IL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE Nella seduta giurisdizionale del 21 febbraio 2008; Esaminato il ricorso proposto dall'avv. Giulio Dimini avverso la decisione in data 20 gennaio 2007, con la quale il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Trieste gli irrogava la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio della professione per mesi dodici; Udita la relazione del consigliere avv. Ubaldo Perfetti; Sentito il Procuratore generale; Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento disciplinare n. 192/07 originato dal ricorso dell'avv. Giulio Dimini di Trieste, depositato l'8 maggio 2007, con il quale l'interessato ha impugnato il provvedimento disciplinare del Consiglio dell'ordine degli avvocati di Trieste di applicazione a suo carico della sanzione della sospensione dall'esercizio della professione per la durata di mesi dodici. Esaminati gli atti e ritenuto in fatto Con ricorso depositato presso il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Trieste l'8 maggio 2007 l'avv. Giulio Dimini ha impugnato la decisione di quell'organo disciplinare con la quale e' stata applicata a suo carico la sanzione della sospensione per mesi dodici dall'esercizio della professione. A seguito delle dichiarazioni di fallimento di alcune societa' di cui l'avv. Giulio Dimini era stato amministratore e della sua conseguente sottoposizione a procedimento penale per i reati fallimentari contestatigli, il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Trieste, con decisione 18 giugno 1999, aveva deliberato l'apertura del procedimento disciplinare contestando la commissione degli stessi fatti di cui all'imputazione penale e riguardanti comportamenti tenuti dall'avv. Dimini nella triplice veste di (a) vice presidente della Tripcovich S.p.A., dichiarata fallita il 12 luglio 1994 ed imputato nel procedimento penale n. 376/95 r.g. della Procura della Repubblica di Trieste, (b) amministratore della Trisea S.p.A., dichiarata fallita il 30 giugno 1994, ed imputato nel procedimento penale n. 377/95 r.g. della medesima Procura, (c) amministratore della Finarma S.p.A., dichiarata fallita il 2 agosto 2004 ed imputato nel procedimento penale n. 378/95 r.g. della stessa Procura. Con sentenza n. 1919/05, del 27 ottobre 2005, irrevocabile il 10 ottobre 2006, il Tribunale penale di Trieste assolveva l'avv. Dimini da taluni dei reati contestatigli parte con la formula «perche' il fatto non sussiste» parte con dichiarazione di «non doversi procedere per intervenuta prescrizione» mentre - per quanto qui interessa - con sentenza n. 1917/05 del 27 ottobre 2005, depositata il 7 novembre 2005, irrevocabile il 6 ottobre 2006, gli veniva applicata ex art. 444 c.p.p. la pena di anni due di reclusione per altri dei reati oggetto dell'iniziale contestazione. Il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Trieste - che, come detto, aveva disposto nel frattempo l'apertura del procedimento disciplinare incolpando l'avv. Dimini degli stessi fatti lui contestati in sede penale - con decisione del 20 gennaio 2007, notificata all'interessato il 18 aprile 2007 - gli applicava la sanzione disciplinare della sospensione per mesi dodici dall'esercizio della professione ritenendolo responsabile dei comportamenti per i quali in sede penale era stata pronunciata sentenza di condanna ex art. 444 c.p.p.; cio' per il motivo che la sentenza di c.d. patteggiamento, divenuta irrevocabile, esplicava nel procedimento disciplinare l'effetto previsto dal combinato disposto degli artt. 445, comma 1-bis e 653, comma 1-bis c.p.p. con la conseguenza che, dovendosi intendere ai sensi della prima quale sentenza di condanna e della seconda quale fonte di giudicato nella sede disciplinare quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceita' penale ed all'affermazione che l'imputato lo aveva commesso, non restava spazio all'organo disciplinare per ricostruire la portata fattuale dei comportamenti