LA CORTE DI APPELLO Nel procedimento penale n. 929/2007 r.g. appello (stralcio dal n. 453/2006) a carico di: Barnaba Vincenzo, Buttiglione Antonio, Donzella Giuseppe, Fanelli Antonio, L'Abbate Francesco, Modeo Antonio, Ninivaggi Giovanni, Pellegrino Vito, Tarquinio Giovanni, imputati, 1) il Barnaba Vincenzo: A) artt. 110-317 c.p.; B) artt. 81 cpv. -110-317-61 n. 7 c.p.; T) artt. 81 cpv.-110-317 c.p.; O1) artt. 81 cpv.-110-317-61 n. 7 c.p.; 2) il Buttiglione Antonio: S1) artt. 81 cpv.-317-61 n. 7 c.p.; 3) il Donzella Giuseppe, il Fanelli Antonio, e il L'Abbate Francesco: D) artt. 81 cpv.-110-314 c.p.; 4) il Donzella Giuseppe e il Fanelli Antonio: F) artt. 81 cpv.-110-356-61 n. 9 c.p.; G) artt. 81 cpv.-1l0-640 cpv. n. 1-61 n. 7c.p.; H) artt. 81 cpv.-110-356-61 n. 9 c.p.; I) artt. 81 cpv.-110-640 cpv. n. 1-61 n. 7 c.p.; J) artt. 81 cpv.-110-479-61 n. 2 c.p.; 5) il Tarquinio Giovanni: L) art. 110-314-61 n. 7 c.p.; 6) il Ninivaggi Giovanni, il Tarquinio Giovanni, e il Fanelli Antonio: M) artt. 81 cpv.-110-356-61 n. 7 c.p.; N) artt. 81 cpv.-640 cpv.-61 n. 7 c.p. (assorbito in M e qualificato il fatto ai sensi degli artt. 81 cpv.-110-314-61 n. 7); 7) il Ninivaggi Giovanni e il Tarquimo Giovanni: O) artt. 81 cpv.-110-479-61 n. 2 c.p.; 8) il Tarquinio Giovanni: G1) artt. 81 cpv.-110-479 c.p.; 9) il Pellegrino Vito: T1) artt. 110-648 c.p. Sentite le parti, all'odierna udienza del 29 giugno 2007, all'esito della Camera di consiglio, ha pronunciato, e pubblicato mediante lettura in udienza, la seguente ordinanza. Rilevato in fatto Vista l'eccezione sollevata dai difensori degli appellanti all'udienza dell'8 giugno 2007 con la quale e' stata eccepita la incostituzionalita' dell'art. 10, terzo comma della legge 5 dicembre 2005 n. 251 (recante «modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione»), nella parte in cui esclude l'applicabilita' della nuova disciplina, introdotta in materia dei termini massimi d1 prescrizione del reato ad opera dell'art. 6 della medesima legge, «ai processi gia' pendenti in grado di appello... alla data di entrata in vigore della presente legge», per l'asserito contrasto con l'art. 3 della Costituzione; Rilevato che con la sentenza pronunciata all'udienza del 16 maggio 2007 da questa Corte e' stata dichiarata la nullita' della sentenza del Tribunale di Bari pronunciata in data nei confronti di Bellomo Michele e Bellomo Giuseppe Concezio, e disposta la restituzione degli atti al giudice di primo grado per la rinnovazione del giudizio dal momento in cui si e' verificata la nullita' assoluta lamentata dai predetti appellanti e ritenuta sussistente da questa Corte, ed e' stato disposto lo stralcio degli atti relativamente alle posizioni degli altri appellanti per i quali il giudizio prosegue in questo grado; Rilevato che la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 10, terzo comma, della legge n. 251/2005, sollevata concordemente, in via diretta o per successiva adesione, da tutti i difensori, non appare egualmente rilevante per tutti gli appellanti per i quali prosegue il presente giudizio, essendo per alcuni, stante la vetusta' del processo, gia' maturati sulla base della disciplina precedente la novella impugnata i termini massimi di prescrizione, e non potendo altri aspirare ad una decisione di merito, per inammissibilita' congenita dell'appello derivante da tardivita' del deposito (per il Donzella) ovvero per sopravvenuta estinzione del reato per morte dell'imputato per il Fanelli; Rilevato che la proposta eccezione di costituzionalita' appare pero' certamente rilevante per gli imputati Barnaba Vincenzo, Bottiglione Antonio, e Pellegrino Vito, i quali hanno proposto rispettivamente appello: 1) il Barnaba Vincenzo: avverso la condanna per i reati di concussione, p. e p. dagli artt. 110, 317, 81 cpv. e 61 n. 7, commessi, nella sua qualita' di pubblico dipendente, in concorso con altri pubblici funzionari, in danno di Salamina Giovanni, amministratore unico della Cemir