IL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE 
    Nella seduta giurisdizionale del 21 febbraio 2008; 
    Esaminato il ricorso proposto dall'avv. Giulio Dimini avverso  la
decisione in  data  20  gennaio  2007,  con  la  quale  il  Consiglio
dell'ordine degli  avvocati  di  Trieste  gli  irrogava  la  sanzione
disciplinare della sospensione dall'esercizio della  professione  per
mesi dodici; 
    Udita la relazione del consigliere avv. Ubaldo Perfetti; 
    Sentito il Procuratore generale; 
    Ha   pronunciato   la   seguente   ordinanza   nel   procedimento
disciplinare n. 192/07 originato dal ricorso dell'avv. Giulio  Dimini
di Trieste, depositato l'8 maggio 2007, con il quale l'interessato ha
impugnato il provvedimento  disciplinare  del  Consiglio  dell'ordine
degli avvocati di Trieste di applicazione a suo carico della sanzione
della sospensione dall'esercizio della professione per la  durata  di
mesi dodici. 
               Esaminati gli atti e ritenuto in fatto 
    Con ricorso depositato  presso  il  Consiglio  dell'ordine  degli
avvocati di Trieste l'8 maggio 2007 l'avv. Giulio Dimini ha impugnato
la decisione di quell'organo  disciplinare  con  la  quale  e'  stata
applicata a suo carico la sanzione della sospensione per mesi  dodici
dall'esercizio della professione. 
    A seguito delle dichiarazioni di fallimento di alcune societa' di
cui l'avv.  Giulio  Dimini  era  stato  amministratore  e  della  sua
conseguente  sottoposizione  a  procedimento  penale  per   i   reati
fallimentari contestatigli, il Consiglio dell'ordine  degli  avvocati
di Trieste, con decisione 18 giugno 1999, aveva deliberato l'apertura
del procedimento disciplinare contestando la commissione degli stessi
fatti di  cui  all'imputazione  penale  e  riguardanti  comportamenti
tenuti dall'avv. Dimini nella triplice veste di (a)  vice  presidente
della Tripcovich S.p.A., dichiarata fallita  il  12  luglio  1994  ed
imputato nel procedimento penale n. 376/95 r.g. della  Procura  della
Repubblica  di  Trieste,  (b)  amministratore  della  Trisea  S.p.A.,
dichiarata fallita il 30 giugno 1994, ed  imputato  nel  procedimento
penale n. 377/95 r.g.  della  medesima  Procura,  (c)  amministratore
della Finarma S.p.A., dichiarata fallita il 2 agosto 2004 ed imputato
nel procedimento penale n. 378/95 r.g. della stessa Procura. 
    Con sentenza n. 1919/05, del 27 ottobre 2005, irrevocabile il  10
ottobre 2006, il Tribunale penale di Trieste assolveva l'avv.  Dimini
da taluni dei reati contestatigli parte con la  formula  «perche'  il
fatto non sussiste» parte con dichiarazione di «non doversi procedere
per intervenuta prescrizione» mentre - per quanto qui interessa - con
sentenza n. 1917/05 del 27 ottobre 2005,  depositata  il  7  novembre
2005, irrevocabile il 6 ottobre 2006, gli veniva  applicata  ex  art.
444 c.p.p. la pena di anni due di  reclusione  per  altri  dei  reati
oggetto dell'iniziale contestazione. 