come invece pretendeva l'incolpato che invocava la possibilita' di dimostrare, con apposita istruttoria, la sua estraneita' ai fatti e non colpevolezza. Impugnando innanzi a questo Consiglio Nazionale Forense la decisione disciplinare di cui trattasi ed invocandone l'annullamento - oltre a prospettare una lettura costituzionalmente adeguata degli artt. 445, comma 1-bis e 653, comma 1-bis c.p.p. alla cui stregua la sentenza di c.d. patteggiamento che si limiti (come quella in esame) a dare atto dell'inesistenza di cause di proscioglimento senza enunciazione degli accertamenti circa la sussistenza del fatto, della sua illiceita' penale e l'affermazione che l'imputato l'ha commesso, si dovrebbe ritenere priva dell'effetto proprio del giudicato - l'avv. Giulio Dimini insiste per essere ammesso a provare fatti e circostanze in grado, a suo parere, di escludere la propria responsabilita' disciplinare e per l'effetto chiede disporsi «(...) l'acquisizione delle fonti di prova menzionate nei decreti di apertura del giudizio n. 376/95 e n. 520/95 R.G. G.I.P. e R.G.N.R. nonche' n. 377/95 R.G.N.R. n. 773/95 R.G. G.I.P.» riservandosi la richiesta di prova per testi sui fatti illustrati nella narrativa del suo ricorso. Strumentalmente a cio' solleva eccezioni di illegittimita' costituzionale degli artt. 445, comma 1-bis e 653, comma 1-bis c.p.p. per contrasto con gli artt. 3, secondo comma, 24, secondo comma e 111 della Costituzione per l'irragionevolezza dell'equiparazione della sentenza di c.d. patteggiamento a quella di condanna, trattandosi di due pronunce a struttura radicalmente diversa, la prima traducendosi nell'applicazione di una pena senza giudizio, la seconda essendo emessa a conclusione di un giudizio nel quale tutti gli elementi costitutivi del reato risultano accertati. La disciplina processual/penalistica in commento, inoltre, sarebbe irragionevole se si assume come tertium comparationis l'art. 445, comma 1-bis c.p.p., perche', da un lato, il combinato disposto degli artt. 445, comma 1-bis e 653, comma 1-bis c.p.p. attribuisce efficacia di giudicato alla sentenza di c.d. patteggiamento in sede disciplinare e, dall'altro, l'art. 445, comma 1-bis c.p.p. le nega quella stessa efficacia in sede civile ed amministrativa, cosi' generando un doppio regime, discriminatorio per il professionista perche' a quest'ultimo sarebbe negato il diritto di difesa. Dal medesimo sistema uscirebbe frustrato anche il principio del contraddittorio e l'autonomia del procedimento disciplinare a fronte di una sentenza ontologicamente non cognitiva. Infine, l'incostituzionalita' sarebbe apprezzabile anche in controluce all'art. 111, secondo comma della Costituzione nella parte in cui ricollega arbitrariamente alla scelta dell'imputato di patteggiare, la valenza di un'inammissibile rinuncia implicita al contraddittorio in sede disciplinare. Ritenuto in diritto I) Quanto alla rilevanza. (i) Essendo il Consiglio Nazionale Forense giudice anche del merito, nella sua funzione appieno giurisdizionale e' ricompresa sia la potesta' di un diverso apprezzamento dei fatti rilevanti per il giudizio, che dovessero essere gia' stati accertati dall'organo disciplinare di prima istanza, sia quella di una loro acquisizione in via autonoma, se cio' e' ritenuto necessario per un'equa decisione del caso concreto. Pertanto ed in linea di principio, nulla impedirebbe a questo giudice di dare ingresso alle richieste di indagine istruttoria che dovessero essere formulate nel corpo del ricorso con cui si impugna il provvedimento disciplinare di prima istanza, ove ritenute utili ai fini del decidere. L'avv. Dimini, impugnando la decisione del consiglio territoriale ed invocandone l'annullamento, ha per l'appunto chiesto l'apertura della fase istruttoria, impedita dall'organo disciplinare di prima istanza, e per l'effetto «(...) l'acquisizione delle fonti di prova menzionate nei decreti di apertura del giudizio n. 376/95 e n. 520/95 