S.r.l., nel periodo tra il 1988 e il 1989 e sino al 25 dicembre 1990 (capi A e B dell'imputazione); per il reato di concussione p. e p. dagli artt. 81 cpv., 110 e 317 c.p., commesso nella suddetta qualita' e in concorso con altri, in danno di Leone Filippo, presidente della cooperativa Giovanni XXIII di Gravina di Puglia, sino al 27 novembre 1984 (capo T dell'imputazione); e per il reato di concussione p. e p. dagli artt. 81 cpv., 110, 317 e 61 n. 7 c.p., commesso in danno degli esponenti societari della Edilmec S.r.l. dal marzo 1985 all'aprile 1988 e dall'ottobre 1991 sino al febbraio 1992; 2) il Buttiglione Antonio: avverso la condanna per il reato di concussione, p. e p. dagli artt. 81 cpv., 317 e 61 n. 7 c.p. (capo S1 dell'imputazione), commesso abusando della qualita' di presidente dell'E.R.S.A.P. in danno di Monteleone Michele, amministratore e consigliere delegato della S.p.A. A.I.A., dall'agosto 1990 sino al settembre 1991; 3) il Pellegrino Vito: avverso la condanna per il reato di ricettazione di somme di danaro di illecita provenienza, p. e p. dagli artt. 110 e 648 c.p. (capo T1 dell'imputazione), commesso in concorso con altri nel periodo immediatamente antecedente la data del 27 gennaio 1993; Rilevato infatti che i reati ascritti al Barnaba e al Buttiglione, in ragione dell'epoca della loro commissione, risulterebbero gia' prescritti alla dta odierna, con conseguente obbligo di questa Corte di pronunciare il loro proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p., per estinzione del reato, qualora fossero applicabili i nuovi termini di prescrizione, fissati nel massimo in quindici anni dall'art. 157 c.p. nel testo sostituito dall'art. 6 della legge n. 251/2005, in luogo del termine massimo di anni ventidue e mesi sei previsto dalla disciplina precedente, se non vi ostasse il disposto dell'art. 10, terzo comma, della stessa legge, per il quale spiegherebbe ulteriore efficacia la normativa abrogata, in ragione dello stato del presente processo all'atto dell'entrata in vigore della modifica dell'art. 157 c.p.; Rilevato altresi' che il reato ascritto al Pellegrino, in ragione dell'epoca della sua commissione (27 gennaio 1993), risulterebbe gia' prescritto alla data odierna, con conseguente obbligo di questa Corte di pronunciare anche per lui il proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p., qualora fosse applicabile il nuovo termine di prescrizione, fissato nel massimo in dieci anni dall'art. 157 c.p. nel testo sostituito dall'art. 6 della legge del 251/2005, in luogo del precedente termine massimo di anni quindici, se non vi ostasse il disposto del gia' menzionato art. 10, terzo comma, della stessa legge; Rilevato che ad avviso degli appellanti la limitazione dell'applicazione della nuova disciplina della prescrizione, statuita dal legislatore del 2005, sulla base della fase processuale in cui si trovava il giudizio penale all'epoca di entrata in vigore della legge, crea una irragionevole discriminazione, in loro danno e rispetto ad altri coimputati, ovvero altri imputati di analoghi fatti, pur se risalenti alla stessa epoca, che per scelta del rito o per altri eventi processuali si trovino in una fase ancora anteriore rispetto a quella raggiunta dall'odierno processo, e che tale discriminazione si traduce in una violazione del principio di eguaglianza dell'applicazione della legge penale, sancito dall'art. 3 Cost.; Rilevato che su tali presupposti gli appellanti hanno chiesto che questa Corte, apprezzata la non manifesta infondatezza della questione, sollevi l'eccezione di incostituzionalita' dell'art. 10, terzo comma, della legge n. 5 dicembre 2005 n. 251 e rimetta gli atti alla Corte costituzionale; Ritenuto che l'acclarata rilevanza della questione nel presente giudizio per i predetti imputati, la cui soluzione condiziona l'esito del presente giudizio; autorizza questa Corte a compiere l'ulteriore valutazione se la questione possa ritenersi non manifestamente