IL TRIBUNALE Letti gli atti del procedimento di cui in epigrafe, stralciato in data odierna dal procedimento R.G. n. 535/2004, a carico di: Rubegni Alberto, Silva Carlo, Abbondanza Marco, Piscitelli Valerio, Guagnozzi Giovanni, Zambon Franco, Miola Antonio, Longo Michele, Cece Massimo, Castellani Franco, Meistro Nicola, Frulloni Giulio, Cardu Umberto, Ottaviani Claudio, Marcheselli Pietro Paolo, Gatto Giuseppe, Migliardi Carlo, Monti Climaco, Balest Cristiano, Soccol Giovanni, Polidori Giovanni, Geri Paolo, e Trippi Aldo, imputati tutti del reato di cui agli artt. 110, 81 cpv, 624 e 625 nn. 2, 5 e 7, 61 n. 7 c.p. in relazione all'art. 95 r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, perche', con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in concorso tra loro, ciascuno nelle rispettive qualita' ricoperte nell'arco temporale indicato, al fine di trarne un ingiusto profitto (consistito nell'impiego gratuito di acqua pubblica a servizio delle proprie attivita' di cantiere con particolare riferimento all'impiego di acqua negli impianti di betonaggio e al lavaggio dei mezzi meccanici e in generale all'impiego di acque chiare nelle attivita' di cantiere) si impossessavano di un quantitativo ingente e comunque stimabile in non meno di cinque milioni di metri cubi di acqua pubblica, prelevandola dalle falde sotterranee intercettate durante i lavori di scavo nelle gallerie o estratta mediante perforazione di pozzi battuti allo scopo, ovvero di acqua pubblica superficiale prelevandola dai corsi d'acqua limitrofi ai cantieri in assenza delle prescritte autorizzazioni e concessioni del Genio Civile della Provincia di Firenze. Fatto aggravato: per averlo commesso in piu' di tre persone, avvalendosi anche di numerose maestranze ignare della condotta materiale illecita a cui erano adibiti; per il mezzo fraudolento costituito dalla posa di appositi impianti di pompaggio canalizzazione e tubazione destinate al prelievo; per essere stato commesso su un bene destinato a pubblica utilita'; per avere cagionato un danno patrimoniale di rilevante entita' con grave depauperamento delle risorse idriche del territorio di competenza degli enti pubblici territoriali interessati e seguito specificato, seppure in via approssimativa per ciascun cantiere. Cantiere T12 Osteto: prelievo max di 3 1/sec per un totale massimo di 86.832 mc all'anno dalla apertura del cantiere nel 1998 all'aprile del 2005, con esclusione dell'anno 2001 in cui fu richiesta la concessione. Cantiere T13 Rovigo: prelievo max di 3 1/sec per un totale massimo di 86.832 mc all'anno di apertura del cantiere dal 29 settembre 1997 all'aprile del 2005, con esclusione dell'anno 2001 in cui fu richiesta la concessione. Cantiere T14 S. Pellegrino: prelievo max di 3 1/sec per un totale massimo di 86.832 mc all'anno di apertura del cantiere dal 29 settembre 1997 all'aprile del 2005, con esclusione dell'anno 2001 in cui fu richiesta la concessione. Cantiere T16 Diaterna: prelievo max di 3 l/sec per un totale di 86.832 mc dall'anno 1999 all'aprile del 2005. Cantiere T17 Castelvecchio: prelievo max di 3 1/sec per un totale di 86.832 mc dall'anno di apertura del cantiere del 29 settembre 1997 all'aprile del 2005. Cantiere T5 Carlone: prelievo max di 3 1/sec per un totale di 86.832 mc, dall'anno di apertura del cantiere del 15 maggio 1997 all'aprile del 2005. Cantiere T7 Cardetole: prelievo max di 3 1/sec per un totale di 86.832 mc dall'anno di apertura del cantiere del 15 maggio 1997 all'aprile del 2005. Cantiere T10-bis S. Autodromo: prelievo max di 3 1/sec per un totale di 86.832 mc dall'anno di apertura del cantiere del 15 maggio 1997 all'aprile del 2005. Cantiere T10-ter S. Giorgio: prelievo max di 3 1/sec per un totale di 86.832 mc dall'anno di apertura del cantiere del 15 maggio 1997 all'aprile del 2005. Cantiere T11 Marzano: prelievo max di 3 1/sec per un totale di 86.832 mc dall'anno di apertura del cantiere del 15 maggio 1997 all'aprile del 2005. Cantieri di Sesto Fiorentino il prelievo dell'acqua complessivamente emunta da tre pozzi a servizio dei Cantieri T0, T1 e FT2 dal 1999, in assenza di concessione al prelievo e' di 51.756 mc. Per un totale stimabile in via approssimativa in circa cinque milioni di metri cubi di acque. Condotta criminosa iniziata nel 1997 in Borgo San Lorenzo, Scarperia, San Piero a Sieve Firenzuola, Vaglia e zone limitrofe, proseguita dal 1999 anche in Sesto Fiorentino, e in flagranza