R.G. G.I.P. e R.G.N.R. nonche' n. 377/95 R.G.N.R. n. 773/95 R.G. G.I.P»; contemporaneamente ha fatto riserva di chiedere l'ammissione di prova per testi sui fatti da lui esposti nella narrativa del ricorso. Le prove formulate per relationem sono quelle indicate nei due decreti che dispongono il giudizio del 10 luglio 1998 (docc. nn. 8 e 9 del fascicolo prodotto in questa sede). Esse, considerate in astratto e salvo il giudizio finale circa il loro esito, potrebbero teoricamente contribuire a dimostrare l'estraneita' materiale dell'incolpato ai comportamenti contestatigli, ovvero la mancanza dell'estremo della suita' della condotta, senza la quale non e' possibile affermare la responsabilita' disciplinare dell'agente in conformita' al principio espresso dall'art. 3 del Codice deontologico forense secondo cui la responsabilita' disciplinare discende «(...) dalla inosservanza dei doveri e dalla volontarieta' della condotta». Dette prove appaiono, pertanto ed in linea astratta, ammissibili e rilevanti in rapporto allo scopo che si prefigge il ricorrente. Tuttavia, dato l'attuale assetto conferito alla materia dagli artt. 445, comma 1-bis e 653, comma 1-bis c.p.p. nel senso che la sentenza penale irrevocabile di c.d. patteggiamento produce effetto vincolante in sede disciplinare quanto all'accertamento dei fatti, alla responsabilita' dell'agente ed all'affermazione che l'incolpato ha commesso il fatto, l'ammissione di quelle stesse prove, rilevanti in astratto, diviene inutile ed improduttiva perche', se anche conducessero ad un diverso apprezzamento del fatto, oppure alla conclusione che l'incolpato non lo ha commesso, cio' non potrebbe consentire al giudice disciplinare di neutralizzare l'interferenza prodotta dalla sentenza irrevocabile di c.d. patteggiamento che lo obbliga a conferire a quel fatto ed alla responsabilita' dell'agente i tratti morfologici che ne risultano disegnati in sede penale, senza possibilita' di scostamento. Sotto questo profilo, pertanto, l'eventuale rimozione per incostituzionalita' dell'anzidetta interferenza, restituendo al giudice disciplinare l'autonomia di apprezzamento discrezionale della fattispecie, permetterebbe di assumere prove rivolte a dimostrare l'irrilevanza disciplinare della condotta. Ne' l'ostacolo dell'efficacia vincolante della sentenza di c.d. patteggiamento nei termini surriferiti potrebbe essere superato seguendo il suggerimento del ricorrente che propende per una lettura (interpretazione) costituzionalmente orientata del combinato disposto degli artt. 445, comma 1-bis e 653, comma 1-bis c.p.p. che ne limiti la portata ai soli procedimenti disciplinari riguardanti gli impiegati pubblici lasciando fuori del suo perimetro i professionisti. Seppur e' vero che dai lavori preparatori della legge 27 marzo 2001, n. 97, cui si deve l'introduzione del comma 1-bis nell'art. 653 c.p.p., si evince che la norma fu voluta per esigenze di moralizzazione dei comportamenti dei dipendenti della pubblica amministrazione, l'ampia ed onnicomprensiva dizione della rubrica intitolata Efficacia della sentenza penale nel giudizio disciplinare e la mancanza di qualsiasi appiglio letterale che valga a ridurne la portata, cosi da escludere dal suo raggio i professionisti, impedisce l'interpretazione adeguatrice suggerita. In tal senso, peraltro, e' la giurisprudenza di questo Consiglio Nazionale Forense espressa nella sentenza n. 100/07 del 16 luglio 2007 dalla quale non vi e' motivo di discostarsi e quella del S.C. (Cass., sez. unite, 9 aprile 2008, n. 9166). Parimenti da respingere e' l'altra opinione del ricorrente secondo il quale, in subordine, l'uso del vocabolo giudicato, dovrebbe implicare il riferimento alla sola sentenza di condanna emessa a seguito di un giudizio di cognizione, tale da creare una presunzione di veridicita' assoluta dei fatti da essa ricostruiti; lo stesso non avverrebbe, invece, per la sentenza di c.d. patteggiamento che, quando non enunci alcunche' a