LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE Ha emesso la seguente ordinanza sull'appello n. 5581/04, depositato il 5 novembre 2004, avverso la sentenza n. 302/39/2003 emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Roma contro Comune di Roma, proposto da ricorrente: Valcannuta 1990 S.r.l., via di Villa Emiliani, 21 - 00197 Roma, difeso da dott. Vincenzo Sportelli avv. Giuseppe Natola, via Claudio Monteverdi n. 16 - 00198 Roma. Atti impugnati: avviso di liquidazione n. 884 I.C.I. 1994. F a t t o In data 27 dicembre 2000 furono notificati alla societa' Valcannuta 90 s.r.l. due avvisi di liquidazione ed accertamento in rettifica relativi l'ICI per gli anni 1993 e 1994. Avverso tali atti la societa' ricorreva alla Commissione tributaria provinciale di Roma lamentando: 1. - La denuncia della ricorrente di un valore di lire 7.000.000.000 fu compiuta ai sensi dell'articolo 5 della legge n. 504 del 1992 avendo riguardo alla zona di ubicazione. Il comune di Roma avrebbe modificato il valore dichiarato dalla societa' ai sensi dell'articolo 5 basandosi sulle risultanze dell'atto di aumento di capitale sociale mediante conferimento di terreno rogato in data 5 aprile 1990 e di un successivo atto di conferimento del 23 dicembre 1996, dai quali potevano desumersi valori di lire 15.720.000.000 e lire 22.000.000.000. Il comune ha quindi calcolato un incremento medio annuo comparando il valore di conferimento del 1990 con quello del 1996. Tale modo contrasterebbe con il citato articolo 5. 2. - Il terreno in questione non e' collocato in zona edificabile poiche' non inserito in un piano pluriennale di attuazione. Pertanto, ai sensi dell'articolo 2 della legge, occorre avere riguardo alla possibilita' effettiva di edificazione L'Ufficio non si e' costituito. Con sentenza n. 302/39/03 del 5 giugno-30 settembre 2003 la Commissione respingeva il ricorso osservando che la ricorrente si era limitata ad una critica dell'operato dell'Ufficio senza produrre documentazione idonea a sostegno delle tesi difensive, quali gli atti di aumento di capitale e l'attestazione della ubicazione del terreno in zona M2 del PRG non ancora inserita nel piano pluriennale. Avverso tale sentenza la societa' contribuente propone appello con atto notificato il 29 ottobre 2004, lamentando: 1) carenza di motivazione dell'atto impugnato. 2) l'illegittimita' del calcolo compiuto dal comune e basato su una presunta variazione in aumento del valore prendendo a base di computo i valori dichiarati in sede di conferimento degli immobili nel capitale sociale. 3) la non edificabilita' dell'area, priva di un piano particolareggiato, e dunque la illegittimita' di considerarne il valore come se in effetti suscettibile di edificazione. Il comune non si e' costituito. D i r i t t o L'articolo 11-quaterdecies, comma 16 del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, stabilisce che «ai fini dell'applicazione del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, la disposizione previsi dall'articolo 2, comma 1, lettera b), dello stesso decreto si interpreta nel senso che un'area e' da considerare comunque fabbricabile se e' utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale, indipendentemente dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo». Per altro il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, articolo 36, comma secondo, stabilisce: «Ai fini dell'applicazione ... omissis .... del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, un area e da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo». Il Collegio ritiene, d'ufficio, che sia rilevante e non manifestamente infondato il dubbio di costituzionalita' sull'articolo 11-quaterdecies, comma 16 e sull'articolo 36, comma secondo appena citati, per violazione dell'articolo 53 e dell'articolo 3 della Costituzione nonche' dei principi di ragionevolezza, razionalita' e non contraddizione. Sulla rilevanza La Corte di cassazione, con sentenza n. 21573 del 15 novembre 2004 ha ritenuto che in tema d'imposta comunale sugli immobili (ICI), l'art. 2, comma primo, lett. b), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 - secondo il quale «per area fabbricabile si intende l'area utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi ovvero in