IL GIUDICE DI PACE Letti gli atti dei procedimenti penali n. 24/09 R.G. Dib., n. 1366/09 R.G. not. reato, a carico di Nakhli Abdessamad, nato in Marocco il 6 marzo 1969 e n. 25/09 R.G. Dib. - n. 1431/09 R.G. Not. reato - a carico di Hajjouj Yussef, nato in Marocco il 4 gennaio 1982; Atteso che i predetti sono entrambi chiamati a rispondere del reato di cui all'art. 10-bis, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, introdotto dall'art. 1, comma 16 legge n. 94/2009, per aver fatto ingresso ovvero per essersi trattenuti nel territorio dello Stato in violazione delle norme in materia di immigrazione commesso, rispettivamente, 1'11 agosto 2009 e il 17 agosto 2009; Atteso che all'udienza del 5 ottobre 2009 il p.m. proponeva eccezione di incostituzionalita' della sopra citata norma e questo Giudicante con ordinanza riteneva non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale, Osserva in particolare quanto segue La legge 15 luglio 2009, n. 94, all'art. 1, comma 16, lettera a) ha introdotto nel «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero» il reato contravvenzionale previsto e punito dall'art. 10-bis del medesimo d.lgs. n. 286/1998 rubricato «Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato» a mente del quale «salvo che il fatto costituisca piu' grave reato, lo straniero che fa ingresso ovvero che si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni dei presente testo unico nonche' di quelle di cui all'art. 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68, e' punito con l'ammenda da 5.000 a 10.000 euro. Al reato di cui al presente comma non si applica l'art. 162 del codice penale [...]». Tale norma va peraltro letta in combinato disposto con l'art. 16, d.lgs. n. 286/1998, all'uopo modificato dalla stesse legge n. 94/2009, il quale prevede, inter alia, la sanzione sostitutiva dell'espulsione dello straniero dai territorio dello Stato irrogabile dal giudice di pace a seguito della sentenza di condanna per il delitto di cui all'art. 10-bis T.U. sull'immigrazione. La fattispecie introdotta con l'art. 10-bis d.lgs. n. 286/1998 manifesta molteplici profili di contrasto con altrettanti principi accolti nella nostra carta costituzionale ed al quali e' opportuno fare riferimento al fine di vagliare la legittimita' costituzionale della norma stessa. 1. - Il nostro ordinamento, in accoglimento del principio cogitationis poenam nemo patitur, recepisce all'art. 25, secondo comma, Cost. il c.d. principio di materialita' in materia penale, in ossequio al quale e' necessario, affinche' possa dirsi legittimo il ricorso alla sanzione penale da parte del legislatore, che la condotta (rectius, il contegno attivo od omissivo) del soggetto agente si materializzi in un comportamento esterno, il quale deve altresi' rivelarsi idoneo a determinare una lesione o, quanto meno, una messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma (c.d. principio di necessaria lesivita' od offensivita'). Appare ictu oculi evidente che la norma in questione difetti di entrambi i requisiti di legittimita' cui si e' fatto rapido riferimento. Ed invero, in primo luogo appare senz'altro irrintracciabile qualsiasi profilo di materialita' della condotta incriminata dall'art. 10-bis posto che la fattispecie incriminatrice, pur sanzionando in apparenza una condotta alternativamente tipizzata nell'azione dell'«ingresso» ovvero nei contegno omissivo del «mancato allontanamento», criminalizza in realta' e semplicemente, in aperto contrasto con gli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost., lo status di clandestino, una mera condizione personale del reo, del quale viene ex lege presunta la pericolosita'. Tale impostazione, pero', come ormai pacificamente riconosciuto nella giurisprudenza tanto della Corte costituzionale quanto di quella di legittimita', e' del tutto impraticabile nel nostro ordinamento costituzionale nel quale non puo' dirsi consentito l'accertamento del disvalore penale del fatto, in via unica o preponderante, in riferimento alle condizioni personali dell'agente (cfr. sul punto l'ampio percorso giurisprudenziale della Consulta con riguardo agli artt. 670, 707 e 708 c.p.); si tratta di un limite che con ogni evidenza vincola e conforma la stessa discrezionalita' propria dell'organo legislativo all'atto della tipizzazione di una nuova fattispecie incriminatrice. 