infondata; Ritenuto in diritto Osserva la corte in diritto che la questione di legittimita' costituzionale proposta non appare manifestamente infondata per i seguenti motivi. La legge n. 251/2005, nel modificare la durata dei termini di prescrizione, sostituendo il testo dell'art. 157 c.p., ha introdotto nuovi termini che per molte ipotesi di reato, incluse quelle contestate agli odierni imputati risultano piu' brevi di quelli precedentemente previsti dal codice penale, e la modifica legislativa e' stata operata allo scopo, voluto e dichiarato dagli organi legislativi, di ridurre in linea generale (e salvo specifiche eccezioni per reati di particolare gravita) il periodo di tempo durante il quale l'imputato puo' restare assoggettato alle possibili conseguenze dell'intervento penale, con l'intento di incidere anche per tal via sulla durata complessiva dei processi. Dunque la modifica normativa del regime della prescrizione non e' stata motivata da finalita' contingenti, ne' appare mirata a correggere il regime giuridico di singole ipotesi di reato (come e' avvenuto per il reato di usura con l'art. 11 della legge 7 marzo 1996 n. 108, che ha introdotto, proprio in tema di prescrizione, il nuovo art. 644-ter c.p.), ma rappresenta il frutto di una generale revisione, per tutti i reati, dei termini di prescrizione degli stessi, ridisegnati sulla base di parametri di calcolo in parte diversi, ed in larga parte piu' brevi di quelli precedentemente vigenti nel nostro ordinamento penale. L'art. 10 della stessa legge ha introdotto pero', nel suo terzo comma, un discrimine in ordine alla operativita' della modifica legislativa, stabilendo originariamente che «se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano piu' brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge [e cioe' alla data dell'8 dicembre 2005], ad esclusione dei processi gia' pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonche' dei processi gia' pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione»: discrimine che implica una deroga al principio, affermato sotto piu' profili dall'art. 2 c.p., della costante prevalenza, in caso di modifiche normative, delle disposizioni piu' favorevoli al reo. La suddetta norma e' stata assoggettata ad un primo vaglio di legittimita' costituzionale, seppur limitato alla sua differenziata operativita' nel giudizio di primo grado, all'esito del quale la Corte costituzionale, con la sentenza n. 393 del 2006, ne ha dichiarato la illegittimita', per contrasto con l'art. 3 Cost., con riferimento alla disparita' di disciplina tra i reati per i quali il giudizio di primo grado non fosse ancora o fosse appena iniziato, ed i reati il cui giudizio avesse invece superato la soglia della declaratoria di apertura del dibattimento, espungendo conseguentemente dal testo dell'art. 10, terzo comma, l'inciso «dei processi gia' pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonche». Attualmente dunque il testo vigente dell'art. 10, terzo comma, della legge n. 251/2005 risulta essere il seguente: «se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano piu' brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge [e cioe' alla data dell'8 dicembre 2005], ad esclusione dei processi gia' pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione». Permane ancora, quindi, nel testo vigente della norma citata un discrimine di natura temporale, seppur piu' ristretto a seguito del menzionato intervento della Corte costituzionale, in ordine alla applicabilita' della nuova disciplina sostanziale della estinzione del reato per prescrizione, restando i nuovi termini piu' brevi inapplicabili a quei reati per i quali il relativo giudizio penale fosse, alla data dell'8 dicembre 2005, gia' entrato in una fase di impugnazione, di merito o di legittimita'. Tale discrimine comporta l'ultrattivita' della normativa precedente sui termini di prescrizione, in aperta deroga al principio generale fissato dall'art. 2, quarto comma, c.p. secondo