base alle possibilita' effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti dell'indennita' di espropriazione per pubblica utilita' - deve essere interpretato, anche in conformita' al principio di capacita' contributiva di cui all'art. 53 della Costituzione, nel senso che vanno assoggettate ad imposta le aree che sono immediatamente utilizzabili a scopo edificatorio, per le quali, cioe', sussiste la possibilita' legale ed effettiva di rilascio della concessione edilizia al momento dell'imposizione fiscale. Ne consegue che sono escluse dall'imposta le aree che, pur essendo comprese nel piano regolatore generale, non sono effettivamente suscettibili di edificazione a causa della mancata approvazione dei necessari piani attuativi (particolareggiati o di lottizzazione, ovvero dell'esistenza di misure di salvaguardia adottate dal comune». La Cassazione, con la detta sentenza, e' intervenuta in una vexata quaestio, che ha visto alternarsi pronunce contrastanti sia in sede di legittimita' sia di merito tributario. L'articolo 11-quaterdecies, comma 16 citato, dal canto suo, e' intervenuto su tale questione con norma di interpretazione autentica, chiarendo che ai fini ICI l'edificabilita' deve essere ritenuta solo sulla base delle disposizioni del piano regolatore generale, anche in assenza degli strumenti urbanistici attuativi. La questione prospettata nel giudizio in esame concerne, per l'appunto, il criterio di valutazione di alcuni terreni agricoli, siti in una zona del comune di Ladispoli, inseriti in zona edificabile secondo il piano regolatore generale, ma per la quale non sono stati adottati strumenti attuativi. Il valore determinato dal comune considera la cosi' detta edificabilita' di fatto, mentre il ricorrente oppone l'inedificabilita' degli stessi, proprio per l'assenza degli strumenti che rende impossibile il rilascio di un permesso di costruzione. La valenza retroattiva della norma d'interpretazione autentica contenuta nell'articolo 11-quaterdecies, comma 16 citato la rende applicabile anche ai periodi d'imposta pendenti, per cui essa, di fatto, interviene legittimando una prassi amministrativa che, viceversa, sarebbe da considerare illegittima, secondo questo orientamento della suprema Corte da cui la Commissione non ha motivi di discostarsi, per altro con cio' confermando la sua consolidata giurisprudenza. E' quindi evidente che l'applicazione del citato articolo 11-quaterdecies e' idonea a definire la questione. Analogamente l'articolo 36, comma secondo del d.l. n. 223 del 2006 dispone con norma di valenza retroattiva generale. Esso, infatti, applica il principio che in questa sede si esamina a tutti gli effetti tributari, richiamando espressamente le norme impositive di tutte le imposte. Ove si intendesse attribuire a tale norma un significato interpretativo, essa sarebbe idonea, di per se', a definire il giudizio cosi' come gia' osservati in relazione all'articolo 11-quaterdecies, comma 16. Che a norma abbia natura interpretativa non e' considerazione priva di fondamento. Infatti, nell'interpretazione della volonta' del Legislatore, non si puo' obliterare il disposto dei commi quarto, sesto, ottavo, undecimo, quattordicesimo, quindicesimo diciassettesimo, diciannovesimo, ventunesimo, ventiseiesimo, ventottesimo del medesimo articolo, i quali, riferendosi alle disposizioni dei commi immediatamente precedenti, (anche essa intesi a recuperare base imponibile in vari settori tributari) ne dispongono la applicabilita' solo dal periodo d'imposta in corso alla data di entrata in vigore del decreto legge stesso. Cio' sembra sufficientemente indicativo che le norme dei commi primo e secondo, per le quali il Legislatore non ha previsto analoga cautela, debbano essere lette, invece, come norme interpretative, quindi con effetto retroattivo. In tal caso l'articolo 11-quaterdecies, comma 16 piu' volte citato, dovrebbe ritenersi abrogato ai sensi dell'articolo 15, ultima parte, delle disposizioni preliminari al codice civile, ma in ogni caso sostituito con norma di identico tenore, nei cui confronti si appunta il medesimo dubbio di costituzionalita' sollevato da questo Collegio nei confronti del piu' volte citato articolo 11-quaterdecies. Come insegna la Corte costituzionale, tuttavia, la