ha pronunciato la seguente Sentenza nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 402 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 5 novembre 1998 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di A. G., iscritta al n. 105 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, 1a serie speciale, dell'anno 1999. Udito nella camera di consiglio del 27 settembre 2000 il giudice relatore Gustavo Zagrebelsky. Ritenuto in fatto 1. - Con ordinanza del 5 novembre 1998, la Corte di cassazione ha sollevato questione di costituzionalita' dell'art. 402 cod. pen. (Vilipendio della religione dello Stato), in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione. 2. - Premesse le vicende del giudizio di merito, quanto al fatto storico e quanto alle diverse conclusioni dei giudici di primo grado e di appello, la Corte rimettente sottolinea in primo luogo la rilevanza della questione: si tratta infatti di verificare la legittimita' costituzionale della norma incriminatrice oggetto della contestazione all'imputato. 3. - Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione svolge la motivazione dell'ordinanza attraverso una rassegna del percorso della giurisprudenza costituzionale e delle modifiche normative in tema di reati "di religione". La Cassazione muove dalla prima decisione resa dalla Corte costituzionale sull'art. 402 cod. pen. - sentenza n. 39 del 1965 - con la quale era stata rigettata una questione di costituzionalita', riferita agli artt. 3, 8, 19 e 20 della Costituzione, principalmente sul rilievo che la tutela penale rafforzata della religione cattolica, rispetto alle altre confessioni, trovava giustificazione nella sua connotazione di religione professata dalla maggioranza dei cittadini, e dunque nella maggiore ampiezza e intensita' delle reazioni sociali alle offese che alla stessa religione potessero essere rivolte. La norma penale in argomento - prosegue la Corte rimettente - si riferisce alla "religione dello Stato", una nozione, questa, ripresa dall'art. 1 dello Statuto albertino e ribadita nell'art. 1 del Trattato Lateranense del 1929, che, oltre a essere incompatibile con il principio supremo di laicita' dello Stato (quale emerge dalle sentenze nn. 203 del 1989 e 149 del 1995 della Corte costituzionale), e' stata comunque superata dalle modifiche concordatarie del 1984; il punto 1 del Protocollo addizionale all'accordo di modifica del Concordato, ratificato con la legge 25 marzo 1985, n. 121, infatti, afferma che "si considera non piu' in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano". E ancora a tale riguardo, la Cassazione rileva che la Corte costituzionale ha ritenuto che l'espressione "religione dello Stato" utilizzata nel codice penale, una volta venuta meno la possibilita' di attribuirle l'originario significato, non ha altro senso se non quello di un semplice "tramite linguistico" con il quale viene indicata la religione cattolica (sentenze nn. 925 del 1988 e 440 del 1995). Cio' posto, il giudice rimettente, per argomentare la questione, assume come propri taluni passaggi di piu' recenti decisioni della Corte costituzionale. Nella sentenza n. 329 del 1997, osserva la Cassazione, e' stato messo in rilievo che "secondo la visione nella quale si mosse il legislatore del 1930, alla Chiesa e alla religione cattoliche era riconosciuto un valore politico, quale fattore di unita' morale della nazione. Tale visione, oltre a trovare riscontro nell'espressione "religione dello Stato", stava alla base delle numerose norme che, anche al di la' dei contenuti e degli obblighi concordatari, dettavano discipline di favore a tutela della religione cattolica, rispetto alla disciplina prevista per le altre confessioni religiose, ammesse nello Stato. Questa ratio differenziatrice certamente non vale piu' oggi, quando la Costituzione esclude che la religione possa considerarsi strumentalmente rispetto alle finalita' dello Stato e viceversa (sentenze nn. 334 del 1996 e 85 del 1963, nonche' 203 del 1989)". D'altra parte, prosegue la Cassazione, la giurisprudenza costituzionale ha da tempo abbandonato il criterio "quantitativo" inizialmente utilizzato (ad esempio, nelle sentenze nn. 125 del 1957, 79 del 1958 e 14 del 1973) per giustificare la tutela rafforzata a favore della religione "di