2. - Altrettanto discutibile il contenuto della norma de qua alla luce del principio di necessaria lesivita' ovvero offensivita'; principio che, sebbene non trovi riconoscimento espresso in alcuna delle disposizioni della Costituzione, non di meno si pone come corollario ineludibile a tutti gli altri principi costituzionali che informano la disciplina penalistica, contribuendo a definire la fisionomia del c.d. costituzionalismo penale. Perche' possa dirsi rispettato, il principio di offensivita' richiede che la fattispecie incriminatrice descritta dal legislatore importi una lesione, anche soltanto potenziale nella forma della c.d. messa in pericolo, di un bene giuridico meritevole di tutela con cio' dovendosi intendere, secondo l'interpretazione che appare preferibile, soltanto quel bene giuridico che trovi il proprio riconoscimento diretto o mediato nella Costituzione. Ora, e' oltremodo difficoltoso rintracciare tale lesivita' nella condotta tipizzata nell'art. 10-bis d.lgs. n. 286/1998 che appare formulata in chiave di mera disobbedienza delle norme che regolano il controllo dei flussi migratori. E cio' soprattutto alla luce di talune recenti pronunce della Corte costituzionale intervenute in tema di immigrazione sicuramente attinenti al caso che ci interessa. Prodromiche in tal senso devono considerarsi la sentenza n. 22/2007 la quale ha ritenuto il reato di cui all'art. 14, comma 5-ter del decreto legislativo n. 286/1998 (inottemperanza all'ordine di allontanamento del questore) come una «fattispecie che prescinde da una accertata o presunta pericolosita' dei soggetti responsabili» e la n. 78/2007 nella quale si afferma che «il mancato possesso di titolo abilitativo alla permanenza nello Stato» rappresenta un elemento «che di per se' non e' univocamente sintomatico di una particolare pericolosita' sociale» del soggetto agente e che «l'ingresso o la presenza illegale del singolo straniero non rappresentano, di per se', fatti lesivi di beni meritevoli di tutela penale, ma sono l'espressione di una condizione individuale, la condizione di migrante: la relativa incriminazione, pertanto, assume un connotato discriminatorio ratione subiecti contrastante non solo con il principio di eguaglianza, ma con la fondamentale garanzia costituzionale in materia penale, in base alla quale si puo' essere puniti solo per fatti materiali». 3. - Uno degli elementi di maggior contrasto con il principio costituzionale di colpevolezza ed esigibilita' ricavabile dall'art. 27 Cost., cosi' come interpretato dalla Consulta a far luogo dalla celebre pronuncia n. 364/88, attiene la mancata previsione all'interno della fattispecie di' cui all'art. 10-bis del d.lgs. n. 286/1998 e contrariamente a quanto previsto nell'analoga ipotesi delittuosa di cui all'art. 14, comma 5-ter dello stesso decreto legislativo n. 286/1998, di «giustificati motivi» che potrebbero legittimare, senza dar luogo ad una scriminante in senso proprio, la presenza dello straniero clandestino sul territorio dello Stato. Si tratta di questione la cui rilevanza si manifesta assorbente e preponderante, anche in ragione delle perplessita' sollevate sul punto da parte del Presidente della Repubblica nella lettera inviata al Presidente dei Consiglio dei ministri ed ai Presidenti delle Camere in data 15 luglio 2009 nella quale si legge «suscita in me forti perplessita' la circostanza che la nuova ipotesi di trattenimento indebito non prevede l'esimente della permanenza determinata da "giustificato motivo''.». Ancora una volta, peraltro, ci soccorrono talune pronunce della Corte costituzionale dalle quali occorre prendere le mosse al fine di valutare la tenuta costituzionale della norma oggetto di disamina in questa sede. In particolare, gia' la pronuncia n. 5/2004 chiariva come la formula «senza giustificato motivo» e formule ad essa equivalenti compaiano con particolare frequenza