proposito dell'accertamento del fatto e della responsabilita' dell'imputato, sarebbe idonea, tutt'alpiu', a creare una presunzione relativa di colpevolezza, vincibile in sede disciplinare con le opportune dimostrazioni del contrario. Anche questa esegesi adeguatrice - in grado di superare i dubbi di costituzionalita' - non e' tuttavia sostenibile atteso il tenore inequivoco della norma che non permette, se non a costo di un'interpretazione che piu' che adeguatrice sarebbe innovatrice, di darle il significato prospettato. In conclusione, il combinato disposto delle norme in esame e' tale, per la sua chiarezza, da impedire di sostenere che l'efficacia vincolante in sede disciplinare del giudicato penale, seppur formatosi per effetto del c.d. patteggiamento, possa soffrire eccezioni in ragione, o della qualita' del soggetto interessato (pubblico dipendente piuttosto che professionista), o dei caratteri della sentenza di c.d. patteggiamento (contenente, o meno, richiami all'accertamento del fatto ed alla responsabilita' dell'interessato). Onde la rilevanza sotto tutti i profili esaminati dei dubbi di costituzionalita' di cui infra. II) Quanto alla non manifesta infondatezza. Il tema dell'efficacia del giudicato penale nel procedimento disciplinare era, nella formulazione originaria del codice di procedura penale, regolato dall'art. 653 c.p.p. (rubricato efficacia della sentenza penale di assoluzione), a norma del quale la sentenza penale di assoluzione emessa a seguito di dibattimento aveva efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilita' disciplinare davanti alle pubbliche autorita' quanto all'accertamento che il fatto non sussiste, o non costituisce illecito penale, ovvero l'imputato non lo ha commesso. Nulla si diceva circa l'efficacia delle sentenze penali di condanna pronunciate a seguito di dibattimento, ovvero in applicazione del rito premiale ex art. 444 c.p.p. Tale impostazione veniva, successivamente, modificata dalla legge 27 marzo 2001, n. 97. In particolare, l'art. 1 (rubricato Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetto del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), modificava l'art. 653 c.p.p. nel seguente modo: (a) nella rubrica, le parole di assoluzione venivano soppresse; (b) nel comma 1, le parole successive a dibattimento venivano soppresse; (c) veniva aggiunto un comma 1-bis del seguente tenore: La sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilita' disciplinare davanti alle pubbliche autorita' quanto all'accertamento dell'esistenza del fatto, della sua illiceita' penale e dell'affermazione che l'imputato lo ha commesso. L'art. 2 della legge n. 97/2001, poi, modificava l'art. 445 c.p.p., prevedendo, al comma 1, la sostituzione della parola anche con l'inciso salvo quanto previsto dall'art. 653, anche; per cui il novellato art. 445 c.p.p. andava letto nel seguente modo: «(...) anche quando e' pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, la sentenza non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi. Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza e' equiparata a una pronuncia di condanna». Successivamente, la legge 2 giugno 2003, n. 134 (recante Modifiche al c.p.p. in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti) apportava ulteriori modifiche alla disciplina in esame. L'art. 2, comma 1, in particolare, sostituiva (tra l'altro) il dettato dell'art. 445, comma 1-bis, c.p.p., con il seguente: «Salvo quanto previsto dall'art. 653, la sentenza prevista dall'art. 444, comma 2, anche quando e' pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili ed amministrativi.». Gli interventi innanzi detti e le conseguenti modifiche alla disciplina dell'efficacia del giudicato penale, hanno creato un nuovo quadro normativo, modificato in profondita' rispetto al precedente nel punto che qui interessa. Infatti, mentre nell'originaria formulazione dell'art. 653 c.p.p. la sentenza penale di condanna aveva