maggioranza": gia' nella decisione n. 925 del 1988 si e' affermato che e' "ormai inaccettabile ogni tipo di discriminazione (che si basi) soltanto sul maggiore o minore numero degli appartenenti alle varie confessioni religiose"; mentre la successiva sentenza n. 440 del 1995 ha precisato che "l'abbandono del criterio quantitativo significa che in materia di religione, non valendo il numero, si impone ormai la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza". Da ultimo - conclude la Cassazione - la Corte costituzionale, nella gia' citata sentenza n. 329 del 1997, ha definitivamente escluso la possibilita' di giustificare differenziazioni legislative nella tutela penale del "sentimento religioso", osservando che "la protezione del sentimento religioso e' venuta ad assumere il significato di un corollario del diritto costituzionale di liberta' di religione, corollario che, naturalmente, deve abbracciare allo stesso modo l'esperienza religiosa di tutti coloro che la vivono, nella sua dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai diversi contenuti di fede delle diverse confessioni. Il superamento di questa soglia attraverso valutazioni e apprezzamenti legislativi differenziati e differenziatori, con conseguenze circa la diversa intensita' di tutela, infatti, inciderebbe sulla pari dignita' della persona e si porrebbe in contrasto col principio costituzionale della laicita' o non confessionalita' dello Stato ...: principio che, come si ricava dalle disposizioni che la Costituzione dedica alla materia, non significa indifferenza di fronte all'esperienza religiosa ma comporta equidistanza e imparzialita' della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose". 4. - In tale quadro di riferimento, si delineano, ad avviso della Corte di Cassazione, le seguenti coordinate della questione: a) il venir meno del carattere di religione "di Stato" per la confessione cattolica ha riportato quest'ultima nell'ambito della pari dignita' rispetto a ogni altra confessione, conformemente al disegno costituzionale; b) la Corte costituzionale ha numerose volte sollecitato il legislatore a rimuovere ogni ingiustificata differenza di tutela penale tra la religione cattolica e le altre confessioni; c) il reato di cui all'art. 402 cod. pen. mantiene viceversa una effettiva discriminazione tra confessioni religiose, tutelando esclusivamente la religione cattolica. Ne deriva la necessita' di rimettere al controllo di costituzionalita' la compatibilita' tra la norma penale in discorso e i principi espressi negli artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione. Considerato in diritto 1. - La Corte di Cassazione solleva questione di legittimita' costituzionale dell'art. 402 del codice penale (Vilipendio della religione dello Stato) che punisce con la reclusione fino a un anno "chiunque pubblicamente vilipende la religione dello Stato". Il giudice rimettente dubita che la disposizione in esame, accordando una tutela privilegiata alla sola religione cattolica - gia' religione dello Stato (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del 1997) - violi gli artt. 3 e 8 della Costituzione, cioe' l'eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione e l'eguale liberta' di tutte le confessioni religiose davanti alla legge. 2. - La questione e' fondata. 3. - Posta dal legislatore penale del 1930, la norma impugnata, insieme a tutte le altre che prevedono una protezione particolare a favore della religione dello Stato-religione cattolica, si spiega per il rilievo che, nelle concezioni politiche dell'epoca, era riconosciuto al cattolicesimo quale fattore di unita' morale della nazione. In questo senso, la religione cattolica era "religione dello Stato" - anzi necessariamente "la sola" religione dello Stato (formula risalente all'art. 1 dello Statuto albertino e riportata a novella vita dall'art. 1 del Trattato fra la Santa Sede e l'Italia del 1929): oltre che essere considerata oggetto di professione di fede, essa era assunta a elemento costitutivo della compagine statale e, come tale, formava oggetto di particolare protezione anche nell'interesse dello Stato. Le ragioni che giustificavano questa norma nel suo contesto originario sono anche quelle che ne determinano l'incostituzionalita' nell'attuale. In forza dei principi