    Il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Trieste  -  che,  come
detto, aveva  disposto  nel  frattempo  l'apertura  del  procedimento
disciplinare  incolpando  l'avv.  Dimini  degli  stessi   fatti   lui
contestati in sede penale  -  con  decisione  del  20  gennaio  2007,
notificata all'interessato il  18  aprile  2007 -  gli  applicava  la
sanzione   disciplinare   della   sospensione   per    mesi    dodici
dall'esercizio  della  professione   ritenendolo   responsabile   dei
comportamenti per i  quali  in  sede  penale  era  stata  pronunciata
sentenza di condanna ex art. 444 c.p.p.; cio' per il  motivo  che  la
sentenza di c.d. patteggiamento, divenuta irrevocabile, esplicava nel
procedimento disciplinare l'effetto previsto dal  combinato  disposto
degli artt. 445, comma  1-bis  e  653,  comma  1-bis  c.p.p.  con  la
conseguenza che, dovendosi  intendere  ai  sensi  della  prima  quale
sentenza di condanna e della seconda quale fonte di  giudicato  nella
sede  disciplinare  quanto  all'accertamento  della  sussistenza  del
fatto, della sua illiceita' penale ed all'affermazione che l'imputato
lo aveva commesso, non restava  spazio  all'organo  disciplinare  per
ricostruire  la  portata  fattuale  dei  comportamenti  come   invece
pretendeva l'incolpato che invocava la  possibilita'  di  dimostrare,
con  apposita  istruttoria,  la  sua  estraneita'  ai  fatti  e   non
colpevolezza. 
    Impugnando  innanzi  a  questo  Consiglio  Nazionale  Forense  la
decisione disciplinare di cui trattasi ed invocandone  l'annullamento
- oltre a prospettare una lettura costituzionalmente  adeguata  degli
artt. 445, comma 1-bis e 653, comma 1-bis c.p.p. alla cui stregua  la
sentenza di c.d. patteggiamento che si limiti (come quella in  esame)
a dare  atto  dell'inesistenza  di  cause  di  proscioglimento  senza
enunciazione degli accertamenti circa la sussistenza del fatto, della
sua illiceita' penale e l'affermazione che l'imputato l'ha  commesso,
si dovrebbe ritenere  priva  dell'effetto  proprio  del  giudicato  -
l'avv. Giulio Dimini insiste per essere ammesso  a  provare  fatti  e
circostanze  in  grado,  a  suo  parere,  di  escludere  la   propria
responsabilita' disciplinare e per l'effetto chiede  disporsi  «(...)
l'acquisizione  delle  fonti  di  prova  menzionate  nei  decreti  di
apertura del giudizio n. 376/95 e n. 520/95 R.G.  G.I.P.  e  R.G.N.R.
nonche' n. 377/95 R.G.N.R. n. 773/95  R.G.  G.I.P.»  riservandosi  la
richiesta di prova per testi sui fatti illustrati nella narrativa del
suo ricorso. 
    Strumentalmente  a  cio'  solleva  eccezioni  di   illegittimita'
costituzionale degli artt. 445, comma 1-bis e 653, comma 1-bis c.p.p.
per contrasto con gli artt. 3, secondo comma, 24, secondo comma e 111
della Costituzione per  l'irragionevolezza  dell'equiparazione  della
sentenza di c.d. patteggiamento a quella di condanna, trattandosi  di
due pronunce a struttura radicalmente diversa, la prima  traducendosi
nell'applicazione di una pena  senza  giudizio,  la  seconda  essendo
emessa a conclusione di un giudizio  nel  quale  tutti  gli  elementi
costitutivi del reato risultano accertati. 
    La  disciplina  processual/penalistica  in   commento,   inoltre,
sarebbe irragionevole se si assume come tertium comparationis  l'art.
445, comma 1-bis c.p.p., perche', da un lato, il  combinato  disposto
degli artt. 445, comma 1-bis e 653, comma  1-bis  c.p.p.  attribuisce
efficacia di giudicato alla sentenza di c.d. patteggiamento  in  sede
disciplinare e, dall'altro, l'art. 445, comma 1-bis  c.p.p.  le  nega
quella stessa efficacia  in  sede  civile  ed  amministrativa,  cosi'
generando un doppio regime,  discriminatorio  per  il  professionista
perche' a quest'ultimo sarebbe  negato  il  diritto  di  difesa.  Dal
medesimo  sistema  uscirebbe  frustrato  anche   il   principio   del
contraddittorio e l'autonomia del procedimento disciplinare a  fronte
di   una   sentenza   ontologicamente    non    cognitiva.    Infine,
l'incostituzionalita'  sarebbe  apprezzabile  anche   in   controluce
all'art. 111, secondo comma della Costituzione  nella  parte  in  cui
ricollega arbitrariamente alla scelta dell'imputato  di  patteggiare,
la valenza di un'inammissibile rinuncia implicita al  contraddittorio
in sede disciplinare. 