di reato al 14 aprile 2005 relativamente ai seguenti cantieri. Cantiere T1 - Sesto Fiorentino - l'acqua viene utilizzata nell'impianto di betonaggio. Cantiere T5 - Vaglia e San Piero a Sieve - l'acqua viene utilizzata per l'impianto di betonaggio sito in comune di Vaglia e nel cantiere sito in comune di San Piero a Sieve per il lavaggio dei mezzi nei pressi dell'officina ed altri usi connessi all'impianto di depurazione. Cantiere T10- bis - Scarperia - E' attivo e funzionante l'impianto di betonaggio che fornisce il calcestruzzo per il tratto di galleria dall'Autodromo del Mugello fino al diaframma verso Osteto. Cantiere T12 - Firenzuola - Il cantiere e' ancora attivo e l'acqua viene utilizzata per l'impianto di betonaggio e per il lavaggio degli automezzi che entrano in galleria. Cantiere T13 - Firenzuola - rimane in funzione l'impianto di betonaggio anche in questo caso, oltre che per il betonaggio, l'acqua e' utilizzata per il lavaggio dei piazzali di cantiere e degli automezzi. Cantiere T16 - Firenzuola - E' attivo l'impianto di betonaggio ed il cantiere. Osserva quanto segue: Nell'ambito delle indagini svolte in relazione ai lavori eseguiti dal Consorzio di imprese CAVET per la realizzazione della tratta ferroviaria di alta velocita' Firenze-Bologna la polizia giudiziaria rilevava numerosi episodi di prelievo di acque sotterranee o di superficie, utilizzate dal Consorzio, o da altre ditte appaltatrici, per la produzione del calcestruzzo e comunque per altri usi di cantiere; acque successivamente, per la parte non trasformata, reimmesse sul territorio. A fronte di tale prelievo ed utilizzo non risultano acquisite agli atti del processo, quantomeno a copertura di tutti i prelievi, le autorizzazioni previste dal d.lgs. n. 152/1999 (legge Galli), qualificandosi pertanto il prelievo e l'utilizzo illeciti, poiche' non sottoposti al regime dei controlli pubblici previsti dalla legge stessa ed al pagamento del canone. Da qui la imputazione elevata dal pubblico ministero di furto di acque pubbliche, continuato ed aggravato, in relazione alla quasi totalita' dei cantieri gestiti direttamente o indirettamente dal Consorzio CAVET. Nella costruzione della accusa la condotta addebitata agli imputati sopra indicati costituirebbe allo stato il delitto di furto, racchiudendone tutti gli elementi costitutivi sia sotto il profilo della condotta materiale (impossessamento con sottrazione del bene pubblico al detentore), sia sotto il profilo dell'elemento psicologico del reato, costituito dal fine di trarne profitto patrimoniale mediante l'impiego delle acque, senza alcun costo, nei cantieri del Consorzio ovvero delle ditte a questo legate da contratti di appalto. Ritiene peraltro il pubblico ministero non applicabile al caso di specie la normativa fissata dall'art. 23, comma quarto del d.lgs. n. 152/1999, la quale disciplina una mera violazione amministrativa nel caso di «derivazione o utilizzo» di acque pubbliche in assenza di autorizzazione, atteso che il bene giuridico protetto dalla norma penale sarebbe affatto diverso da quello presidiato dalla norma amministrativa; il patrimonio dello Stato il primo, la regolamentazione a fini pubblici del prelievo di acque, e la tutela della loro salubrita', il secondo. Da qui la impostazione accusatoria che, nella sostanza, ipotizza un concorso di norme sanzionatorie, l'una penale l'altra amministrativa, per la medesima condotta. Diversa la impostazione della difesa degli imputati, la quale si e' accentrata preliminarmente sulla contestazione degli elementi di ricostruzione storica del fatto posti a base della imputazione; in secondo momento sulla mancanza di uno degli elementi costitutivi della fattispecie di furto, ovverosia la detenzione del bene da parte dello Stato; ed infine affermando la specialita' della disposizione di cui all'art. 23, quarto comma del d.lgs. n. 152/1999 rispetto alla norma generale di cui all'art. 624 c.p.; con la conseguenza, in tale ultima ipotesi, della irrilevanza della condotta di prelievo di acque sotterranee o superficiali per fini industriali, anche qualora positivamente accertata, sotto il profilo della norma incriminatrice penale. Deve osservarsi che il profilo di contestazione della imputazione che la difesa degli imputati fonda sulla asserita specialita' della norma di cui all'art. 23, quarto comma del d.lgs. n. 152/1999, e della conseguente inapplicabilita' della fattispecie di cui all'art. 