fondamentali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art. 3 della Costituzione) e di uguale liberta' davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 della Costituzione), l'atteggiamento dello Stato non puo' che essere di equidistanza e imparzialita' nei confronti di queste ultime, senza che assumano rilevanza alcuna il dato quantitativo dell'adesione piu' o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del 1997) e la maggiore o minore ampiezza delle reazioni sociali che possono seguire alla violazione dei diritti di una o di un'altra di esse (ancora la sentenza n. 329 del 1997), imponendosi la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di appartenenza (cosi' ancora la sentenza n. 440 del 1995), ferma naturalmente la possibilita' di regolare bilateralmente e quindi in modo differenziato, nella loro specificita', i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica tramite lo strumento concordatario (art. 7 della Costituzione) e con le confessioni religiose diverse da quella cattolica tramite intese (art. 8). Tale posizione di equidistanza e imparzialita' e' il riflesso del principio di laicita' che la Corte costituzionale ha tratto dal sistema delle norme costituzionali, un principio che assurge al rango di "principio supremo" (sentenze nn. 203 del 1989, 259 del 1990, 195 del 1993 e 329 del 1997), caratterizzando in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di liberta', fedi, culture e tradizioni diverse (sentenza n. 440 del 1995). Queste conclusioni sono progressivamente maturate, pur partendo da proposizioni iniziali per diversi aspetti divergenti (sentenze nn. 79 del 1958; 39 del 1965; 14 del 1973), in concomitanza con significativi e convergenti svolgimenti dell'ordinamento. Il punto 1 del protocollo addizionale all'accordo che apporta modificazioni al Concordato lateranense, recepito con la legge 25 marzo 1985, n. 121, ha esplicitamente affermato il venire meno del principio della religione cattolica come sola religione dello Stato e, con le diverse intese poi raggiunte con confessioni religiose diverse da quella cattolica, si e' messo in azione il sistema dei rapporti bilaterali previsto dalla Costituzione per le altre confessioni. In tale contesto, si e' manifestata la generale richiesta allo Stato di una sua disciplina penale equiparatrice, o nel senso dell'assicurazione della parita' di tutela penale (come e' nel caso dell'art. 1, quarto comma, dell'intesa con l'Unione delle comunita' ebraiche italiane del 27 febbraio 1987), o nel senso che la fede non necessita di tutela penale diretta, dovendosi solamente apprestare invece una protezione dell'esercizio dei diritti di liberta' riconosciuti e garantiti dalla Costituzione (art. 4 dell'intesa con la Tavola valdese del 21 febbraio 1984; preambolo all'intesa con le Assemblee di Dio in Italia del 29 dicembre 1986; preambolo all'intesa con l'Unione cristiana evangelica battista d'Italia del 29 marzo 1993). A fronte di questi svolgimenti dell'ordinamento nel senso dell'uguaglianza di fronte alla legge penale, l'art. 402 del codice penale rappresenta un anacronismo al quale non ha in tanti anni posto rimedio il legislatore. Deve ora provvedere questa Corte nell'esercizio dei suoi poteri di garanzia costituzionale. 4. - Sebbene, in generale, il ripristino dell'uguaglianza violata possa avvenire non solo eliminando del tutto la norma che determina quella violazione ma anche estendendone la portata per ricomprendervi i casi discriminati, e sebbene il sopra evocato principio di laicita' non implichi indifferenza e astensione dello Stato dinanzi alle religioni ma legittimi interventi legislativi a protezione della liberta' di religione (sentenza n. 203 del 1989), in sede di controllo di costituzionalita' di norme penali si da' solo la prima possibilita'. Alla seconda, osta infatti comunque la particolare riserva di legge stabilita dalla Costituzione in materia di reati e pene (art. 25, secondo comma) a cui consegue l'esclusione delle sentenze d'incostituzionalita' aventi valenze additive, secondo l'orientamento di questa Corte (v., in analoga materia, la sentenza n. 440 del 1995). La dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 402 del codice penale si impone dunque nella forma semplice, esclusivamente ablativa.