                         Ritenuto in diritto 
I) Quanto alla rilevanza. 
    (i) Essendo il Consiglio  Nazionale  Forense  giudice  anche  del
merito, nella sua funzione appieno giurisdizionale e' ricompresa  sia
la potesta' di un diverso apprezzamento dei fatti  rilevanti  per  il
giudizio, che  dovessero  essere  gia'  stati  accertati  dall'organo
disciplinare di prima istanza, sia quella di una loro acquisizione in
via autonoma, se cio' e' ritenuto necessario  per  un'equa  decisione
del caso concreto. 
    Pertanto ed in linea di principio,  nulla  impedirebbe  a  questo
giudice di dare ingresso alle richieste di indagine  istruttoria  che
dovessero essere formulate nel corpo del ricorso con cui  si  impugna
il provvedimento disciplinare di prima istanza, ove ritenute utili ai
fini del decidere. 
    L'avv. Dimini, impugnando la decisione del consiglio territoriale
ed invocandone l'annullamento, ha per  l'appunto  chiesto  l'apertura
della fase istruttoria, impedita dall'organo  disciplinare  di  prima
istanza, e per l'effetto «(...) l'acquisizione delle fonti  di  prova
menzionate nei decreti di apertura del giudizio n. 376/95 e n. 520/95
R.G. G.I.P. e R.G.N.R. nonche' n.  377/95  R.G.N.R.  n.  773/95  R.G.
G.I.P»; contemporaneamente ha fatto riserva di chiedere  l'ammissione
di prova per testi sui fatti  da  lui  esposti  nella  narrativa  del
ricorso. 
    Le prove formulate per relationem sono quelle  indicate  nei  due
decreti che dispongono il giudizio del 10 luglio 1998 (docc. nn. 8  e
9 del fascicolo prodotto in questa sede). 
    Esse, considerate in astratto e salvo il giudizio finale circa il
loro  esito,  potrebbero  teoricamente   contribuire   a   dimostrare
l'estraneita'    materiale    dell'incolpato     ai     comportamenti
contestatigli, ovvero la mancanza  dell'estremo  della  suita'  della
condotta,  senza   la   quale   non   e'   possibile   affermare   la
responsabilita' disciplinare dell'agente in conformita' al  principio
espresso dall'art. 3 del Codice deontologico forense secondo  cui  la
responsabilita' disciplinare discende «(...) dalla  inosservanza  dei
doveri e dalla volontarieta' della condotta». 
    Dette prove appaiono, pertanto ed in linea astratta,  ammissibili
e rilevanti in rapporto allo scopo che si prefigge il ricorrente. 
    Tuttavia, dato l'attuale assetto  conferito  alla  materia  dagli
artt. 445, comma 1-bis e 653, comma 1-bis c.p.p.  nel  senso  che  la
sentenza penale irrevocabile di c.d. patteggiamento  produce  effetto
vincolante in sede disciplinare quanto  all'accertamento  dei  fatti,
alla responsabilita' dell'agente ed all'affermazione che  l'incolpato
ha commesso il fatto, l'ammissione di quelle stesse prove,  rilevanti
in astratto,  diviene  inutile  ed  improduttiva  perche',  se  anche
conducessero ad un  diverso  apprezzamento  del  fatto,  oppure  alla
conclusione che l'incolpato non lo ha  commesso,  cio'  non  potrebbe
consentire al giudice disciplinare  di  neutralizzare  l'interferenza
prodotta dalla sentenza irrevocabile di c.d.  patteggiamento  che  lo
obbliga a conferire a quel fatto ed alla responsabilita'  dell'agente
i tratti morfologici che ne risultano disegnati in sede penale, senza
possibilita' di scostamento. 
    Sotto  questo  profilo,  pertanto,  l'eventuale   rimozione   per
incostituzionalita'  dell'anzidetta  interferenza,   restituendo   al
giudice disciplinare l'autonomia di apprezzamento discrezionale della
fattispecie, permetterebbe di assumere  prove  rivolte  a  dimostrare
l'irrilevanza disciplinare della condotta. 