624 c.p. ai fatti oggetto del processo, assume carattere pregiudiziale, atteso che qualunque verifica in fatto della imputazione deve presupporre necessariamente la giurisdizione del Giudice penale in relazione ad una condotta che possa rientrare nella previsione astratta di una fattispecie di reato, altrimenti realizzandosi violazione del principio costituzionale della separazione dei poteri. Ed infatti non vi sarebbe titolo alcuno per questo Giudice nell'indagare in fatto situazioni che sfuggono alla rilevanza penale, e vengono disciplinate esclusivamente dalla normativa amministrativa. Occorre quindi prendere le mosse dall'esame di questo pregiudiziale profilo di contestazione dell'accusa. Al fine dell'indagine richiesta a questo Giudice in punto di diritto e' indispensabile preliminarmente ripercorrere, seppur brevemente, l'excursus storico della normativa di disciplina delle acque. Fino alla entrata in vigore nell'ordinamento della cosiddetta legge «Galli» il testo di riferimento per la disciplina delle acque era costituito dal r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, Testo Unico delle disposizioni di legge sulle acque, e che all'art. l testualmente recitava «Sono pubbliche tutte le acque sorgenti, fluenti e lacuali, anche se artificialmente estratte dal sottosuolo, sistemate o incrementate, le quali, considerate sia isolatamente per la loro portata o per l'ampiezza del rispettivo bacino imbrifero, sia in relazione al sistema idrografico al quale appartengono, abbiano od acquistino attitudine ad usi di pubblico generale interesse. Le acque pubbliche sono inscritte, a cura del ministero dei lavori pubblici, distintamente per provincie, in elenchi da approvarsi per decreto reale, su proposta del ministro dei lavori pubblici, sentito il consiglio superiore dei lavori pubblici, previa la procedura da esperirsi nei modi indicati dal regolamento». (Omissis). Sulla base della normativa sopra richiamata, le acque acquisivano pertanto il carattere della pubblicita', cosi' entrando a far parte del demanio dello Stato, esclusivamente se classificate di «pubblico generale interesse», e previo inserimento negli appositi elenchi. Le acque cui non era riconosciuta tale rilevanza pubblica, e che non erano inserite espressamente negli elenchi previsti dalla legge, seguivano pertanto la disciplina codicistica di diritto privato, fissata dall'art. 840 del codice civile. A seguito della piu' recente presa di coscienza da parte degli Organismi internazionali e del Legislatore italiano del progressivo depauperamento delle risorse idriche del pianeta, veniva introdotta nell'ordinamento giuridico dello Stato la legge 5 gennaio 1994, n. 36 titolata «Disposizioni in materia di risorse idriche», normativa che ridefiniva interamente la disciplina sostanziale relativa alle acque pubbliche. In particolare all'art. 1 statuisce che «tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorche' non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa che e' salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarieta'.». Con l'introduzione della nuova disciplina si perveniva ad un vero e proprio rovesciamento dei principi sottesi alla regolamentazione del prelievo e dell'utilizzo delle acque, passando da un regime ordinario di carattere privatistico, nel quale vi era necessita' di una specifica classificazione da parte della Pubblica Amministrazione per qualificare un acqua di interesse pubblico, ad un regime rigidamente pubblico in ordine alla proprieta' della risorsa idrica, regime in cui tutte le acque superficiali e sotterranee sono pubbliche, senza alcuna eccezione, e riservandosi la Pubblica Amministrazione la discrezionalita' di disciplinare in maniera diversa esclusivamente il loro utilizzo, a seconda dei soggetti e delle finalita'. Successivamente veniva introdotto nell'ordinamento il d.lgs. n. 152/1999 titolato «Disposizioni sulla tutela delle acque dall'inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall'inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole», il cui articolo 23, al comma quarto recita «L'articolo 17 del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (a) e' sostituito dal seguente: «Art. 17. - 1, Salvo quanto previsto dall'articolo 93 (e) e dall'articolo 28, commi 3 e 4, della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (f) e' vietato derivare o utilizzare acqua pubblica senza un provvedimento autorizzativo o concessorio