rilevanza deve essere giudicata anche in funzione dell'inesistenza di una possibile diversa interpretazione, conforme a Costituzione, della norma denunciata ed in funzione di una diversa soluzione della controversia che prescinda dall'applicazione della norma sospetta d'incostituzionalita'. Nel caso di specie ne' l'una, ne' l'altra soluzione sono possibili. In primo luogo nessun'altra interpretazione e' possibile del citato articolo 11-quaterdecies, comma 16, atteso che essa e' chiara nella sua portata letterale e nella ratio legis seguita. Sotto il profilo letterale, l'utilizzazione dell'espressione «si interpreta» non puo' dare adito a dubbi, ne' si puo' ritenere che la norma abbia portata innovativa. Essa, infatti, s'inserisce su situazioni fiscali identiche nel corso del tempo, ed anzi addirittura incide sui medesimi oggetti d'imposta (gli immobili) nel corso degli anni, per cui sarebbe illogico ritenere che essa abbia una portata non interpretativa-retroattiva, dato che costituisce una qualificazione giuridica del medesimo bene a legislazione invariata. Per altro la ratio legis e' chiara. Non solo la norma intende evitare i dubbi interpretativi i quali, come si e' detto, avevano dato luogo a pronunce difformi tra diverse sezioni della stessa Corte, di cassazione e tra questa e la giustizia tributaria, ma anche stabilire una piu' alta base imponibile ed una certezza nei rapporti tributari. La finalita' della maggiore imposizione e' evidente dal contesto del decreto-legge e delle altre norme dello stesso, mentre l'obiettivo della certezza giuridica e' insito nello stesso strumento dell'interpretazione autentica. In secondo luogo non e' possibile risolvere la questione odierna senza la diretta applicazione del citato articolo 11-quaterdecies. Tutti i motivi d'appello s'incentrano sull'illegittimita' dell'interpretazione seguita dal comune circa l'edificabilita' di fatto, che ha condotto all'elaborazione di una stima del valore con riferimento al comune commercio, invece che alle rendite catastali formali, relative appunto alla natura agricola degli stessi. Pertanto tutti i motivi d'appello sono destinati ad essere respinti dinanzi ad un'interpretazione autentica che, in ogni caso, assume la deliberazione del piano regolatore generale, non contestata dal ricorrente, a fattore determinante per la qualificazione di terreno edificabile, a prescindere dall'effettiva possibilita' giuridica dell'edificazione. Per altro identica linea di ragionamento deve essere seguita nella interpretazione dell'articolo 36, comma secondo, del d.l. n. 223 del 2006. Sul presupposto che esso sia norma di interpretazione autentica, e quindi retroattiva, esso determinerebbe l'abrogazione implicita dell'articolo 11-quaterdecies, ma ad esso si sostituirebbe con disposizione di identico significato, e dunque anche essa in grado di definire la controversia. Considerata la rilevanza della questione, occorre ora affrontare l'ulteriore profilo. Sulla non manifesta infondatezza L'imposta comunale sugli immobili si basa sul presupposto del possesso di un immobile. La sua base imponibile e' costituita dalla rendita catastale, aumentata secondo coefficienti predeterminati, ovvero dal valore venale in comune commercio, per le aree fabbricabili. Ne consegue che essa, nonostante la diversa qualificazione che ne da' parte della dottrina e la giurisprudenza di legittimita', e' da considerarsi un'imposta patrimoniale annuale, poiche' colpisce un cespite patrimoniale indipendentemente dal reddito prodotto. Il riferimento alla rendita catastale, che sembra adombrare un'imposizione sul reddito, costituisce solo un parametro di commisurazione, tanto e' vero che, nell'ipotesi di area fabbricabile, lo stesso legislatore assume a base imponibile il valore venale in comune commercio, il quale, come e' evidente, si realizza solo nell'utilizzazione patrimoniale del bene (edificazione o vendita). In questa evenienza il legislatore intende colpire, appunto, non il reddito, ma la stessa proprieta', o disponibilita', del bene in vista di una sua utilizzazione piu' proficua di quanto non possa essere il mero possesso, e dunque il suo valore intrinseco, non la sua redditivita'. In quest'ottica, tuttavia, si deve dubitare della conformita' delle