Sentenza 
nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  405,  comma
1-bis, del codice di procedura penale,  aggiunto  dall'art.  3  della
legge 20 febbraio 2006, n.  46  (Modifiche  al  codice  di  procedura
penale,  in   materia   di   inappellabilita'   delle   sentenze   di
proscioglimento), promosso dal Giudice per  le  indagini  preliminari
del Tribunale di Forli' nel procedimento penale a carico di  L.R.  ed
altri, con ordinanza del 22 novembre 2007,  iscritta  al  n.  72  del
registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 13, 1ª serie speciale, dell'anno 2008. 
    Udito nella Camera di consiglio del 28 gennaio  2009  il  giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
                          Ritenuto in fatto 
    Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice per le  indagini
preliminari del Tribunale di Forli' ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione,  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 405, comma 1-bis, del codice di
procedura penale, aggiunto dall'art. 3 della legge 20 febbraio  2006,
n. 46 (Modifiche  al  codice  di  procedura  penale,  in  materia  di
inappellabilita' delle sentenze di  proscioglimento),  in  forza  del
quale «il pubblico ministero,  al  termine  delle  indagini,  formula
richiesta di archiviazione  quando  la  Corte  di  cassazione  si  e'
pronunciata  in  ordine  alla  insussistenza  dei  gravi  indizi   di
colpevolezza, ai sensi dell'articolo 273, e non sono stati acquisiti,
successivamente, ulteriori elementi a carico della persona sottoposta
alle indagini». 
    Il giudice rimettente riferisce che  -  nell'ambito  di  un  piu'
ampio procedimento penale, dal quale era derivato,  per  separazione,
il procedimento a quo - la Corte di cassazione, con quattro  sentenze
emesse tra il 21 giugno e  il  26  luglio  2005,  aveva  rigettato  i
ricorsi del pubblico ministero avverso le ordinanze del Tribunale  di
Bologna, con cui erano  state  annullate  in  sede  di  riesame,  per
carenza  dei  gravi  indizi  di  colpevolezza,  le  misure  cautelari
applicate ad alcune delle persone sottoposte alle indagini. I ricorsi
del pubblico ministero erano stati respinti, a seconda  dei  casi,  o
perche' basati su valutazioni attinenti al merito,  inammissibili  in
sede di legittimita'; o per la ritenuta  infondatezza  delle  censure
mosse alla motivazione del provvedimento impugnato;  ovvero,  ancora,
per entrambe le ragioni ora indicate. 
    Poiche', in tutti i casi, la Corte di cassazione - confermando la
decisione del tribunale del riesame - si era «pronunciata  in  ordine
alla  insussistenza  dei  gravi  indizi  di  colpevolezza,  ai  sensi
dell'art.  273»  cod.  proc.  pen.,   il   pubblico   ministero,   in
applicazione del comma  1-bis  dell'art.  405  del  medesimo  codice,
aggiunto dall'art. 3 della legge n.  46  del  2006,  aveva  formulato
richiesta di archiviazione: rappresentando, tuttavia, che in  assenza
di tale disposizione egli avrebbe chiesto il rinvio a giudizio  degli
indagati e  denunciando  altresi'  il  contrasto  della  disposizione
stessa con il principio di ragionevolezza, di cui all'art. 3 Cost. 
    Ad avviso del giudice a quo, il comma 1-bis  dell'art.  405  cod.
proc.  pen.  violerebbe  non  soltanto  il  parametro  costituzionale
evocato dalla pubblica accusa, ma anche gli artt. 111, secondo comma,
e 112 Cost. 
    La disposizione impugnata determinerebbe, in specie, «un'indebita
dilatazione [...] della valutazione dei gravi indizi di  colpevolezza
effettuabile, in sede di legittimita', in punto di misure cautelari».
Per consolidata giurisprudenza,  infatti,  la  valutazione  del  peso
probatorio degli indizi, ai fini dell'adozione delle misure cautelari
personali, e' compito riservato al giudice del merito e  puo'  essere
contestata, con ricorso per cassazione, unicamente sotto  il  profilo
della sussistenza, adeguatezza e logicita' della motivazione. 
    La  norma  sottoposta  a  scrutinio  trascurerebbe,  dunque,   la
circostanza che il sindacato della Corte di cassazione in  ordine  ai
gravi indizi di colpevolezza,  richiesti  dall'art.  273  cod.  proc.
pen., e' sempre vincolato alle risultanze  investigative  considerate
dal giudice di merito e delle quali si da'  conto  nel  provvedimento
impugnato: con la conseguenza che detto sindacato  non  comporterebbe
di necessita' la  considerazione  di  tutti  gli  elementi  indiziari
acquisiti nel corso delle indagini, in quanto il giudice  del  merito
potrebbe  averne  trascurati  alcuni  nel  ragionamento  seguito.  Il
pubblico   ministero   non   potrebbe   essere   privato,   tuttavia,
dell'opportunita' di far valere tali risultanze, non considerate, nel
seguito del procedimento, anzitutto mediante la richiesta di rinvio a
giudizio o la citazione a giudizio. 