dell'Autorita' competente. Nel caso di violazione del disposto del comma 1, l'amministrazione competente dispone la cessazione dell'utenza abusiva ed il contravventore, fatti salvi ogni altro adempimento o comminatoria previsti dalle leggi vigenti, e' tenuto al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria da lire cinque milioni a lire cinquanta milioni. Nei casi di particolare tenuita' si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da lire cinquecentomila a lire tre milioni. Alla sanzione prevista dal presente articolo non si applica il pagamento in misura ridotta di cui all'articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (g). E' in ogni caso dovuta una somma pari ai canoni non corrisposti. (Omissis)». Successivamente alla entrata in vigore del d.lgs. n. 152/1999 si pone oggettivamente all'interprete la problematica relativa alla individuazione della norma sanzionatoria applicabile in relazione alle condotte di impossessamento di acque pubbliche aventi caratteristiche analoghe alla condotta descritta nel capo di imputazione. La Giurisprudenza di legittimita' con numerose pronunce, e dopo una iniziale incertezza, si e' consolidata su posizioni di sostanziale abrogazione della rilevanza penale della condotta descritta, ed in ultimo, con la sentenza n. 25548/2007 della quinta Sezione penale della Corte di cassazione ha affermato quanto segue: «il d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 23, sanziona specificamente la condotta di impossessamento abusivo di acque pubbliche, ancorche', come si vedra', solo in via amministrativa; si pone percio' la necessita' di verificare se quest'ultima norma non sia speciale rispetto a quella dettata dall'art. 624 c.p., e pertanto l'unica applicabile. L'indagine non puo' che partire dalla ricostruzione del sistema sanzionatorio nello specifico settore. Il d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 93 (T.U. sulle acque) dispone la libera e lecita utilizzazione per usi domestici delle acque sotterranee da parte del proprietario del fondo, purche' vengano osservate le cautele prescritte dalla legge. Detta norma e' stata confermata dalla legge n. 36 del 1994, art. 28 e dal d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 23. Tale ultimo articolo, nel sostituire l'art. 17 del R.D. n. 1775 del 1933, ha poi disposto che la derivazione o utilizzazione abusiva di acque pubbliche e' punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da L. 5 a 50 milioni, disposizione che deve intendersi riferita solo alle ipotesi di prelievo per uso industriale, come nel caso di specie, stante la legittimita' dell'utilizzazione per usi domestici. Il d.lgs. n. 152 del 1999, art. 23, che vieta di «derivare o utilizzare acqua pubblica senza un provvedimento autorizzativo o concessorio dell'autorita' competente», la cui violazione come s'e' osservato e' sanzionata in via amministrativa, costituisce norma speciale rispetto a quella generale di cui all'art. 624 c.p., dovendo applicarsi il principio di specialita' anche in caso di concorso apparente di norme coesistenti, ancorche' detto rapporto si configuri tra norma penale e norma amministrativa; le due norme infatti regolano la stessa materia - e cioe' l'impossessamento di un bene altrui per trarne vantaggio - caratterizzandosi la fattispecie amministrativa per due elementi specializzanti, e cioe' l'oggetto dell'impossessamento (l'acqua pubblica) ed il dolo specifico (la finalita' industriale). Ne' pare condivisibile la tesi contraria di chi sostiene l'effettivo concorso tra le due norme (Cass. 7 novembre 2002, n. 37237) rilevando che la prima norma tutela la salubrita' delle acque e la seconda il bene affatto diverso della proprieta'. Infatti per stabilire se due disposizioni regolino o meno la stessa materia, deve privilegiarsi la struttura della fattispecie piuttosto che il bene protetto (Cass. Sez. Unite 7 novembre 2000, n. 27; Cass. Sez. Unite 15 gennaio 2000, n. 35); ma valga del resto considerare che anche il d.lgs. n. 152 del 1999, art. 23 tutela la proprieta' delle acque, sia pure sotto peculiare profilo.». La Giurisprudenza richiamata afferma un principio di diritto che questo Giudice ritiene condivisibile, non ravvisando tra la ipotesi prevista dall'art. 23 del d.lgs. n. 152/1999 e la fattispecie di cui all'art. 624 c.p.p. difformita' sotto il profilo del bene giuridico protetto. Ed infatti, se la norma incriminatrice penale