norme di cui all'articolo 11-quaterdecies e all'articolo 36, comma secondo citati, con l'articolo 53 della Costituzione. La capacita' contributiva invocata dal citato articolo a parametro delle norme fiscali, deve essere verificata nei suoi presupposti di fatto e di diritto. Costituisce un libera scelta del Legislatore, come tale appartenente alla sua discrezionalita' insindacabile nel merito, se sottoporre un immobile ad un'imposta patrimoniale e se commisurare questa al suo valore venale in comune commercio, anziche' a parametri piu' certi quali la rendita catastale, sia pure aumentata di un coefficiente apposito. Tuttavia la discrezionalita' deve anche essere esercitata nel rispetto dei requisiti e principi di logica, congruenza e non contraddizione. Orbene, equiparare, sotto il profilo dell'edificabilita', un terreno sito in zona munita di strumento attuativo ad uno sito in zona solo ritenuta edificabile dal piano regolatore generale, significa, appunto, violare i principi di logica e non contraddizione, oltre che di uguaglianza. Un terreno edificabile non puo' essere definito altrimenti che come quel terreno sul quale e' possibile, legittimamente, costruire un immobile secondo i parametri di volume e superficie, distanze etc. stabiliti dallo strumento attuativo. A ben vedere, anzi, edificabile dovrebbe essere considerato solo il terreno per il quale sia stato rilasciato un permesso di costruire determinato. Solo in tal caso, infatti, e' stato rimosso l'impedimento allo jus aeducandi e sono state definite le caratteristiche dell'immobile da costruire, con cio' dando piena concretezza all'edificabilita', e quindi al valore del terreno stesso. E', infatti, noto come, secondo la scienza dell'estimo, il valore di un terreno edificabile e' correlato all'effettiva cubatura che si possa realizzare, ma questa non deriva solo dalle astratte previsioni del PRG, dello strumento attuativo o dei regolamenti edilizi, ma anche dalla prassi concreta seguita dall'Amministrazione comunale, dall'interpretazione della giurisprudenza, ed, in ultima analisi, dall'effettiva giustezza dell'opera realizzata. E' ben noto, nell'esperienza del giudice amministrativo, che di la' dalle norme astratte, l'applicazione concreta di concetti complessi quali la confrontanza, le distanze, l'orientamento, l'incidenza dei balconi, il rispetto delle norme di sicurezza e cosi' via, condizioni pesantemente l'edificabilita' teorica del terreno, tanto che il suo valore puo' ben aumentare o diminuire anche in funzione delle prassi seguite dal comune o dalla giurisprudenza del Tribunale amministrativo regionale competente e del Cosiglio di Stato. Edificabilita' e' concetto che indica la potenzialita' rispetto all'atto, cioe' l'edificazione. Ma la potenzialita', per essere tale, secondo la logica, deve essere legata all'atto da un legame di consequenzialita' diretta per cui dalla potenzialita' all'atto il passaggio avviene solo per l'azione di un fattore di collegamento. Quando tra la presunta potenzialita' ed il suo atto s'inseriscono ulteriori passaggi, ciascuno dei quali caratterizzti dalle due condizione di potenzialita' ed atto, e' logicamente evidente che tra la prima potenzialita' e l'atto finale non sussiste alcuna correlazione. Tale e' la situazione tra l'edificabilita' derivante dal solo PRG e l'edificazione. Infatti, se questo tipo di edificabilita' rappresentasse lo stato di potenza della edificazione, sarebbe possibile, giuridicamente, che il proprietario legittimamente costruisse l'immobile. Poiche', invece, tra l'edificabilita' e l'edificazione si inserisce necessariamente il permesso di costruire, e questo e' rilasciato solo sul presupposto della esistenza dello strumento attuativo, ne consegue che l'edificabilita' in questione non e' potenza della edificazione, ma del rilascio del permesso di costruire, e quindi non vi e' nessuna conseguenza diretta sul piano patrimoniale. La graduazione di una tale consequenzialita' sarebbe possibile nella discrezionalita' del Legislatore, ma la norma denunciata non ha operato alcuna graduazione, equiparando puramente e semplicemente due situazioni tra loro diverse e non correlate. E' quindi contraddittorio ed illogico ritenere, per interpretazione autentica, che