    Ne' l'ostacolo dell'efficacia vincolante della sentenza  di  c.d.
patteggiamento  nei  termini  surriferiti  potrebbe  essere  superato
seguendo il suggerimento del ricorrente che propende per una  lettura
(interpretazione) costituzionalmente orientata del combinato disposto
degli artt. 445, comma 1-bis e 653, comma 1-bis c.p.p. che ne  limiti
la  portata  ai  soli  procedimenti  disciplinari   riguardanti   gli
impiegati   pubblici   lasciando   fuori   del   suo   perimetro    i
professionisti. 
    Seppur e' vero che dai lavori preparatori della  legge  27  marzo
2001, n. 97, cui si deve l'introduzione del comma 1-bis nell'art. 653
c.p.p.,  si  evince  che  la  norma  fu  voluta   per   esigenze   di
moralizzazione  dei  comportamenti  dei  dipendenti  della   pubblica
amministrazione, l'ampia ed  onnicomprensiva  dizione  della  rubrica
intitolata Efficacia della sentenza penale nel giudizio  disciplinare
e la mancanza di qualsiasi appiglio letterale che valga a ridurne  la
portata, cosi da escludere dal suo raggio i professionisti, impedisce
l'interpretazione adeguatrice suggerita. In tal senso,  peraltro,  e'
la giurisprudenza di  questo  Consiglio  Nazionale  Forense  espressa
nella sentenza n. 100/07 del 16 luglio 2007 dalla  quale  non  vi  e'
motivo di discostarsi e quella del S.C. (Cass., sez. unite, 9  aprile
2008, n. 9166). 
    Parimenti  da  respingere  e'  l'altra  opinione  del  ricorrente
secondo  il  quale,  in  subordine,  l'uso  del  vocabolo  giudicato,
dovrebbe implicare il riferimento  alla  sola  sentenza  di  condanna
emessa a seguito di un giudizio di cognizione,  tale  da  creare  una
presunzione di veridicita' assoluta dei fatti da essa ricostruiti; lo
stesso non avverrebbe, invece, per la sentenza di c.d. patteggiamento
che, quando non enunci alcunche' a  proposito  dell'accertamento  del
fatto  e  della  responsabilita'   dell'imputato,   sarebbe   idonea,
tutt'alpiu', a  creare  una  presunzione  relativa  di  colpevolezza,
vincibile in sede disciplinare con  le  opportune  dimostrazioni  del
contrario. 
    Anche questa esegesi adeguatrice - in grado di superare  i  dubbi
di costituzionalita' - non e' tuttavia sostenibile atteso  il  tenore
inequivoco  della  norma  che  non  permette,  se  non  a  costo   di
un'interpretazione che piu' che adeguatrice sarebbe  innovatrice,  di
darle il significato prospettato. 
    In conclusione, il combinato disposto delle  norme  in  esame  e'
tale, per la sua chiarezza, da impedire di sostenere che  l'efficacia
vincolante  in  sede  disciplinare  del  giudicato   penale,   seppur
formatosi  per  effetto  del  c.d.  patteggiamento,  possa   soffrire
eccezioni in ragione,  o  della  qualita'  del  soggetto  interessato
(pubblico dipendente piuttosto che professionista), o  dei  caratteri
della sentenza di c.d. patteggiamento (contenente, o  meno,  richiami
all'accertamento del fatto ed alla responsabilita' dell'interessato). 
    Onde la rilevanza sotto tutti i profili esaminati  dei  dubbi  di
costituzionalita' di cui infra. 
II) Quanto alla non manifesta infondatezza. 
    Il tema dell'efficacia  del  giudicato  penale  nel  procedimento
disciplinare  era,  nella  formulazione  originaria  del  codice   di
procedura penale, regolato dall'art. 653 c.p.p. (rubricato  efficacia
della sentenza penale di assoluzione), a norma del quale la  sentenza
penale  di  assoluzione  emessa  a  seguito  di  dibattimento   aveva
efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilita'  disciplinare
davanti alle pubbliche autorita' quanto all'accertamento che il fatto
non sussiste, o non costituisce illecito  penale,  ovvero  l'imputato
non lo ha commesso. 