    Sotto diverso profilo, poi,  la  regola  dettata  dall'art.  405,
comma 1-bis, cod. proc. pen.  non  terrebbe  conto  della  differenza
intercorrente tra gli  elementi  che  giustificano  la  richiesta  di
rinvio a giudizio o la citazione a giudizio  e  i  gravi  indizi  che
legittimano l'applicazione di una misura cautelare. Questi -  dovendo
risultare  idonei   a   fondare,   secondo   la   giurisprudenza   di
legittimita',  un  giudizio   di   qualificata   probabilita'   sulla
responsabilita' dell'indagato in  ordine  ai  reati  addebitatigli  -
avrebbero, infatti, una maggiore «pregnanza» dei primi:  e  cio',  in
considerazione sia della diversa fase  del  procedimento  in  cui  le
misure  cautelari  ordinariamente  intervengono  (e,  cioe',  «quella
iniziale delle indagini preliminari»); sia della gravita'  intrinseca
delle misure stesse,  le  quali  sono  applicate  a  prescindere  dal
contraddittorio tipico del giudizio. 
    Per tali aspetti, la norma impugnata si rivelerebbe dunque lesiva
tanto dei  principi  di  ragionevolezza  e  di  eguaglianza,  di  cui
all'art. 3 Cost.; quanto del precetto di obbligatorieta'  dell'azione
penale,  enunciato  dall'art.   112   Cost.,   venendo   a   limitare
indebitamente l'autonomia del pubblico  ministero  nell'esercizio  di
tale azione. 
    La circostanza che - ad avviso del rimettente -  la  disposizione
censurata  non  impedisca  comunque  al  giudice  per   le   indagini
preliminari  di  respingere  la  richiesta  di  archiviazione  e   di
disporre, quindi, l'«imputazione coatta», non basterebbe a  fugare  i
dubbi di legittimita' costituzionale.  La  richiesta  «obbligata»  di
archiviazione da parte del pubblico ministero comporterebbe, difatti,
«passaggi   processuali»   che    possono    risultare    privi    di
giustificazione, in contrasto con le esigenze di economia processuale
e con il principio  di  ragionevole  durata  del  processo,  espresso
dall'art. 111, secondo comma, Cost.: quali, in specie, la  fissazione
dell'udienza prevista  dall'art.  409,  comma  2,  cod.  proc.  pen.,
l'imputazione  coatta  o  l'indicazione  di  ulteriori  indagini   da
compiere. Queste, d'altro canto, sarebbero finalizzate  unicamente  a
raccogliere «ulteriori elementi a  carico  della  persona  sottoposta
alle indagini» - conformemente a quanto prevede la norma impugnata  -
con conseguente compromissione anche del principio di  terzieta'  del
giudice, sancito dallo stesso art. 111, secondo comma, Cost. 
                       Considerato in diritto 
    1. - Il Giudice per le  indagini  preliminari  del  Tribunale  di
Forli' dubita della legittimita' costituzionale, in riferimento  agli
artt. 3, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione, dell'art. 405,
comma 1-bis, del codice di procedura  penale,  aggiunto  dall'art.  3
della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura
penale,  in   materia   di   inappellabilita'   delle   sentenze   di
proscioglimento), il quale stabilisce che «il pubblico ministero,  al
termine delle indagini, formula richiesta di archiviazione quando  la
Corte di cassazione si e' pronunciata in  ordine  alla  insussistenza
dei gravi indizi di colpevolezza, ai sensi dell'articolo 273,  e  non
sono stati acquisiti, successivamente, ulteriori  elementi  a  carico
della persona sottoposta alle indagini». 
    Ad  avviso   del   giudice   rimettente,   la   norma   censurata
trascurerebbe  la  circostanza  che  il  sindacato  della  Corte   di
cassazione sulla gravita' indiziaria, richiesta  dall'art.  273  cod.
proc.  pen.,  si  esercita  per  il  tramite  della  motivazione  del
provvedimento impugnato: onde il vaglio del giudice  di  legittimita'
non si estenderebbe necessariamente a tutti  gli  elementi  indiziari
acquisiti nel corso delle indagini, in quanto il  giudice  di  merito
potrebbe  averne  trascurati  alcuni  nello   svolgere   le   proprie
argomentazioni. 