nel corpo di norme incriminatrici (ad es., artt. 616, 618 c.p., art. 108, decreto del Presidente della Repubblica n. 361/1957) per fungere da «valvola di sicurezza» del meccanismo repressivo, evitando che la sanzione penale scatti allorche' l'inosservanza del precetto appaia concretamente inesigibile in ragione di situazioni ostative a carattere oggettivo o soggettivo astrattamente configurabili in molteplici situazioni quali l'assoluta carenza da parte dello straniero del mezzi di natura economica necessari per procurarsi il titolo di viaggio, l'assenza di collegamento aereo con Stati nei quali e' in atto un conflitto armato, ovvero ancora l'assenza dei documenti necessari per il rimpatrio (ipotesi, questa, tutt'altro che infrequente soprattutto avuto riguardo alla fattispecie ex art. 10-bis, d.lgs. n. 286/1998), ecc. La Corte costituzionale, nella gia' citata sentenza n. 22/2007 e sempre con riferimento alla fattispecie omologa a quella oggetto di censura in questa sede rappresentata dall'art. 14, comma 5-ter del decreto legislativo n. 286/1998, ha affermato che la formula «senza giustificato motivo». «copre tutte le ipotesi di impossibilita' o di grave difficolta' che, pur non integrando cause di giustificazione in senso tecnico, impediscono allo straniero di prestare osservanza all'ordine di allontanamento nei termini prescritti» e si giustifica, come emerge dalla motivazione della pronuncia richiamata, in ragione della formulazione estremamente limitata del precetto. Da sottolineare che la stessa giurisprudenza di legittimita' si e' prontamente adeguata a tale impostazione riconoscendo rilevanza «esimente» non soltanto all'assenza di validi documenti per l'espatrio, ma anche a quella di denaro necessario per il viaggio e a tutte le ulteriori situazioni per cui l'immigrato si trovi senza colpa nell'impossibilita' oggettiva o soggettiva di adempiere l'ordine del Questore (cfr. ex multis, Cass. pen. 31117/2004, Cass. pen. 30774/2006, Cass. pen. 8 febbraio 2008). Alla luce dell'iter giurisprudenziale richiamato, non puo' che evidenziarisi l'assoluta illegittimita' costituzionale della fattispecie qui oggetto di censura nella parte in cui omette radicalmente qualsiasi riferimento all'eventuale presenza di motivi ostativi all'osservanza del precetto. L'impostazione intransigente voluta dal legislatore impone un intervento correttivo ad opera del Giudice delle leggi per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione in conformita' alle proprie precedenti pronunce n. 5/2004 e 22/2007. 4. - Profili ulteriori di contrasto con la Costituzione e segnatamente con l'art. 3, concernono il profilo della ragionevolezza della scelta legislativa di criminalizzare l'ingresso e la permanenza di clandestini nel territorio dello Stato e questo per un molteplice ordine di motivi. Il principio di sussidiarieta' o extrema ratio che caratterizza il sistema penale impone di ricorrervi quando nessun altro strumento, civile o amministrativo, si dimostri idoneo alla tutela della fattispecie protetta dalla norma incriminatrice. Dalla lettura congiunta degli artt. 10-bis e 16 (come modificato dalla legge n. 94/2009) d.lgs. n. 286/1998, emerge chiaramente che l'unico scopo autenticamente perseguito dal legislatore con l'introduzione del nuovo reato di clandestinita' sia esclusivamente quello dell'allontanamento dello straniero irregolare dal territorio dello Stato. E' tuttavia lecito dubitare che una tale finalita' abbisognasse di una incriminazione ad hoc, posto che lo stesso obiettivo - prima della novella intervenuta da ultimo - risultava gia' perfettamente assolto dalla disciplina contenuta all'art. 13 del T.U. immigrazione con il ricorso a sanzioni di natura amministrativa. Se cosi' e', l'ulteriore violazione dell'art. 27 Cost. puo' essere agevolmente rintracciata nell'uso distorto della sanzione penale da parte del legislatore, impiegata in ultima analisi per finalita' di esclusiva deterrenza (rectius, prevenzione generale c.d. negativa) con contestuale ed evidente strumentalizzazione del singolo per finalita' di politica criminale. L'art. 27 della Cost. viene