cui «se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono piu' favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile». Ad avviso di questa Corte anche tale discrimine, concernente, per quanto e' rilevante nel presente processo, l'avvenuto inizio del giudizio d'appello alla data dell'8 dicembre 2005, appare di dubbia ragionevolezza, e conseguentemente non risulta manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale per contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Va ricordato che la Corte costituzionale nella sentenza n. 393 del 2006 ha sottolineato: che il principio della retroattivita' della legge penale piu' favorevole risulta affermato non solo dall'art. 2 del codice penale italiano, ma anche sancito da fonti normative internazionali e comunitarie (in particolare, dall'art. 15, primo comma del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977 n. 881; dall'art. 6, secondo comma del Trattato sull'Unione europea, nel testo risultante dal Trattato sottoscritto ad Amsterdam il 2 ottobre 1997 e ratificato con legge 16 giugno 1998 n. 209); che la natura anche sovranazionale del principio di retroattivita' della norma piu' favorevole non puo' non rilevare nella valutazione di costituzionalita' di una legge ordinaria che a tale principio deroghi, anche perche' l'ordinamento italiano e' vincolato, in virtu' delle menzionate ratifiche, ai principi affermati a livello internazionale; che per il rango che il suddetto principio di retroattivita' della norma piu' favorevole ha acquisito nell'ordinamento nazionale e sopranazionale, un suo sacrificio ad opera del legislatore nazionale puo' avvenire solo in favore di interessi di analogo rilievo, e dunque una «deroga sia non solo coerente con la funzione che l'ordinamento oggettivamente assegna all'istituto, ma anche diretta a tutelare interessi di non minore rilevanza»; che quindi lo scrutinio di costituzionalita' ex art. 3 Cost. sulla scelta di derogare alla retroattivita' di una norma penale piu' favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole». Soprattutto la citata decisione della Corte costituzionale ha riaffermato esplicitamente la natura sostanziale dell'istituto della prescrizione penale, come gia' ritenuto ormai costantemente, sia sulla base dell'evidenza del dettato normativo dell'art. 157 c.p. che dall'analisi della sua disciplina generale, dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale (cfr. la sentenza n. 275 del 1990 della Corte cost., richiamata nella sent. n. 393/2006) e di legittimita' (cfr. Cass., sez. I, 8 maggio 1998 n. 7442; Cass. 12 dicembre 1977, in Giust. Pen., 1981, II, 461; Cass. sez. IV, 16 luglio 1984 n. 6636). Con l'istituto della prescrizione il decorso del tempo non incide sull'azione penale (com'era invece previsto dal codice penale italiano del 1889, che includeva appunto la prescrizione tra le cause di estinzione dell'azione penale, mostrando di considerarla istituto afferente al piano processuale, probabilmente sulla base della supposizione che la sua applicazione prescindesse da un accertamento sostanziale della responsabilita), bensi' estingue il reato (art. 157 c.p.): cioe', prima ancora di eliminare la punizione del reato, estingue la violazione stessa della legge penale, togliendo ogni rilevanza penale al fatto storico, che permane nella sua storicita' eventualmente ad altri fini e per altri effetti giuridici non penali. Con la prescrizione lo Stato rinuncia ad esercitare la potesta' punitiva (come sottolinea anche la cit. sent. Corte cost. n. 393/2006) cancellando la rilevanza penale del fatto penale. Le ragioni profonde della estinzione del reato ratione temporis sono generalmente e concordemente indicate nel mutamento che il decorso del tempo comporta nella vita e nella personalita' degli individui, e dunque nella inattualita' di una sanzione penale che intervenga a distanza di un notevole lasso di tempo (variabile ovviamente in funzione della natura del