    Sotto diverso profilo, poi, il  legislatore  non  avrebbe  tenuto
conto della differenza tra gli elementi che giustificano la richiesta
di rinvio  a  giudizio  o  la  citazione  a  giudizio  e  quelli  che
legittimano l'applicazione  di  una  misura  cautelare.  I  secondi -
dovendo  risultare  idonei  a  fondare  un  giudizio  di  qualificata
probabilita' di  condanna  dell'indagato -  avrebbero,  infatti,  una
maggiore «pregnanza» dei primi: e cio', in considerazione  sia  della
diversa fase del procedimento in cui le misure cautelari  normalmente
intervengono  (vale  a   dire   «quella   iniziale   delle   indagini
preliminari»); sia della gravita' delle misure stesse, le quali  sono
applicate a prescindere dal contraddittorio tipico del giudizio. 
    Per tali aspetti, la norma impugnata si rivelerebbe lesiva  tanto
dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza, di  cui  all'art.  3
Cost.; quanto del precetto  di  obbligatorieta'  dell'azione  penale,
enunciato dall'art.  112  Cost.,  venendo  a  limitare  indebitamente
l'autonomia del pubblico ministero nelle scelte circa l'esercizio  di
detta azione. 
    La  circostanza  che  -  secondo  l'interpretazione  accolta  dal
rimettente - la disposizione  censurata  non  impedisca  comunque  al
giudice per le indagini preliminari di  respingere  la  richiesta  di
archiviazione   e    di    disporre,    quindi,    la    formulazione
dell'imputazione, non  basterebbe  a  rendere  la  norma  conforme  a
Costituzione.  L'obbligo   del   pubblico   ministero   di   chiedere
l'archiviazione comporterebbe, infatti,  il  dovere  del  giudice  di
compiere attivita' che possono rivelarsi prive di giustificazione, in
contrasto con il principio di ragionevole durata del processo, di cui
all'art. 111, secondo comma, Cost.: quali la fissazione  dell'udienza
prevista dall'art. 409,  comma  2,  cod.  proc.  pen.,  l'imputazione
coatta o l'indicazione di ulteriori indagini  suppletive,  le  quali,
d'altra parte, risulterebbero finalizzate  unicamente  a  raccogliere
altri «elementi a carico della persona sottoposta  alle  indagini»  -
secondo quanto prevede la norma impugnata - con  conseguente  lesione
anche del principio di terzieta' del giudice, enunciato dallo  stesso
art. 111, secondo comma, Cost. 
    2. - In riferimento agli artt. 3 e 112  Cost.,  la  questione  e'
fondata. 
    3. - Introducendo un vincolo legale  del  tutto  innovativo  alle
determinazioni  del  pubblico  ministero  in   punto   di   esercizio
dell'azione  penale,  la  norma  impugnata  stabilisce  che  l'organo
dell'accusa, «al termine delle indagini», debba  formulare  richiesta
di archiviazione allorche' ricorrano due  condizioni:  una  di  segno
positivo, rappresentata dal fatto che  «la  Corte  di  cassazione  si
[sia] pronunciata in ordine alla insussistenza dei  gravi  indizi  di
colpevolezza», ai sensi dell'art. 273 cod.  proc.  pen.;  l'altra  di
segno negativo, costituita dalla circostanza che «non  [siano]  stati
acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico della persona
sottoposta alle indagini». 
    Emerge dai lavori parlamentari - e segnatamente  dalla  relazione
alla proposta di legge n. 5301, i cui contenuti sono  stati  trasfusi
nell'emendamento che ha inserito la disposizione nella  legge  n.  46
del 2006 - che lo scopo della norma sarebbe di evitare,  contrastando
una prassi in assunto diffusa, che il  pubblico  ministero,  pure  in
assenza di  sopravvenienze  investigative,  eserciti  «caparbiamente»
l'azione penale in relazione  a  prospettazioni  accusatorie  la  cui
inconsistenza sarebbe gia' stata acclarata dalla Corte di  cassazione
in occasione dello scrutinio di iniziative cautelari. Si tratterebbe,
in sostanza, di un  rimedio  preventivo,  volto,  per  un  verso,  ad
alleggerire il carico di lavoro dei giudici dell'udienza  preliminare
e del dibattimento; e, per altro verso,  ad  evitare  che  l'indagato
venga inutilmente sottoposto a processo  in  situazioni  nelle  quali
l'esito  liberatorio  risulterebbe  gia'  scontato,  a   fronte   del
«qualificato vaglio» del giudice di legittimita' sulla  insussistenza
della gravita' indiziaria. 
    4. - Nel perseguire tale  obiettivo,  la  disposizione  censurata
pone una regola che rovescia il rapporto fisiologico tra procedimento
incidentale de libertate e procedimento principale. 