ulteriormente in gioco con riferimento al carattere necessariamente personale della responsabilita' penale. La norma oggetto di censura in questa sede, infatti, nel condizionare la punibilita' del fatto in dipendenza della mera discrezionalita' o disponibilita' di mezzi da parte dell'autorita' amministrativa, sembra disinteressarsi totalmente alla presenza di una condotta cosciente e volontaria del soggetto agente. Semplificando, si puo' osservare come la norma, a parita' di condotta materiale tenuta dall'agente (id est, ingresso o permanenza illegale nel territorio dello Stato), distingua ai fini della punibilita' fra quanti siano stati destinatari di una espulsione in via amministrativa (ed in tal caso andra' pronunciata sentenza di non luogo a procedere) e quanti, in assenza di un tale provvedimento amministrativo, diventeranno destinatari di una sentenza penale di condanna con tutte le ulteriori conseguenze sostanziali e processuali che questa reca con se'. In questo modo, pero', la responsabilita' penale degli imputati viene a dipendere da circostanze completamente estranee alla loro sfera di dominio con cio' dando luogo ad una responsabilita' che non puo' dirsi «personale» e che pertanto contrasta con l'art. 27 Cost. come interpretato dai Giudice delle leggi. I profili di irragionevolezza contrastanti con l'art. 3 della Costituzione non possono certo dirsi appianati per avere il legislatore previsto, alternativamente alla sanzione sostitutiva dell'espulsione, la pena dell'ammenda da 5.000 a 10.000 sottratta, comunque, alla sospensione condizionale della pena (trattandosi di giudizio di competenza del Giudice di pace) e all'oblazione ex art. 162 c.p. Appare in tutta evidenza come si tratti di sanzione priva della benche' minima effettivita' per la pressoche' totale insolvibilita' degli imputati, oltre che di qualsivoglia efficacia deterrente e funzione rieducativa con l'unico effetto «collaterale» di sicuro sovraccarico del sistema giudiziario. Esiste, altresi', una conseguenza ancora piu' irrazionale ed irragionevole derivante dall'impianto caratterizzante la norma di cui all'art. 10-bis, d.lgs. n. 286/1998: la pena edittale dell'ammenda come comminata, seppur non suscettibile di applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena nonche' dell'estinzione per oblazione ex art. 162 c.p., risulta in ogni caso meno afflittiva dell'eventuale sanzione sostitutiva della espulsione dal territorio dello Stato per un periodo non inferiore a cinque anni, con cio' determinando l'unico caso di misura sostitutiva piu' grave della sanzione principale sostituita. Il contrasto con l'art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza e' ancora piu' evidente se solo si riflette su una circostanza. Sino all'intervento della novella, l'espulsione dello straniero come sanzione sostitutiva era applicabile soltanto per pene detentive fino a due anni di reclusione irrogate anche in conseguenza delle diminuenti di rito (patteggiamento, abbreviato, ecc.) e salva in ogni caso l'applicabilita' della sospensione della pena ex art. 163 c.p. Esemplificando: prima dell'intervento del legislatore, un clandestino condannato a tre anni di reclusione, poi ridotti a due per la scelta del rito abbreviato o del patteggiamento, poteva essere destinatario della sanzione sostitutiva dell'espulsione solamente se non ricorressero le condizioni per la sospensione condizionale della pena. Accanto a questa ipotesi, tuttora praticabile, la legge n. 94/2009 consente ora di procedere alla stessa sanzione sostitutiva dell'espulsione per un reato contravvenzionale punito con una sanzione pecuniaria di modesta entita'. L'irragionevolezza manifesta contrastante con l'art. 3 Cost. risiede, allora, nel fatto di rendere applicabile una medesima sanzione sostitutiva (espulsione dello straniero irregolare per un periodo non inferiore a cinque anni) al ricorrere di fattispecie fra loro qualitativamente e quantitativamente incommensurabili: una condanna in concreto fino a due anni nella ipotesi gia' precedentemente prevista ex lege o, dalla novella in poi, nell'ipotesi di condanna alla pena della