e' posta a presidio del patrimonio, anche la disposizione sanzionatoria del d.lgs. n. 152/1999 presidia, tra l'altro, anche gli interessi patrimoniali dell'Erario dello Stato, poiche', subito dopo aver indicato la sanzione irrogabile in caso di prelievo illecito dispone che e' in ogni caso dovuta la somma di denaro corrispondente ai canoni evasi; canoni che rappresentano il corrispettivo del valore stimato del bene, cosi' come indicato espressamente dagli articoli 13 e 18 della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (legge Galli). Vi e' inoltre da osservare che, nella fattispecie oggetto di processo, ad un esame della condotta descritta nel capo di imputazione, l'impossessamento dell'acqua sotterranea e superficiale sarebbe stato realizzato dagli imputati con specifica finalita' di utilizzazione industriale. La fattispecie sanzionatrice prevista dall'art. 23 del d.lgs. n. 152/1999 descrive pertanto esattamente la condotta addebitata agli imputati, sia sotto il profilo della materialita' del fatto (impossessamento della risorsa idrica mediante sottrazione al patrimonio dello Stato), sia sotto il profilo della finalita' che e' indubitabilmente di utilizzazione industriale. Tanto premesso in ordine alla ricostruzione del fatto e della fattispecie giuridica, e ritenuto che ai fatti descritti nella imputazione, qualificati furti aggravati di acque pubbliche, debba altresi' applicarsi la disciplina dell'art. 23 comma quarto del d.lgs. n. 152/1999 in base al criterio di specialita' fissato dall'art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689, con conseguente irrilevanza penale del fatto descritto dal pubblico ministero, questo Giudice dubita della conformita' ai principi costituzionali della disposizione di cui all'art. 23 d.lgs. n. 152/1999, per violazione del criterio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Carta costituzionale. In punto di ammissibilita' della questione di costituzionalita'. Osserva il Tribunale come il declassamento della tutela dell'illecito prelievo di acque pubbliche sia avvenuto a seguito della entrata in vigore del d.lgs. n. 152/1999, essendo di pacifico rilievo che precedentemente all'ottobre dell'anno 2000 (data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto, con le modifiche correttive ed integrative disposte dal d.lgs. n. 258/2000) all'ipotesi di impossessamento per fini di vantaggio patrimoniale di acque pubbliche era applicabile la disciplina ordinaria dettata dalle norme sul furto. Cosi' come risulta non controverso dalla stessa contestazione del reato effettuata agli imputati che la loro condotta di illecito impossessamento delle acque, posta in essere senza apprezzabile soluzione di continuita', sarebbe iniziata fino dall'anno 1997, e quindi in epoca anteriore alla avvenuta «depenalizzazione» delle condotte descritte (di depenalizzazione parla espressamente la Corte di legittimita' nella sentenza n. 39977 dell'11 ottobre 2005 della quinta Sezione). Sulla base dei rilievi sopra effettuati deve quindi affermarsi la ammissibilita' della questione di costituzionalita' della disposizione depenalizzatrice - che quindi farebbe rivivere per gli imputati l'effettivita' della norma incriminatrice penale - non ostandovi il principio fissato dall'art. 2 del codice penale, norma di attuazione del principio fissato dal secondo comma dell'art. 25 della Costituzione. E' infatti da rilevare che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 394 del novembre 2006 ha affermato quanto segue: «(...), secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, all'adozione di pronunce in malam partem in materia penale osta non gia' una ragione meramente processuale - di irrilevanza, nel senso che l'eventuale decisione di accoglimento non potrebbe trovare comunque applicazione nel giudizio a quo - ma una ragione sostanziale, intimamente connessa al principio della riserva di legge sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., in base al quale «nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso» (ex plurimis, tra le ultime, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002, n. 508 del 2000; ordinanze n. 187 del 2005, n. 580 del 2000 e n. 392 del 1998; con particolare riguardo alla materia elettorale, ordinanza n. 132 del 1995). Rimettendo al legislatore - e segnatamente al «soggetto-Parlamento», in quanto rappresentativo dell'intera collettivita' nazionale (sentenza n. 487 del 1989) - la