    Nulla si  diceva  circa  l'efficacia  delle  sentenze  penali  di
condanna  pronunciate  a   seguito   di   dibattimento,   ovvero   in
applicazione del rito premiale ex art. 444 c.p.p. 
    Tale impostazione veniva, successivamente, modificata dalla legge
27 marzo 2001, n. 97. 
    In particolare,  l'art.  1  (rubricato  Norme  sul  rapporto  tra
procedimento  penale  e  procedimento  disciplinare  ed  effetto  del
giudicato penale nei confronti dei dipendenti  delle  amministrazioni
pubbliche), modificava l'art. 653 c.p.p. nel seguente modo: (a) nella
rubrica, le parole di assoluzione venivano soppresse; (b)  nel  comma
1, le parole successive a dibattimento venivano soppresse; (c) veniva
aggiunto un comma 1-bis  del  seguente  tenore:  La  sentenza  penale
irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel  giudizio  per
responsabilita' disciplinare davanti alle pubbliche autorita'  quanto
all'accertamento  dell'esistenza  del  fatto,  della  sua  illiceita'
penale e dell'affermazione che l'imputato lo ha commesso. 
    L'art. 2 della legge  n.  97/2001,  poi,  modificava  l'art.  445
c.p.p., prevedendo, al comma 1, la sostituzione  della  parola  anche
con l'inciso salvo quanto previsto dall'art. 653, anche; per  cui  il
novellato art. 445 c.p.p. andava  letto  nel  seguente  modo:  «(...)
anche quando e' pronunciata dopo la  chiusura  del  dibattimento,  la
sentenza non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi.  Salve
diverse disposizioni di  legge,  la  sentenza  e'  equiparata  a  una
pronuncia di condanna». 
    Successivamente,  la  legge  2  giugno  2003,  n.  134   (recante
Modifiche  al  c.p.p.  in  materia  di  applicazione  della  pena  su
richiesta delle parti) apportava ulteriori modifiche alla  disciplina
in esame. 
    L'art. 2, comma 1, in particolare, sostituiva  (tra  l'altro)  il
dettato dell'art. 445, comma 1-bis, c.p.p., con il  seguente:  «Salvo
quanto previsto dall'art. 653, la sentenza  prevista  dall'art.  444,
comma  2,  anche  quando  e'  pronunciata  dopo   la   chiusura   del
dibattimento,   non   ha   efficacia   nei    giudizi    civili    ed
amministrativi.». 
    Gli interventi innanzi detti  e  le  conseguenti  modifiche  alla
disciplina dell'efficacia del giudicato penale, hanno creato un nuovo
quadro normativo, modificato in profondita'  rispetto  al  precedente
nel punto che qui interessa. 
    Infatti, mentre nell'originaria formulazione dell'art. 653 c.p.p.
la sentenza penale di  condanna  aveva  efficacia  di  giudicato  nel
giudizio civile, o amministrativo, per  il  risarcimento  del  danno,
solamente se pronunciata in seguito a  dibattimento  (pari  efficacia
non  aveva,  percio',  quella   pronunciata   a   seguito   di   c.d.
patteggiamento) e non aveva in alcun caso tale efficacia nei  giudizi
disciplinari, ora, viceversa, quest'ultima le e' conferita anche  per
i procedimenti disciplinari, sia che la  condanna  venga  irrogata  a
seguito di dibattimento, sia quale conseguenza di pena concordata  ex
art. 444 c.p.p. 
    Questo  Consiglio  Nazionale  Forense  non  ignora  i  precedenti
interventi della Corte costituzionale a proposito del disposto  degli
artt. 445, comma 1-bis e 653, comma 1-bis, c.p.p.  (Corte  cost.,  25
luglio 2002, n. 394; Corte cost., 24 giugno 2004, n. 186), ma  rileva
che essi concernono aspetti diversi da quelli qui in evidenza poiche'
in allora la q.l.c. aveva ad oggetto la legittimita' della disciplina
transitoria di cui all'art. 10 della legge n. 97/2001. 