    Sino all'introduzione della nuova norma non si era mai  dubitato,
in effetti, che la pronuncia  emessa  in  sede  cautelare,  ancorche'
all'esito  definitivo  di  una  impugnazione,  avesse   una   portata
rigorosamente circoscritta al procedimento incidentale de  libertate,
senza  poter  vincolare  ne'  il  pubblico  ministero,  quanto   alle
determinazioni  relative  all'esercizio  dell'azione  penale  ne'  il
giudice dell'udienza preliminare, ai fini del rinvio a giudizio  ne',
ancora, il giudice del dibattimento, con riguardo alla decisione  sul
merito della regiudicanda  (si  veda,  al  riguardo,  gia'  Corte  di
cassazione, sezioni unite, 12 ottobre 1993, n. 20). 
    Interferenze tra procedimento cautelare e procedimento principale
erano considerate ammissibili solo in direzione inversa,  sulla  base
del cosiddetto principio di assorbimento: nel senso,  cioe',  che  il
raggiungimento di certi stadi decisori  nel  procedimento  principale
era  idoneo  ad  incidere  in  modo  preclusivo  -  positivamente   o
negativamente - sulla verifica del fumus commissi delicti,  richiesto
ai fini dell'applicazione delle misure cautelari personali (si  veda,
al riguardo, la sentenza di questa Corte n. 71 del 1996). 
    Il principio di «impermeabilita» del procedimento principale agli
esiti  del  procedimento  cautelare  ha,  in  effetti,   un   preciso
fondamento logico-sistematico. Esso non discende, difatti, unicamente
dal  rilievo  che  la  valutazione  operata  in  un  procedimento   a
cognizione sommaria e a carattere accessorio, quale quello cautelare,
non puo', in linea logica, condizionare gli sviluppi del procedimento
a cognizione piena cui  il  primo  e'  strumentale.  Detto  principio
rappresenta   anche    e    soprattutto    il    naturale    riflesso
dell'impostazione accusatoria del vigente codice di rito, che riserva
alla   fase   processuale   l'accertamento   della    responsabilita'
dell'imputato. Tale impostazione rinviene oggi un esplicito referente
costituzionale nei principi del «giusto processo» enunciati dall'art.
111 Cost., e segnatamente in quello per cui la  prova  si  forma  nel
contraddittorio tra le parti,  salve  le  eccezioni  prefigurate  dal
quinto comma del medesimo articolo. 
    L'esclusione di effetti condizionanti del giudizio cautelare  sul
procedimento principale vale difatti a scandire, salvaguardandola, la
distinzione tra la fase delle indagini preliminari - nella quale  non
opera il principio del contraddittorio nella formazione della  prova,
come non opera in genere per l'applicazione delle misure cautelari  -
e quella del processo. Essa trova significativa eco, altresi',  nella
necessaria diversita' fra il giudice dell'incidente  cautelare  e  il
giudice  chiamato  a  pronunciarsi   sul   merito   dell'imputazione,
conseguente al regime delle  incompatibilita'  (art.  34  cod.  proc.
pen., quale risultante a seguito degli interventi di questa Corte). 
    5. - Con la norma impugnata, viceversa, il legislatore  riconosce
a  determinate  pronunce  emesse  in  sede   cautelare   un'efficacia
preclusiva sul procedimento principale. Piu' in particolare, la norma
attribuisce a talune ipotesi «qualificate»  di  cosiddetto  giudicato
cautelare (sentenze  della  Corte  di  cassazione  sull'insussistenza
della gravita' indiziaria) una  valenza  condizionante  che  -  lungi
dall'esaurirsi (secondo la  corrente  elaborazione  giurisprudenziale
del suddetto istituto)  nel  mero  impedimento  alla  riproposizione,
rebus sic stantibus, di istanze al giudice della  cautela  basate  su
motivi gia' dedotti - viene ad incidere sulla stessa possibilita'  di
apertura del  processo,  inibendo  l'atto  di  esercizio  dell'azione
penale. 
    Significativa, riguardo all'intento di  configurare  una  vera  e
propria preclusione, e' la collocazione della  norma  all'interno  di
quelle dell'art. 405 del codice  di  rito  che  disciplinano  proprio
l'«inizio dell'azione penale». 
    Sul  tema  va  osservato  che,  sebbene  non  possa   escludersi,
pregiudizialmente ed in assoluto, la compatibilita' costituzionale di
disposizioni che, in particolari frangenti o per particolari aspetti,
agiscano  nella  direzione  considerata,  e'  tuttavia  evidente  che
l'inversione dell'ordinario rapporto  tra  procedimento  cautelare  e
procedimento principale debba esprimersi in una regola rispondente  a
solidi canoni di razionalita', quanto a  presupposti  ed  effetti:  e
cio', avuto specificamente riguardo al fondamento di detto  rapporto,
quale dianzi evidenziato. 
