'adesione all'opzione interpretativa della Corte che si adisce, e della necessita' di dissolvere le ambiguita' interpretative cui aveva dato luogo la norma capostipite. In altri termini, la nuova formulazione dell'art. 69 c.p. sembra imporsi come consapevole limitazione del potere discrezionale del giudice di procedere al giudizio di bilanciamento in tutte le possibili esplicazioni attraverso la preclusione di uno dei possibili esiti (il giudizio di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata). Tanto premesso, poiche' appare assodato pacificamente ed incontrovertibilemente che la disposizione di cui all'art. 73 comma 5, d.P.R. n. 309/1990 integri una circostanza attenuante ad effetto speciale, e' di immediata percezione che a fronte della contestazione della recidiva reiterata (qui anche specifica ed infraquinquennale) sarebbe precluso il giudizio di prevalenza della prima che, al piu', potrebbe incidere, unitamente ad altre attenuanti - ad esempio le generiche - a fondare un giudizio di equivalenza. Da cio' discenderebbe che fatti di contenuta rilevanza sotto il profilo oggettivo, tanto per modalita' dell'azione quanto per entita' del dato ponderale, destinati di norma a trovare la risposta sanzionatoria nell'area di applicabilita' dell'ipotesi attenuata, ove consumati da recidivi reiterati (ed indipendentemente dalla natura della recidiva) dovrebbero necessariamente essere puniti a termini del ben piu' severo art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990, vale a dire con una pena minima edittale di anni 6 di reclusione ed Euro 26.000,00 di multa. In termini piu' generali, il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti, c.d. ad effetto ordinario e ad effetto speciale, priverebbe il giudice della possibilita' di inquadrare il trattamento sanzionarlo nell'area della minor gravita' in tutti quei casi di riconoscimento normativo - attraverso l'introduzione di ipotesi attenuate - del minor disvalore del fatto (e' il caso, in via meramente esemplificativa degli artt. 609-bis u.c. 648, comma 2 o, con riguardo alle attenuanti ad effetto comune, 323-bis c.p.). L'interpretazione dell'art. 69 comma 4 c.p. come modificato dall'art. 3 della legge n. 251/2005 sopra prospettata, che si ritiene la sola praticabile, sia sotto il profilo letterale che sotto quello sistematico non sembra sottrarsi a fondati dubbi di legittimita' costituzionale per violazione degli artt. 3 comma 1, 25 comma 1 e 27 comma 3. Tuttavia, l'attuale formulazione dell'art. 69/4 c.p., appare al giudicante in contrasto, innanzitutto, con l'art. 3/1 Cost., e quindi con il principio di ragionevolezza, quale accezione particolare del principio di uguaglianza. E' noto infatti che la Corte costituzionale ha piu' volte affermato che rientra nella discrezionalita' del legislatore la determinazione della quantita' e della qualita' della sanzione penale; nel contempo, pero', il giudice delle leggi ha evidenziato in numerose pronunce che l'esercizio di tale discrezionalita' puo' essere sindacato quando esso non rispetti il limite della ragionevolezza, e dia luogo, quindi, ad una disparita' di trattamento palesemente irragionevole (cfr. per tutte ordinanza n. 438/2001). Anche da ultimo il giudice delle leggi ha opportunamente ribadito che «a prescindere dal rispetto di altri parametri, la normativa deve essere anzitutto conforme a criteri di intrinseca ragionevolezza» (cfr. sent. n. 78 del 10-18 febbraio 2005). La giurisprudenza della Corte che si adisce ha da tempo fissato le coordinate che segnano la dimensione ontologica e finalistica del trattamento sanzionatorio secondo i precetti costituzionali ricavabili dall'art. 3 dai commi primo e terzo dell'art. 27. La sproporzione e la irragionevolezza del trattamento sanzionatorio per casi quale quello in esame confliggono anche con il principio della funzione rieducativa della pena (art. 27/3 Cost.), non apparendo soddisfacente, per motivare la eventuale compatibilita' della norma con detta funzione, la mera possibilita' di avvalersi, nella esclusiva sede esecutiva, delle misure alternative alla detenzione previste dall'ordinamento. La preclusione imposta al giudice di formulare eventualmente un giudizio di prevalenza di una o piu' circostanze attenuanti rispetto alla recidiva reiterata, senza lacuna eccezione, comporta un appiattimento del trattamento sanzionatorio per situazioni che potrebbero essere assai diverse e potrebbero imporre, come nel caso in esame, la irrogazione di una pena manifestamente sproporzionata ed irragionevole, dalla espiazione della quale non deriverebbe certamente la rieducazione del condannato. La personalita' della responsabilita' penale, in