sola multa per il reato di cui all'art. 10-bis T.U. immigrazione. L'irragionevolezza della scelta operata dal legislatore e' a tal punto evidente da rappresentare uno dei pochi «casi di scuola» al ricorrere dei quali, per stesso riconoscimento della Consulta, alla tessa e' consentito intervenire in funzione di riequilibrio sull'impianto sanzionatorio. Per concludere con i profili di irragionevolezza censurabili per contrasto con l'art. 3 Cost, si consideri, infine, un ultimo rilievo: l'impianto penalistico delle norme contenute nel d.lgs. n. 286/1998 (id est, l'art. 10-bis da un lato e l'art. 14, comma 5-ter dall'altro) configura come fattispecie piu' lieve e sussidiaria proprio quella rappresentata dal nuovo c. d. reato di clandestinita'. Tuttavia, pur trattandosi di reato meno grave e sussidiario rispetto alla fattispecie ex art. 14, comma 5-ter, l'attribuzione della nuova fattispecie alla cognizione del giudice di pace (che preclude la sospensione condizionale della pena) nonche' la possibile applicazione della sanzione sostitutiva dell'espulsione ex art. 16, primo comma, ultimo periodo, T.U. Immigrazione, fanno si' che il trattamento sanzionatorio sia in concreto piu' grave e piu' affittivo per la fattispecie piu' lieve e sussidiaria. E cio' con manifesta violazione dell'art. 3 della Costituzione. 5. - I profili di incompatibilita' costituzionale che si sono sin qui tratteggiati con riferimento alla fattispecie incriminatrice di base sono suscettibili peraltro di generare prassi decisamente inconciliabili con il principio di solidarieta' di cui agli artt. 2 e 3, primo e secondo comma, Cost. allorquando venga ravvisato un eventuale concorso di persone nel reato ex art. 110 c.p. Ed infatti, il combinato disposto degli artt. 10-bis T.U. immigrazione e 110 c.p. finirebbe per intercettare tutte quelle condotte che, seppur animate esclusivamente da finalita' di solidarieta' politica, economica e sociale, si pongano in funzione quantomeno agevolatrice dell'ingresso ovvero dell'intrattenimento nei territorio dello Stato del c.d. clandestino, senza peraltro che il legislatore all'uopo distingua - come in altre ipotesi di favoreggiamento altrove tipizzate - fra persone legate da vincolo di parentela con il soggetto irregolare ovvero in posizione di terzieta'. Gli esiti di una tale combinazione normativa sono peraltro sicuramente incostituzionali per un duplice ordine di ragioni: da un lato ci si troverebbe al cospetto di una norma che vieta, criminalizzandolo, un dovere di solidarieta' sociale imposto dagli artt. 2 e 3 della Costituzione a favore di categorie di individui in condizioni di obiettiva subalternita', difficolta' ed indigenza; dall'altro, per quel che concerne il trattamento sanzionatorio, l'incostituzionalita' deriverebbe dall'applicabilita' della sola sanzione dell'ammenda per il concorrente che pure fosse a conoscenza dello stato di clandestinita' dell'immigrato, residuando la praticabilita' della sanzione sostitutiva dell'espulsione solamente per il soggetto intraneus. 6. - Residua un ultimo profilo di illegittimita' costituzionale della norma censurata stavolta per contrasto con l'art. 117 Cost, primo comma, a mente del quale «la potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali», nonche' con gli stessi principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ai quali l'ordinamento italiano si conforma giusto dispositivo dell'art. 10, primo comma, Cost. Con riferimento al primo dei due profili occorre fare riferimento alle sentenze gemelle della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 2007 le quali hanno concluso sostenendo come l'attuale primo comma dell'art. 117 della Costituzione, cosi' come risulta dalla modifica riguardante il Titolo V della Costituzione intervenuta ad opera della legge costituzionale n. 3/2001, consenta di dichiarare l'incostituzionalita' di una norma interna in contrasto, inter alia, con i vincoli derivanti da obblighi internazionali di fonte pattizia assurgendo quest'ultimi a norme interposte del giudizio di costituzionalita'. Il giudice che si trovi ad applicare una norma interna in apparente