    L'esigenza di razionalita' risulta,  d'altra  parte,  ancor  piu'
pregnante allorche' l'intervento si traduca, come nella situazione in
esame,  in  una  previsione  impeditiva  dell'esercizio   dell'azione
penale. Secondo quanto piu'  volte  affermato  da  questa  Corte,  il
principio di obbligatorieta' dell'azione penale,  espresso  dall'art.
112  Cost.,  non  esclude   che   l'ordinamento   possa   subordinare
l'esercizio  dell'azione  a  specifiche  condizioni  (tra  le  altre,
sentenze n. 114 del 1982 e n. 104 del  1974;  ordinanza  n.  178  del
2003). 
    Affinche' l'art. 112 Cost. non sia compromesso, tuttavia,  simili
canoni debbono risultare intrinsecamente  razionali  e  tali  da  non
produrre disparita' di trattamento fra situazioni analoghe:  e  cio',
alla luce dello stesso  fondamento  dell'affermazione  costituzionale
dell'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale, come elemento
che concorre  a  garantire  -  oltre  all'indipendenza  del  pubblico
ministero  nello  svolgimento  della  propria  funzione  -  anche   e
soprattutto l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla  legge  penale
(sentenze n. 88 del 1991 e n. 84 del 1979). 
    6. - La regola dettata dall'art. 405,  comma  1-bis,  cod.  proc.
pen. si presenta, al contrario,  di  per  se'  irragionevole  per  un
triplice ordine di profili. 
    6.1. - Il primo e fondamentale di essi risiede  nella  diversita'
tra le regole di giudizio che presiedono alla cognizione cautelare  e
quelle che legittimano l'esercizio dell'azione penale. 
    In  ambito  cautelare,  la  valutazione  dei  «gravi  indizi   di
colpevolezza» implica, infatti - per  consolidata  giurisprudenza  di
legittimita' e come affermato, in piu'  occasioni,  anche  da  questa
Corte (sentenze n. 131 del 1996 e n. 432 del 1995; ordinanza  n.  314
del 1996) -  un  giudizio  prognostico  di  elevata  probabilita'  di
colpevolezza, giudizio peraltro di tipo «statico», in  quanto  basato
sui  soli  elementi  gia'  acquisiti  dal   pubblico   ministero   ed
essenzialmente funzionale agli scopi della misura, vale a  dire  alla
soddisfazione delle  esigenze  cautelari  allo  stato  degli  atti  e
durante il procedimento. 
    Di contro, alla luce dell'art. 125 disp. att. cod. proc.  pen.  -
secondo  cui  il  pubblico  ministero  chiede   l'archiviazione   per
infondatezza della notizia di reato  quando  gli  elementi  acquisiti
«non sono idonei a sostenere l'accusa in  giudizio»  -  la  decisione
sull'esercizio dell'azione penale si  fonda  su  una  valutazione  di
utilita' del passaggio alla fase processuale: valutazione a carattere
«dinamico»,  che  tiene  conto  anche  di   quanto   puo'   ritenersi
ragionevolmente acquisibile nella  fase  dibattimentale,  quale  sede
istituzionalmente  preordinata  alla  formazione  della   prova   nel
contraddittorio delle parti e, dunque, ad un possibile  sviluppo,  in
chiave  probatoria  e  ai  fini  della  decisione  di  merito   sulla
regiudicanda, degli elementi raccolti in fase investigativa. In altre
parole, la valutazione di tali elementi ha luogo «non nell'ottica del
risultato  dell'azione,  ma  in  quella  della  superfluita'   o   no
dell'accertamento  giudiziale»  e  dei  suoi   precipui   obbiettivi,
rappresentando «la traduzione in chiave accusatoria del principio  di
non superfluita' del processo» (sentenza n. 88  del  1991;  in  senso
analogo, sentenze n. 478 e n. 319 del  1993,  ordinanza  n.  252  del
1991). 
    A causa della diversita' dei valori in gioco -  limitazioni  alla
liberta' personale a fini cautelari, da un  lato,  e  apertura  della
fase processuale ai fini del giudizio  di  merito,  dall'altro  -  la
gravita' indiziaria  richiesta  dall'art.  273  cod.  proc.  pen.  si
propone come un criterio il cui metro di accertamento  e'  eterogeneo
rispetto a quello della sostenibilita' dell'accusa in  giudizio:  per
certi aspetti anche piu' rigoroso, per certi altri  piu'  debole,  in
ragione sia della possibilita' che  taluni  degli  atti  di  indagine
unilateralmente acquisiti dalla polizia giudiziaria  o  dal  pubblico
ministero  e  considerati   per   la   misura   cautelare   risultino
inutilizzabili in sede di giudizio, sia  per  l'eventualita'  che  la
loro valenza e il loro significato cedano o si trasformino, in uno  o
altro senso,  attraverso  la  dialettica  dell'assunzione  probatoria
dibattimentale. 