l'edificabilita' si realizzi solo sulla base della previsione del P.R.G., cio' per due ordini di motivi. In primo luogo perche', ove il comune abbia adottato misure di salvaguardia, esse, per un periodo di almeno quindici anni, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, sono in grado di impedire il rilascio del permesso di costruire. In secondo luogo perche', anche scaduta la validita' delle norme di salvaguardia e nell'impossibilita' di reiterarle, l'edificabilita' e' legata ai ristretti limiti del P.R.G., solitamente identici a quelli in vigore con gli strumenti attuativi per le zone agricole, il che riporta il valore del terreno appunto a quella qualificazione agricola che si sarebbe voluta negare. Si puo' a ragion veduta ritenere di trovare dinanzi ad una norma che intende sovrapporre la realta' giuridica alla realta' di fatto, negandola. La giurisprudenza della Corte di cassazione difforme da quella sopra citata, come ad esempio la n. 16751 del 24 agosto 2004, ritiene, consapevolmente, che il terreno edificabile anche solo, in virtu' del P.R.G. abbia un valore, nell'esperienza quotidiana e comune, comunque maggiore del medesimo terreno inserito in zona agricola, anche se ammette, con consequenzialita' logica apprezzabile, che «l'assenza di un piano attuativo dello strumento generale attenua la potenzialita' educatoria, influenzandone la base imponibile, ai sensi dell'art. 5, n. 5, d.lgs. n. 504 del 1992». A maggior ragione questa potenzialita' di fatto, sotto il profilo logico, non puo' essere la medesima tra un terreno assistito dallo strumento attuativo e quello solo inserito in zona edificabile del P.R.G., per i motivi sopra detti e per lo jato temporale sussistente tra l'edificabilita' di fatto e quella giuridica dovuto all'intermediazione di almeno altre due coppie potenzialita-atto. Sembra quindi che la norma di interpretazione autentica denunciata violi non solo l'articolo 53 della costituzione, poiche' prescinde dalla capacita' contributiva reale che e' necessariamente mediata dalle norme imperative relative allo jus aedificandi, ma anche l'articolo 3 della Costituzione, poiche' sottopone al medesimo trattamento giuridico situazioni oggettivamente diverse, con l'aggravante che la diversita' delle situazioni non deriva neppure da un dato di fatto, ma da una volonta' giuridica dello stesso ordinamento. Si vuol dire che nel momento stesso in cui si e' separato lo jus aedificandi dal diritto di proprieta', sottoponendolo ad una disciplina pubblicistica, lo si e' costituito in bene giuridico separato dalla proprieta' ed interamente sottoposto a normativa d'imperio. Di essa l'ordinamento giuridico deve tenere conto, traendo le conseguenze della separazione voluta in apicibus. Pertanto, se lo stesso ordinamento disciplina in maniera difforme i terreni in funzione dell'adozione o meno di uno strumento amministrativo, non puo' poi obliterarne le conseguenze sul piano patrimoniale equiparando, ad altri fini, quelle medesime situazioni giuridiche che esso ha, consapevolmente, separato. In altri termini e' proprio di un ordinamento irrazionale, contraddittorio, e percio' ingiusto, adottare due diverse qualificazioni del medesimo fatto, a fini diversi, perche' in entrambi i casi esse ridondino a svantaggio del cittadino. Si tratta di un atteggiamento sicuramente vessatorio, proprio di regimi ben diversi dalla democrazia, che collide sotto il profilo del principio di uguaglianza, oltre che di razionalita', con la nostra Costituzione. In conclusione, ritenendo d'ufficio che la questione di legittimita' costituzionale per, violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione nonche' dei principi di ragionevolezza, razionalita', non contraddizione da parte dell'articolo 11-quaterdecies, comma 16 del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, e dell'articolo 36, comma secondo del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, sia rilevante e non manifestamente infondata, la Commissione sospende il giudizio, ai sensi dell'articolo 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1949, n. 1, e dell'articolo 23 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 87 e, riservata ogni altra decisione in rito e nel merito, invia gli atti alla Corte costituzionale.