contrasto con la normativa internazionale in vigore per l'Italia e' dapprima tenuto, qualora tale soluzione si riveli percorribile, ad interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, residuando, in caso contrario, l'unica possibilita' di sollevare una questione di legittimita' costituzionale per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost. Al riguardo occorre dare atto che il nostro Paese ha sottoscritto nel corso della conferenza di Palermo del 12-15 dicembre 2000 il «Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalita' organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti»; nel relativo documento, all'art. 6, e' stabilito che «ogni Stato Parte adotta misure legislative [...] per conferire il carattere di reato ai sensi del suo diritto interno [...]» ad alcune condotte (traffico di migranti, fabbricazione di falsi documenti di viaggio, fatto di permettere ad una persona che non e' cittadina o residente permanente di rimanere nello Stato interessato senza soddisfare i requisiti necessari per permanere legalmente nello Stato, ecc.), all'art. 5, invece, statuisce che «i migranti non diventano assoggettati all'azione penale fondata sul presente Protocollo per il fatto di essere stati oggetto delle condotte di cui all'art. 6», all'art. 16, inoltre, obbliga gli Stati contraenti a prendere «misure adeguate, comprese quelle di carattere legislativo se necessario, per preservare e tutelare i diritti delle persone che sono state oggetto delle condotte di cui all'art. 6», nonche' a fornire «un'assistenza adeguata ai migranti la cui vita, o incolumita', e' in pericolo dal fatto di essere stati oggetto delle condotte di cui all'art. 6». L'insanabile contrasto delle norme pattizie richiamate con la disciplina interna ex art. 10-bis T.U. immigrazione emerge per tabulas ed e' insuscettibile di ricomposizione mediante l'ausilio dell'interpretazione adeguatrice conforme alla norma di fonte sovranazionale ed impone pertanto, sulla scorta delle due pronunce richiamate, il sollevamento della questione di legittimita' costituzionale da parte del giudice che sia chiamato ad applicarle. Con riferimento ai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ex art. 10 Cost., la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 rappresenta senz'altro un osservatorio privilegiato dal quale estrapolare principi vincolanti per il nostro ordinamento ex art. 10 Cost., e quindi senza la necessita' di una ratifica formale da parte dello Stato. L'art. 13 della Dichiarazione Universale afferma «Ogni individuo ha diritto alla liberta' di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese». Parimenti, il seguente art. 14 chiarisce come «Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalla persecuzioni [...] ed il successivo art. 23 proclama il diritto di ogni individuo alla possibilita' di assicurare a se' e alla propria famiglia un'esistenza conforme alla dignita' umana. Si tratta di disposizioni, assieme ad altre parimenti di fonte internazionalistica, che impediscono al legislatore di ricollegare in ragione della sola condizione di migrante - sia pure non regolare - disciplina e trattamenti deteriori rispetto a quel minimum di garanzie rintracciabili nei cc.dd. principi fondamentali inalienabili e garantiti indifferentemente a ciascuno per il solo fatto di essere «persona». Trattandosi peraltro di disposizioni internazionali generalmente riconosciute la relativa inosservanza andra' sollevata piu' propriamente con riferimento all'art. 10 della Costituzione. Dai rilievi che precedono consegue con chiarezza la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale sollevata. Quanto alla rilevanza della questione ai fini del decidere si evidenzia come i procedimenti penali in epigrafe riguardano in via immediata ed esclusiva l'applicazione della fattispecie contravvenzionale introdotta all'art. 10-bis, d.lgs. n. 286/1998 con possibile applicazione della sanzione sostitutiva dell'espulsione ex art. 16, comma 1, d.lgs. n. 286/1998 e che, nel caso di declaratoria di incostituzionalita', gli imputati andrebbero assolti peri fatti loro ascritti.