    Gli esiti delle due valutazioni (per la cautela e  per  l'azione)
possono bensi' coincidere in concreto: ma possono anche darsi ipotesi
nelle quali la mancanza dei gravi indizi non implica l'inutilita' del
processo, intesa come insostenibilita' dell'accusa in giudizio; cosi'
come, a rovescio, ipotesi in cui la prognosi di colpevolezza, sottesa
alla ritenuta gravita' indiziaria, non trovi  poi  corrispondenza  in
una condanna legittimata dalle prove acquisite nel dibattimento. 
    Proprio in tale prospettiva, questa Corte  (sentenza  n.  71  del
1996) dichiaro' costituzionalmente illegittimi, per violazione  degli
artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost.,
gli artt. 309 e 310 cod. proc. pen., nella parte in cui - secondo  la
costante interpretazione adottata all'epoca dalla  giurisprudenza  di
legittimita' - precludevano al  giudice  dell'impugnazione  cautelare
(riesame o appello) il controllo sulla sussistenza dei  gravi  indizi
di colpevolezza, allorche' nei confronti della persona colpita  dalla
misura fosse stato emesso il decreto  che  dispone  il  giudizio.  La
Corte osservo', difatti, che  la  delibazione  sottesa  al  rinvio  a
giudizio e'  eterogenea  rispetto  all'apprezzamento  della  gravita'
indiziaria,  non  sviluppandosi  secondo  un  canone  prognostico  di
colpevolezza o di innocenza, ma attenendo soltanto  alla  «necessita'
del dibattimento». Il decreto che  dispone  il  giudizio  non  poteva
ritenersi, quindi, «assorbente» rispetto alla valutazione  dei  gravi
indizi di colpevolezza: con la conseguenza che precludere l'esame  di
questi  ultimi  nelle  impugnazioni  de   libertate   equivaleva   ad
introdurre nel sistema un limite «irragionevolmente discriminatorio e
... gravemente lesivo del diritto di difesa». 
    Questa conclusione resta valida anche dopo la legge  16  dicembre
1999, n. 479: l'arricchimento dei contenuti dell'udienza  preliminare
e la modifica dell'art. 425 cod. proc. pen., operati da  detta  legge
(che ha mutato,  altresi',  i  presupposti  di  accesso  al  giudizio
abbreviato,  sopprimendo  il  requisito  del  consenso  del  pubblico
ministero), non escludono, infatti,  che  la  valutazione  dei  gravi
indizi  di  colpevolezza  abbia  tuttora   «ben   altra   consistenza
qualitativa e quantitativa rispetto alla  regula  iuris  propria  del
rinvio a giudizio» (Cassazione, sezioni unite, 30  ottobre  2002,  n.
39915). 
    La disposizione impugnata con l'ordinanza in epigrafe e'  venuta,
nella sostanza, a riproporre - per cosi' dire, «a rime  invertite»  -
il medesimo assetto gia' censurato dalla citata sentenza  n.  71  del
1996.  Essa  impone,  difatti,  al  pubblico  ministero  di  chiedere
l'archiviazione a fronte dell'accertamento, operato da  altro  organo
giudiziario  in  sede  cautelare,  di  una  situazione  probatoria  -
l'insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza - che, di  per  se',
non lo obbligherebbe necessariamente all'inazione. 
    L'innesto sull'art. 405 cod. proc.  pen.,  volto  a  cambiare  le
regole di giudizio che presiedono all'archiviazione  e  all'esercizio
dell'azione penale  per  farle  coincidere  con  quelle  proprie  del
giudizio cautelare, si pone nella prospettiva di una vera  e  propria
modifica di sistema, idonea a svuotare di significato  l'accertamento
dibattimentale dell'accusa e, quindi, lo stesso impianto  del  codice
di rito del 1988; e cio', in palese contraddizione logico-sistematica
con le previsioni degli artt. 425 cod. proc. pen. e  125  disp.  att.
cod. proc.pen., peraltro non toccate dalla riforma. 
    6.2. - Sotto un secondo profilo, la  norma  censurata  si  rivela
incongruente in  quanto  trascura  la  diversita',  strutturata  come
fisiologicamente  possibile,  della   base   probatoria   delle   due
valutazioni a confronto. 
    Il pubblico ministero fruisce, infatti - pacificamente  -  di  un
potere selettivo riguardo agli  elementi  da  sottoporre  al  giudice
della cautela (salvo che per quelli a favore dell'imputato: art. 291,
comma 1, cod. proc. pen.): potere che trova il suo metro di esercizio
nel vaglio comparativo tra gli  interessi,  talora  confliggenti,  ad
ottenere  la  misura  richiesta  e,  nello  stesso   tempo,   a   non
pregiudicare, con una prematura e ampia  rivelazione  degli  elementi
acquisiti,  le  indagini  ancora  in   corso,   specialmente   quelle
riguardanti piu' indagati e piu' ipotesi d'accusa. Al  contrario,  le
determinazioni  inerenti  all'esercizio  dell'azione  penale  debbono
essere prese sulla base di tutto il materiale investigativo. 