particolare, e' assicurata soltanto da un trattamento sanzionatorio che sia proporzionato rispetto al disvalore del fatto concreto, e tale proporzione diviene altresi' misura della uguaglianza dei consociati rispetto alla pena, la cui applicazione viene in tal modo ad affrancarsi da connotazioni tali da privilegiare, in tutto o in parte, finalita' di difesa sociale spesso discendenti da moti di opinione non sempre razionali. Difatti, «l'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti - in termini di uguaglianza e/o differenziazione di trattamento - contribuisce da un lato a rendere quanto possibile "personale" la responsabilita' penale, nella prospettiva segnata dall'art. 27, primo comma; stesso tempo e' strumento per una determinazione della pena quanto piu' possibile "finalizzati" nella prospettiva dell'art. 27, terzo comma, Cost. L'uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, "proporzione" della pena rispetto alle "personali" responsabilita' ed alle esigenze di risposta che ne consegnano, svolgendo una funzione che e' essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potesta' punitiva statale» sent. n. 50/1980, richiamata dalle sentenze 299/1992, 306/1993). Sotto altro ma connesso profilo, superando la concezione restrittiva che voleva il principio rieducativo destinato ad operare soltanto nella fase esecutiva, si e' riconosciuto che la finalita' enunciata dall'art. 27 comma 3 contiene un precetto rivolto allo stesso legislatore, segnalando «una delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto estingue» (sent. 313/1990). Il divieto del giudizio di prevalenza della circostanze attenuanti, implicherebbe una vera e propria eterogenesi dei fini, sovvertendo la finalita' rieducativa in favore di esigenze di difesa sociale «sacrificando il singolo attraverso l'esemplarita' della sanzione» (sent. 313/1990 cit.). Difatti, l'incidenza obbligatoriamente riconosciuta alla recidiva specifica nella dosimetria della pena si presta ad alterare la proporzione tra fatto e sanzione, connotando quest'ultima di un plusvalore rappresentativo di finalita' eccedenti. Se e' vero che il contenuto del principio costituzionale sancito dall'art. 27, terzo comma, come rilevato dalla piu' aggiornata dottrina, non puo' spingersi oltre la possibilita' per il reo di riappropriarsi dei valori fondamentali della convivenza, tra i quali quello di prestare osservanza ai precetti dell'ordinamento penale, e' di immediata evidenza la necessita' che il destinatario percepisci il disvalore del reato commesso e l'esistenza di un rapporto di immanente proporzione tra fatto e sanzione. Diversamente, la rottura del punto di equilibrio finirebbe per ingenerare sentimenti di insofferenza e ribellione ad una pena percepita, nella sua connotazione di esemplarita', come ingiustificatamente afflittiva. E' quanto accade nel caso di specie in cui, proprio per effetto della preclusione del giudizio di prevalenza, fatti di contenuto, se non addirittura modesto, disvalore (si pensi, per l'appunto alla detenzione per uso non esclusivamente personale di un quantitativo di stupefacente di poco eccedente i limiti tabellari, o della ricettazione di beni di scarso valore) verrebbero ad essere sottoposti, se commessi da qualsiasi recidivo reiterato, ad un trattamento sanzionatorio manifestamente sproprorzionato, dal momento che e' lo stesso legislatore ad enucleare un area di condotte meritevoli di una risposta sanzionatoria variabilmente piu' mite. Sotto altro profilo, calibrando la risposta sanzionatoria anche in funzione della pericolosita' sociale espressa dal recidivo reiterato secondo un giudizio sostanzialmente presuntivo (posto che nessun rilievo viene riconosciuto alla natura della recidiva ed alla qualita' della capacita' criminale da essa espressa) il legislatore finirebbe per evocare aperture verso un diritto penale dell'autore, in evidente contrasto con l'art. 25, secondo comma Cost., che connette indefettibilmente la responsabilita' penale - ed il trattamento sanzionatorio che ne consegue - alla consumazione di un «fatto» nella sua materialita'. La questione appare quindi non manifestamente infondata per violazione degli artt. 3/1, 25/2 e 27/3 Cost. La questione e' altresi' rilevante nel presente processo in quanto il prevenuto, pur dovendo rispondere di un fatto connotato da gravita' riconducibile all'ambito di applicazione dell'ipotesi lieve ex art. 73, comma 5 d.P.R. n. 309/1990, in quanto provato il suo «status» di recidivo reiterato specifico ed infraquinquennale, si vedrebbe applicato, in ipotesi di condanna, il piu' severo trattamento sanzionatorio previsto dal comma 1 dello stesso articolo.