riserva sulla scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, detto principio impedisce alla Corte sia di creare nuove fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti a casi non previsti; sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilita' (e cosi', ad esempio, sulla disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi: ex plurimis, ordinanze n. 317 del 2000 e n. 337 del 1999). Questa Corte ha peraltro chiarito che il principio di legalita' non preclude lo scrutinio di costituzionalita', anche in malam partem, delle c.d. norme penali di favore: ossia delle norme che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico piu' favorevole di quello che risulterebbe dall'applicazione di norme generali o comuni. Di tale orientamento - che trova la sua prima compiuta enunciazione nella sentenza n. 148 del 1983 - questa Corte ha fatto ripetute applicazioni (sentenze n. 167 e n. 194 del 1993; n. 124 del 1990; n. 826 del 1988), anche in rapporto a questioni di costituzionalita' omologhe a quelle oggi in esame, dirette a conseguire una modifica peggiorativa del trattamento sanzionatorio di determinate figure di reato (sentenza n. 25 del 1994; v., altresi', le ordinanze n. 95 del 2004 e n. 433 del 1998, con le quali la Corte ha scrutinato direttamente nel merito questioni di tal fatta). Esso si connette all'ineludibile esigenza di evitare la creazione di «zone franche» dell'ordinamento (cosi' la sentenza n. 148 del 1983), sottratte al controllo di costituzionalita', entro le quali il legislatore potrebbe di fatto operare svincolato da ogni regola, stante l'assenza d'uno strumento che permetta alla Corte di riaffermare il primato della Costituzione sulla legislazione ordinaria. Qualora alla preclusione dello scrutinio di costituzionalita' in malam partem fosse attribuito carattere assoluto, si determinerebbe, in effetti, una situazione palesemente incongrua: venendosi a riconoscere, in sostanza, che il legislatore e' tenuto a rispettare i precetti costituzionali se effettua scelte di aggravamento del trattamento penale, mentre puo' violarli senza conseguenze, quando dalle sue opzioni derivi un trattamento piu' favorevole. In accordo con l'esigenza ora evidenziata, va osservato che il principio di legalita' impedisce certamente alla Corte di configurare nuove norme penali; ma non le preclude decisioni ablative di norme che sottraggano determinati gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o comunque piu' generale, accordando loro un trattamento piu' benevolo (sentenza n. 148 del 1983): e cio' a prescindere dall'istituto o dal mezzo tecnico tramite il quale tale trattamento si realizza (previsione di una scriminante, di una causa di non punibilita', di una causa di estinzione del reato o della pena, di una circostanza attenuante o di una figura autonoma di reato punita in modo piu' mite). In simili frangenti, difatti, la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione resta salva: l'effetto in malam partem non discende dall'introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali; esso rappresenta, invece, una conseguenza dell'automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso gia' oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria. Tale riespansione costituisce una reazione naturale dell'ordinamento - conseguente alla sua unitarieta' - alla scomparsa della norma incostituzionale: reazione che si verificherebbe in ugual modo anche qualora la fattispecie derogatoria rimossa fosse piu' grave; nel qual caso a riespandersi sarebbe la norma penale generale meno grave, senza che in siffatto fenomeno possa ravvisarsi alcun intervento creativo o additivo della Corte in materia punitiva (...)». La questione di costituzionalita' che questo Giudice intende con la presente ordinanza sollevare attiene alla previsione, da parte del legislatore, di una normativa di depenalizzazione «di favore» in relazione a determinati soggetti, con carattere di irragionevolezza con riferimento alla genaralita' beni giuridici tutelati dall'ordinamento, e pertanto deve ritenersi ammissibile. Non manifesta infondatezza della questione di costituzionalita'. La questione che questo Giudice intende portare alla attenzione della Corte attiene ad una ipotesi di depenalizzazione della condotta di illecito impossessamento di acque pubbliche per fini di profitto, effettuata attraverso la introduzione nell'ordinamento giuridico dello Stato