efficacia di giudicato nel giudizio civile, o amministrativo, per il risarcimento del danno, solamente se pronunciata in seguito a dibattimento (pari efficacia non aveva, percio', quella pronunciata a seguito di c.d. patteggiamento) e non aveva in alcun caso tale efficacia nei giudizi disciplinari, ora, viceversa, quest'ultima le e' conferita anche per i procedimenti disciplinari, sia che la condanna venga irrogata a seguito di dibattimento, sia quale conseguenza di pena concordata ex art. 444 c.p.p. Questo Consiglio Nazionale Forense non ignora i precedenti interventi della Corte costituzionale a proposito del disposto degli artt. 445, comma 1-bis e 653, comma 1-bis, c.p.p. (Corte cost., 25 luglio 2002, n. 394; Corte cost., 24 giugno 2004, n. 186), ma rileva che essi concernono aspetti diversi da quelli qui in evidenza poiche' in allora la q.l.c. aveva ad oggetto la legittimita' della disciplina transitoria di cui all'art. 10 della legge n. 97/2001. (i) Cio' posto, non e' manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalita' centrata sul rilievo che un tale sistema viene a contrastare con il parametro costituzionale di ragionevolezza di cui all'art. 3, secondo comma, della Costituzione. (i.a) In tal modo si finisce infatti per equiparare, sotto il profilo dell'efficacia probatoria nel giudizio disciplinare, due tipi di pronunce strutturalmente ed ontologicamente difformi e cioe' la sentenza di condanna a seguito di dibattimento e quella di applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento). Del resto, proprio in ragione di questa diversita' ontologica la Corte di cassazione giustifica, ad esempio, l'inapplicabilita' alla sentenza di c.d. patteggiamento dell'istituto della revisione e cio' - per l'appunto - quale corollario della natura di questa sentenza, non equiparabile a una pronuncia di condanna se non nella parte che la giustifica per l'affinita' individuabile nel solo punto relativo all'applicazione della pena (Cass. pen., sez. unite 25 marzo 1998, n. 6). La sentenza di condanna a seguito di dibattimento si fonda, del resto, sull'accertamento positivo, a seguito di contraddittorio, della sussistenza del fatto addebitato e della sua attribuibilita' all'imputato; l'altra e', invece, per sua natura, priva di qualsiasi valutazione, o riscontro di tal tipo, diversi dalla mera verifica dell'insussistenza delle cause di non procedibilita' ex art. 129 c.p.p.; il che giustifica appieno la qualificazione di metodo di applicazione della pena senza giudizio data al rito premiale ex artt. 444 c.p.p. Tanto le due tipologie di sentenze non sono assimilabili che - per esempio - la prima, secondo l'interpretazione del S.C., non puo' giustificare la revoca della sospensione condizionale della pena in precedenza accordata (Cass. pen., sez. unite 26 febbraio 2007, n. 3600). Orbene, se questa e' la fisionomia della sentenza di c.d. patteggiamento, parrebbe irrazionale, rispetto al parametro costituzionale dell'art. 3, secondo comma, della Costituzione, la scelta del legislatore del 2001 di attribuirle la stessa efficacia del giudicato in senso stretto (scaturente, cioe', dalla celebrazione del dibattimento) con riguardo al (solo) procedimento disciplinare finendo, in pratica, per assegnare il medesimo valore ad una pronuncia che contiene un pieno accertamento positivo e ad una che si alimenta di una mera verifica negativa; in tal modo operandosi un'ingiustificata ed irrazionale parificazione effettuale di situazioni ontologicamente diverse. (i.b) Da altro e concorrente punto di vista la violazione del canone di ragionevolezza emerge, poi, se si raffronta il principio normativo espresso dalla combinazione degli artt. 445, comma 1-bis e 653, comma 1-bis c.p.p., col tertium comparationis rappresentato dall'art. 445, comma 1-bis c.p.p. Se, infatti, il primo attribuisce alla sentenza di c.d. patteggiamento efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare, il secondo nega pari