reato) dal fatto, incidendo su situazioni soggettive personali e patrimoniali che non sono piu' quelle del momento del commesso reato. L'eccessivo iato temporale tra fatto punibile e inflizione della punizione priva la sanzione penale, cosi' tardivamente applicata, sia della sua funzione special-preventiva (nei limiti entro cui e' ravvisabile tale finalita) e sia della sua funzione rieducativa e recuperativa. Dunque l'istituto della prescrizione costituisce un legittimo strumento di adeguamento del diritto al fatto, di adattamento dell'intervento normativo alla situazione di fatto nel frattempo evolutasi: si puo' essere in disaccordo con la durata dei termini fissata dal legislatore (che peraltro non sono stati tutti diminuiti, ma per diversi reati di elevata gravita' sono stati aumentati), ma cio' non toglie che tali termini costituiscono l'espressione di una valutazione sostanziale del perdurare di una illiceita' sociale e di una meritevolezza della pena, che il legislatore compie nell'esercizio del suo potere sovrano delegatogli dalla collettivita', e trasfonde in legge, e in quanto tali vanno osservati finche' non siano modificati dallo stesso potere legislativo. Da quanto esposto sembra potersi evincere con sufficiente chiarezza: che il significato giuridico della prescrizione e' saldamente ancorato alla valenza penale del fatto ed alla funzione della sanzione penale; che la astratta fissazione dei suoi termini di durata e' collegata alla natura e gravita' del reato, e cioe' alla rilevanza sociale del bene giuridico protetto dalla norma penale violata (rilevanza di cui rappresenta un indice rivelatore anche il c.d. allarme sociale cui sovente ci si richiama per giustificare la durata piu' o meno lunga dei termini); e che dunque anche nella ratio oltreche' nella lettera normativa dell'art. 157 c.p. l'istituto appartiene al diritto penale sostanziale. Se cosi' e', (e, come si e' accennato, proprio la Corte costituzionale lo ha riaffermato), allora l'istituto della prescrizione non puo' non essere sottoposto al medesimi principi generali che regolano tutti gli altri istituti del diritto penale sostanziale in occasione delle modifiche normative, ivi compreso il principio dell'applicazione della disciplina piu' favorevole, sancito dall'art. 2 c.p. (come peraltro pacificamente ritenuto dalla giurispidenza penale: cfr. ad es. Cass. sez. IV, sent. n. 6636 del 16 luglio 1984, cc. 19 dicembre 1984, rv 165324). Conseguentemente non puo' non apparire incongruo a questo giudice di appello che il mutamento generalizzato della rilevanza penale nel tempo dei fatti di reato, voluto dal legislatore con un disegno unitario di rivisitazione generale dei termini prescrizionali per tutti i reati, sia poi in concreto differenziatamente applicato in funzione della particolare fase processuale in cui trovasi il processo penale al momento della introduzione nell'ordinamento di tali nuove valutazioni sostanziali; e finisca in tal modo per condurre a differenti discipline dell'estinzione del reato pur per reati identici e commessi nella stessa epoca. La scelta del legislatore del 2005 appare a maggior ragione incongrua ove si pensi: che il grado di avanzamento del processo penale non esprime di per se' alcun valore di natura sostanziale, ma rappresenta unicamente un mero dato temporale, legato a fattori molteplici ed estremamente diversificati, derivanti da attivita' e/o inattivita' di molti soggetti, e spesso anche scaturente da pura casualita'; che per nessun altro istituto di diritto penale sostanziale comportante l'estinzione del reato l'applicazione e' stata condizionata alla fase processuale (fatti salvi ovviamente i limiti del giudicato penale; peraltro oggi largamente attenuati dalle molteplici modificazioni del trattamento penale anche sanzionatorio possibili nella sede esecutiva); che il mero dato cronologico di avanzamento del processo penale e' condizione per l'esercizio, l'insorgenza o la perdita di diritti e