    (i) Cio' posto, non e' manifestamente  infondata  l'eccezione  di
incostituzionalita' centrata sul rilievo che un tale sistema viene  a
contrastare con il parametro costituzionale di ragionevolezza di  cui
all'art. 3, secondo comma, della Costituzione. 
    (i.a) In tal modo si finisce infatti  per  equiparare,  sotto  il
profilo dell'efficacia probatoria nel giudizio disciplinare, due tipi
di pronunce strutturalmente ed ontologicamente difformi  e  cioe'  la
sentenza  di  condanna  a  seguito  di  dibattimento  e   quella   di
applicazione   della   pena   su   richiesta   delle   parti    (c.d.
patteggiamento). 
    Del resto, proprio in ragione di questa diversita' ontologica  la
Corte di cassazione giustifica, ad esempio,  l'inapplicabilita'  alla
sentenza di c.d. patteggiamento dell'istituto della revisione e  cio'
- per l'appunto - quale corollario della natura di  questa  sentenza,
non equiparabile a una pronuncia di condanna se non nella  parte  che
la giustifica per l'affinita' individuabile nel solo  punto  relativo
all'applicazione della pena (Cass. pen., sez. unite 25 marzo 1998, n.
6). 
    La sentenza di condanna a seguito di dibattimento si  fonda,  del
resto, sull'accertamento  positivo,  a  seguito  di  contraddittorio,
della sussistenza del fatto addebitato e  della  sua  attribuibilita'
all'imputato; l'altra e', invece, per sua natura, priva di  qualsiasi
valutazione, o riscontro di tal tipo,  diversi  dalla  mera  verifica
dell'insussistenza delle cause di  non  procedibilita'  ex  art.  129
c.p.p.; il che giustifica appieno  la  qualificazione  di  metodo  di
applicazione della pena senza giudizio data al rito premiale ex artt.
444 c.p.p. Tanto le due tipologie di sentenze non  sono  assimilabili
che - per esempio - la prima, secondo l'interpretazione del S.C., non
puo' giustificare la revoca della sospensione condizionale della pena
in precedenza accordata (Cass. pen., sez. unite 26 febbraio 2007,  n.
3600). 
    Orbene, se  questa  e'  la  fisionomia  della  sentenza  di  c.d.
patteggiamento,   parrebbe   irrazionale,   rispetto   al   parametro
costituzionale dell'art. 3, secondo  comma,  della  Costituzione,  la
scelta del legislatore del 2001 di attribuirle  la  stessa  efficacia
del giudicato in senso stretto (scaturente, cioe', dalla celebrazione
del dibattimento) con riguardo al  (solo)  procedimento  disciplinare
finendo,  in  pratica,  per  assegnare  il  medesimo  valore  ad  una
pronuncia che contiene un pieno accertamento positivo e ad una che si
alimenta di una  mera  verifica  negativa;  in  tal  modo  operandosi
un'ingiustificata  ed   irrazionale   parificazione   effettuale   di
situazioni ontologicamente diverse. 
    (i.b) Da altro e concorrente punto di  vista  la  violazione  del
canone di ragionevolezza emerge, poi, se si  raffronta  il  principio
normativo espresso dalla combinazione degli artt. 445, comma 1-bis  e
653, comma 1-bis  c.p.p.,  col  tertium  comparationis  rappresentato
dall'art. 445, comma 1-bis c.p.p. 
    Se,  infatti,  il  primo  attribuisce  alla  sentenza   di   c.d.
patteggiamento efficacia di giudicato nel procedimento  disciplinare,
il secondo nega pari efficacia alla sentenza ex art. 444  c.p.p.  nel
giudizio civile ed amministrativo. 
    Non sfugge a questo Consiglio Nazionale Forense che le due  norme
riguardano  contesti  diversi,  sicche'  sussiste,  in  astratto,  la
premessa che consente al legislatore di  introdurre  differenziazioni
di  disciplina;  tuttavia  un  tale  trattamento  differenziato  puo'
ritenersi   costituzionalmente   legittimo   solo   in   quanto   sia
giustificabile  alla  luce  dei  principi  di   proporzionalita'   ed
adeguatezza. 