efficacia alla sentenza ex art. 444 c.p.p. nel giudizio civile ed amministrativo. Non sfugge a questo Consiglio Nazionale Forense che le due norme riguardano contesti diversi, sicche' sussiste, in astratto, la premessa che consente al legislatore di introdurre differenziazioni di disciplina; tuttavia un tale trattamento differenziato puo' ritenersi costituzionalmente legittimo solo in quanto sia giustificabile alla luce dei principi di proporzionalita' ed adeguatezza. Nel caso di specie, la scelta di operare una differenziazione di disciplina appare non in linea con i suddetti criteri sol che si consideri la portata del procedimento disciplinare, idoneo a produrre conseguenze - se possibile - ancora piu' incisive di quelle di un procedimento civile, o amministrativo, avuto riguardo sia al profilo patrimoniale, sia a quello esistenziale della persona. Dal primo punto di vista, le sanzioni irrogabili sono in grado di incidere su beni costituzionalmente protetti, come - a tacer d'altro - il diritto all'autodeterminazione in materia di lavoro considerando che la sospensione, la cancellazione e la radiazione dall'albo impediscono all'interessato di svolgere, temporaneamente, o per sempre, una proficua attivita' professionale fonte, non solo di guadagno economico, ma anche di gratificazione personale e professionale. Aspetto, quest'ultimo, che pone in evidenza - dal secondo punto di vista - l'idoneita' del procedimento disciplinare, proprio per la natura afflittiva personale delle sue sanzioni, a produrre conseguenze lesive dell'autostima personale e professionale e quindi a mortificare una situazione esistenziale della persona. Se e' vero, pertanto, che il procedimento disciplinare produce conseguenze economiche e mortificazioni esistenziali, questi effetti possono senz'altro essere posti sullo stesso piano (se non superiore) di quello su cui si apprezzano gli effetti di un procedimento civile, o amministrativo; o, quanto meno, non si e' in grado di apprezzare una marcata e sostanziale differenza, da questo punto di vista, tra i vari tipi di procedimento a tal punto significativa da giustificare il diverso trattamento. La scelta del legislatore di riconoscere al soggetto patteggiante il pieno diritto alla prova nel giudizio civile ed amministrativo e, per contro, di negarlo (e con esso il diritto di difesa) in un contesto processuale che assume una rilevanza anche superiore perche' involge beni fondamentali della persona, appare, anche in questa prospettiva, contrastare col canone di ragionevolezza di cui all'art. 3, secondo comma, della Costituzione. (ii) Le considerazioni teste' formulate, peraltro, si prestano ad essere valorizzate anche sub specie di violazione del diritto costituzionale di difesa (art. 24 della Costituzione) e del principio del giusto processo, declinabile in questo caso nella garanzia del contraddittorio (art. 111, secondo comma della Costituzione); e cio', da un lato, tenuto conto della natura appieno giurisdizionale del procedimento disciplinare che si svolge innanzi al Consiglio Nazionale Forense, dall'altro della natura (anche) di giudice del merito di quest'ultimo, il che gli consente - come visto - di assumere tutte le iniziative istruttorie giudicate opportune e necessarie. Ne' si potrebbe obiettare che, essendo la regola del contraddittorio, per certi versi, disponibile anche nel processo penale (art. 111, quinto comma, della Costituzione), con la scelta del rito premiale ex art. 444 c.p.p., l'imputato vi avrebbe implicitamente rinunciato a valere per il successivo procedimento disciplinare; invero, la rinuncia ex art. 111, quinto comma, della Costituzione non puo' che configurarsi come atto espresso e consapevole e riferito al contesto (processuale) in cui detto atto viene compiuto; non vi puo' pertanto essere spazio per un'abdicazione implicita maturata in un contesto autonomo e separato rispetto al procedimento disciplinare qual e' quello della giurisdizione penale.