facolta' di natura processuale (caratteristica questa rinvenibile in tutte le fasi procedimentali, in ogni settore dell'ordinarnento, per intuibili esigenze di celerita' delle decisioni e di salvaguardia della certezza delle situazioni soggettive), ma non appare costituire di per se' titolo per la esclusione di istituti di diritto sostanziale; che peraltro la differenziazione applicativa introdotta dal menzionato art. 10, terzo comma, alla luce della funzione della prescrizione, mantiene in vita, deroga all'art. 2 c.p., la punibilita' del reato proprio per quei fatti che quantomeno sulla base del momento processuale considerato sono piu' remoti nel tempo, e dunque piu' affievolite le esigenze di tutela penale. Infine, non sembra poter giustificare il discrimine temporale introdotto dalla legge del 2005, al punto da ritenerne la ragionevolezza, il rilievo che il passaggio formale di grado del processo incide interruttivamente sul corso della prescrizione (in tal senso si e' espressa Cass. sez. VI, 27 novembre 2006 n. 42189, ritenendo infondata la questione di legittimita' dell' art. 10, terzo comma cit. per la fase del giudizio di cassazione). L'effetto interruttivo, che e' proprio di diverse attivita' processuali in tutti i gradi di giudizio comunque non incide sulla durata del termine massimo di prescrizione, che non muta nel suo limite assoluto, e che, rappresentando l'espressione di una valutazione astratta di gravita' del reato e della correlata scelta di mantenerne gli effetti, non puo' che operare egualmente per tutti i fatti oggetto di accertamento penale, e non puo' essere differenziata in base al concreto avanzamento del singolo processo. Il limite generale di punibilita' dei reati nel tempo e' fissato astrattamente per tutti e va applicato uniformemente a tutti gli individui cui si rivolge la legge penale italiana, quali che siano i tempi tecnici concreti di ciascun processo. L'unica indiscutibile diversita' risiede nella diversificazione della durata del termine massimo di prescrizione non in base all'andamento del processo (che non sembra poter rivestire un senso in presenza di un principio di eguaglianza del trattamento penale) bensi', come si e' gia' accennato, in ragione della natura del reato, e dunque in ragione di esigenze e valutazioni sostanziali (di politica criminale, di tutela sociale, di rilevanza del bene protetto, di allarme sociale che il legislatore attribuisce a determinati fatti piu' che ad altri). Se dunque appare indiscutibile che l'istituto della prescrizione e' di diritto sostanziale, e afferisce alla disciplina del reato ed alla voluntas puniendi dello Stato, e non ha natura processuale non incidendo sull'andamento processuale, appare decisamente incoerente rispetto al principi generali dell'illecito penale che la novellata disciplina trovi applicazioni differenziate unicamente in ragione della fase processuale in atto al momento della sua introduzione, e sembra fondato l'assunto degli odierni appellanti secondo i quali tale discrimine leda il principio di eguaglianza del trattamento penale, desumibile dall'art. 3 Cost. Sulla base delle considerazioni esposte, ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione, va sospeso il presente giudizio e vanno trasmessi gli atti alla Corte costituzionale affinche' voglia, ove ne ravvisi i presupposti, dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 10, terzo comma, nel testo attualmente vigente, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (recante «modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione»), nella parte in cui dispone che i termini di prescrizione piu' brevi risultanti dalle nuove disposizioni introdotte dall'art. 6 della stessa legge n. 25l/2005 non si applicano ai reati i cui processi erano gia' pendenti in grado di appello alla data di entrata in vigore della suddetta legge, e quindi con espunsione dal suo testo dell'inciso «ad esclusione dei processi gia' pendenti in grado di appello».