    Nel caso di specie, la scelta di operare una differenziazione  di
disciplina appare non in linea con i  suddetti  criteri  sol  che  si
consideri la portata del procedimento disciplinare, idoneo a produrre
conseguenze - se possibile - ancora piu' incisive  di  quelle  di  un
procedimento civile, o amministrativo, avuto riguardo sia al  profilo
patrimoniale, sia a quello esistenziale della persona. 
    Dal primo punto di vista, le sanzioni irrogabili sono in grado di
incidere su beni costituzionalmente protetti, come - a tacer  d'altro
- il diritto all'autodeterminazione in materia di lavoro considerando
che la  sospensione,  la  cancellazione  e  la  radiazione  dall'albo
impediscono  all'interessato  di  svolgere,  temporaneamente,  o  per
sempre, una proficua  attivita'  professionale  fonte,  non  solo  di
guadagno  economico,  ma  anche   di   gratificazione   personale   e
professionale. 
    Aspetto, quest'ultimo, che pone in evidenza - dal  secondo  punto
di vista - l'idoneita' del procedimento disciplinare, proprio per  la
natura  afflittiva  personale  delle   sue   sanzioni,   a   produrre
conseguenze lesive dell'autostima personale e professionale e  quindi
a mortificare una situazione esistenziale della persona. 
    Se e' vero, pertanto, che il  procedimento  disciplinare  produce
conseguenze economiche e mortificazioni esistenziali, questi  effetti
possono senz'altro essere posti sullo stesso piano (se non superiore)
di quello su cui si apprezzano gli effetti di un procedimento civile,
o amministrativo; o, quanto meno, non si e' in  grado  di  apprezzare
una marcata e sostanziale differenza, da questo punto di vista, tra i
vari tipi di procedimento a tal punto significativa  da  giustificare
il diverso trattamento. 
    La scelta del legislatore di riconoscere al soggetto patteggiante
il pieno diritto alla prova nel giudizio civile ed amministrativo  e,
per contro, di negarlo (e con  esso  il  diritto  di  difesa)  in  un
contesto processuale che assume una rilevanza anche superiore perche'
involge beni fondamentali della  persona,  appare,  anche  in  questa
prospettiva, contrastare col canone di ragionevolezza di cui all'art.
3, secondo comma, della Costituzione. 
    (ii) Le considerazioni teste' formulate, peraltro, si prestano ad
essere  valorizzate  anche  sub  specie  di  violazione  del  diritto
costituzionale di difesa (art. 24 della Costituzione) e del principio
del giusto processo, declinabile in questo caso  nella  garanzia  del
contraddittorio (art. 111, secondo comma della Costituzione); e cio',
da un lato, tenuto conto della  natura  appieno  giurisdizionale  del
procedimento  disciplinare  che  si  svolge  innanzi   al   Consiglio
Nazionale Forense, dall'altro della natura  (anche)  di  giudice  del
merito di quest'ultimo, il  che  gli  consente  -  come  visto  -  di
assumere  tutte  le  iniziative  istruttorie  giudicate  opportune  e
necessarie. 
    Ne'  si  potrebbe  obiettare   che,   essendo   la   regola   del
contraddittorio, per certi  versi,  disponibile  anche  nel  processo
penale (art. 111, quinto comma, della Costituzione),  con  la  scelta
del  rito  premiale  ex  art.  444  c.p.p.,  l'imputato  vi   avrebbe
implicitamente rinunciato a valere  per  il  successivo  procedimento
disciplinare; invero, la rinuncia ex art. 111,  quinto  comma,  della
Costituzione  non  puo'  che  configurarsi  come  atto   espresso   e
consapevole e riferito al contesto (processuale) in  cui  detto  atto
viene compiuto; non vi puo' pertanto essere spazio per un'abdicazione
implicita maturata in un contesto autonomo  e  separato  rispetto  al
procedimento disciplinare qual e' quello della giurisdizione penale.