    Ne deriva che la decisione de libertate della Corte di cassazione
puo' fondarsi su un panorama probatorio diverso e anche piu'  ridotto
rispetto a quello da sottoporre al giudice per il controllo su quelle
determinazioni. La circostanza, tuttavia, che il  pubblico  ministero
fosse gia' in possesso di altri elementi, oltre a quelli vagliati  in
sede di gravame cautelare, atti a dimostrare -  eventualmente,  anche
in modo evidente - la fondatezza della notitia criminis, non varrebbe
ad escludere, ai sensi della  disposizione  censurata,  l'obbligo  di
chiedere   comunque   l'archiviazione:   la   norma   e',    difatti,
assolutamente inequivoca nello stabilire che la pronuncia della Corte
di cassazione  resta  priva  di  efficacia  preclusiva  solo  qualora
l'ulteriore materiale d'accusa sia stato acquisito  «successivamente»
ad essa. Con la conseguenza che la selezione del  materiale  allegato
alla richiesta di misura cautelare, operata  dal  pubblico  ministero
sulla base di un apprezzamento del tutto  discrezionale,  rischia  di
avere - a parita' di situazioni concrete - un  effetto  condizionante
sull'esercizio o meno dell'azione penale. 
    6.3. - In terzo luogo, infine,  va  osservato  che  la  Corte  di
cassazione, quando si pronuncia in materia cautelare, non accerta  in
modo diretto la mancanza del fumus commissi delicti. In ragione delle
caratteristiche proprie del giudizio di legittimita' - non  alterate,
sotto l'aspetto che interessa, dall'ampliamento dei motivi di ricorso
attuato dalla stessa legge n. 46 del 2006 [nuovo art. 606,  comma  1,
lettera e), cod. proc. pen.] - il sindacato de libertate della  Corte
di cassazione, precipuamente in materia di  gravita'  indiziaria,  si
esercita indirettamente mediante il controllo sulla  motivazione  del
provvedimento impugnato (cosi'  come,  del  resto,  e'  avvenuto  nel
procedimento a quo),  del  tutto  residuali  e  comunque  occasionali
essendo le situazioni in cui, invece, puo' direttamente  incidere  su
tale gravita', ad esempio escludendo l'utilizzabilita' di uno o  piu'
degli elementi indiziari valorizzati dal giudice di merito. 
    Cio'  implica  che  l'eventuale  annullamento  del  provvedimento
impugnato non svela automaticamente l'oggettiva inesistenza dei gravi
indizi di colpevolezza:  alcuni  elementi,  benche'  gia'  acquisiti,
potrebbero  non  essere  stati  valorizzati  nella  motivazione   del
provvedimento impugnato, perche' sfuggiti al giudice della cautela  o
perche', piu' semplicemente, egli potrebbe avere  male  motivato  sul
punto. Al riguardo, non puo' in effetti  trascurarsi  la  circostanza
che - almeno per quanto attiene ai profili del fatto -  la  pronuncia
sull'impugnazione cautelare si basa su un  accertamento  a  carattere
sommario,  operato  nel  quadro  di  un  procedimento  caratterizzato
(specie quanto al riesame) da cadenze temporali compresse. 
    7.  -  Tutte  le  considerazioni  sinora  svolte  conducono  alla
conclusione   della   illegittimita'   costituzionale   della   norma
censurata, a nulla rilevando che essa configuri solo una  preclusione
per il pubblico  ministero  all'esercizio  dell'azione  penale  senza
quindi  vincolare  -  secondo  la  corrente  esegesi,  condivisa  dal
rimettente - la valutazione del giudice investito della richiesta  di
archiviazione: il quale, pertanto  -  ove  ritenga  insussistenti  le
ipotesi previste dagli artt. 408 e 411 cod. proc.  pen.  e  dall'art.
125 disp. att. cod. proc. pen. - conserva il potere di respingere  la
richiesta  stessa,  disponendo  che  il  pubblico  ministero   svolga
indagini supplementari o che formuli l'imputazione,  benche'  secondo
le  piu'  lunghe  e  obbligate  cadenze  di  un  percorso  anomalo  e
improprio. 
    La    norma    infatti    altera    la    logica    dell'istituto
dell'archiviazione, che per ratio storica e per il  modo  in  cui  e'
disciplinato, si propone come uno  strumento  di  controllo  volto  a
verificare, in funzione  di  garanzia  dell'osservanza  del  precetto
dell'art. 112 Cost., che  l'azione  penale  non  venga  indebitamente
omessa (si veda, in particolare, la gia' citata sentenza  n.  88  del
1991 di questa Corte): laddove, per contro, nella prospettiva offerta
dalla norma stessa, detto istituto assumerebbe l'opposto obiettivo di
impedire  che  l'azione  penale  venga  inopportunamente  esercitata,
anticipando, in pratica, la funzione di «filtro» che dovrebbe  essere
propria dell'udienza preliminare. 
    Ovviamente, il legislatore ben puo' modificare la fisionomia e la
funzione degli istituti  processuali.  Nella  specie,  tuttavia,  per
piegare l'archiviazione alla diversa logica sopra indicata, la  norma
impugnata fa  venir  meno  la  condizione  minimale  di  coerenza  di
qualsiasi  meccanismo  di  controllo  -  in  virtu'  della  quale  il
parametro di valutazione deve essere il medesimo per  il  controllato
ed il controllore - introducendo  una  irrazionale  frattura  tra  le
regole sulla domanda  e  le  regole  sul  giudizio.  Essa  costringe,
infatti, una parte processuale - il pubblico ministero -  a  chiedere
un provvedimento negatorio del proprio potere di azione anche  quando
e'  ragionevolmente  convinta  che,  alla  stregua  della  regola  di
giudizio  applicabile  dal  giudice,  tale   provvedimento   non   si
giustifichi. A sua volta, il giudice, investito  della  richiesta  di
archiviazione, viene legittimato, in modo altrettanto  paradossale  e
secondo il citato percorso anomalo, ad imporre a detta parte  proprio
la condotta (l'esercizio dell'azione penale) che la norma le vieta di
tenere. 
    Per altro verso, qualora il giudice -  disattendendo  l'eventuale
«segnalazione» contraria (secondo cui, in difetto  della  preclusione
di legge, avrebbe esercitato l'azione) fattagli  (come  nel  caso  di
specie) dall'organo dell'accusa in  contemporanea  con  la  richiesta
coatta di archiviazione - disponesse comunque l'archiviazione stessa,
il pubblico ministero  resterebbe  privo  di  qualsiasi  rimedio;  il
decreto di archiviazione emesso de plano  non  sarebbe,  difatti,  in
alcun modo impugnabile. 
    Si manifesta, di conseguenza, una  ingiustificata  disparita'  di
trattamento  fra  fattispecie  identiche  sul  piano  sostanziale.  A
parita' di condizioni, le scelte del pubblico ministero in  punto  di
iniziative cautelari (richiesta o meno della  misura,  selezione  del
materiale, esaurimento dei gradi di impugnazione)  e  la  motivazione
del provvedimento de libertate  possono  condizionare  l'assetto  del
potere di azione. A  seconda  dei  casi,  l'organo  dell'accusa,  pur
volendosi determinare all'esercizio dell'azione penale non ostante il
«giudicato cautelare» per esso  negativo,  si  trovera'  costretto  a
chiedere l'archiviazione, senza potersi  dolere  in  alcun  modo  del
provvedimento del giudice che la  disponga;  ovvero,  in  difetto  di
proprie  iniziative  cautelari,   potra'   esercitare   senza   alcun
impedimento tale azione: sicche', ove si tratti di reato per il quale
e' prevista la citazione diretta, vedra'  senz'altro  soddisfatta  la
sua pretesa all'instaurazione del processo; mentre, quando si  tratti
di reato per il  quale  e'  prevista  l'udienza  preliminare,  potra'
comunque fruire del diritto di impugnare l'eventuale sentenza di  non
luogo a procedere (art. 428 cod. proc. pen.). 
    In siffatta prospettiva, la richiesta «coatta» di  archiviazione,
prevista dalla disposizione censurata, finisce  per  trasformarsi  in
una sorta di sanzione  extra  ordinem  per  le  iniziative  cautelari
inopportune dell'organo dell'accusa: sanzione peraltro  inaccettabile
sul piano costituzionale,  perche'  discriminante  tra  le  posizioni
degli indagati  in  rapporto  ad  attivita'  addebitabili  all'organo
dell'accusa. 
    8. - Si deve concludere, pertanto, che - a  prescindere  da  ogni
giudizio di opportunita' dell'obiettivo che  il  legislatore  si  era
prefisso - esso e' stato comunque perseguito con strumenti lesivi dei
parametri espressi dagli artt. 3 e 112 Cost. 
    L'art. 405, comma 1-bis, cod. proc. pen. va  dichiarato,  quindi,
costituzionalmente illegittimo. 
    Le residue censure del giudice rimettente, riferite all'art. 111,
secondo comma, Cost.  esclusivamente  con  riguardo  ai  principi  di
ragionevole durata del processo e di terzieta' del  giudice,  restano
assorbite.