di una norma sanzionatrice speciale di carattere amministrativo. La giurisprudenza della Corte costituzionale e' costante nel ritenere che «la configurazione delle ipotesi criminose e la determinazione delle sanzioni per ciascuna di esse rientrano nella discrezionalita' del legislatore. Gli apprezzamenti in ordine alla "meritevolezza" ed al "bisogno di pena" - dunque sull'opportunita' del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della stessa - sono infatti, per loro natura, tipicamente politici: con la conseguenza che un sindacato sul merito delle scelte legislative e' possibile solo ove esse trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio (ex plurimis, tra le ultime, sentenze n. 144 del 2005 e n. 364 del 2004; ordinanze n. 109, n. 139, n. 212 del 2004; n. 177, n. 206 e n. 234 del 2003), come avviene allorquando la sperequazione normativa tra fattispecie omogenee assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione (con riguardo alla materia elettorale, sentenza n. 287 del 2001)» (Corte cost. sentenza n. 394/2006). Orbene, proprio alla luce delle argomentazioni della sentenza sopra richiamata, ritiene il Giudicante che il previsto regime sanzionatorio della condotta di derivazione ed utilizzo a fini industriali di acque pubbliche, giustificato da fini di profitto, sia viziato da irragionevolezza e grave contraddizione con alcune norme di rango costituzionale, tanto da imporne la declaratoria di incostituzionalita' per violazione dell'art. 3 Costituzione. E' proprio muovendo preliminarmente dall'esame della specificita' del bene giuridico oggetto di tutela che si apprezza la irragionevolezza della disposizione denunciata. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 259/1996 aveva avuto modo di evidenziare come «(...) I criteri discretivi delle acque pubbliche e private hanno subito, sotto il profilo storico, dallo scorso secolo (e non solo in Italia), una evoluzione progressiva con caratterizzazione in crescendo dell'interesse pubblico, correlata all'aumento dei fabbisogni, alla limitatezza delle disponibilita' e ai rischi concreti di penuria per i diversi usi (residenziali, industriali, agricoli), la cui preminenza e' venuta nel tempo ad assumere connotati diversi. Nello stesso tempo, soprattutto sotto la spinta di una serie di iniziative in ambito europeo (a cominciare dalla Carta europea dell'acqua, approvata il 16 maggio 1968 dal Consiglio d'Europa) e di direttive della Comunita' europea, e della raggiunta consapevolezza della limitata disponibilita' idrica, e' emerso un maggiore interesse per la protezione delle acque. In particolare l'attenzione si e' soffermata sull'acqua (bene primario della vita dell'uomo), configurata quale "risorsa" da salvaguardare, sui rischi da inquinamento, sugli sprechi e sulla tutela dell'ambiente, in un quadro complessivo caratterizzato dalla natura di diritto fondamentale a mantenere integro il patrimonio ambientale. L'aumento dei fabbisogni derivanti dai nuovi insediamenti abitativi e dalle crescenti utilizzazioni residenziali anche a seguito delle tecnologie introdotte nell'ambito domestico, accompagnato da un incremento degli usi agricoli produttivi e di altri usi, ha indotto il legislatore (legge 5 gennaio 1994, n. 36), di fronte a rischi notevoli per l'equilibrio del bilancio idrico, ad adottare una serie di misure di tutela e di priorita' dell'uso delle acque intese come risorse, con criteri di utilizzazione e di reimpiego indirizzati al risparmio, all'equilibrio e al rinnovo delle risorse medesime. Di qui la esigenza avvertita dallo stesso legislatore di un maggiore intervento pubblico concentrato sull'intero settore dell'uso delle acque, sottoposto al metodo della programmazione, della vigilanza e dei controlli, collegato ad una iniziale dichiarazione di principio, generale e programmatica (art. 1, comma 1, della legge n. 36 del 1994), di pubblicita' di tutte le acque superficiali e sotterranee, indipendentemente dalla estrazione dal sottosuolo. Tale dichiarazione e' accompagnata dalla qualificazione di "risorsa salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarieta'". Questa finalita' di salvaguardia viene, subito dopo, in modo espresso riconnessa al diritto fondamentale dell'uomo (e delle generazioni future) all'integrita' del patrimonio ambientale, nel quale devono essere inseriti gli usi delle risorse idriche (art. 1, commi 2 e 3, della legge n. 36 del 1994) (...)». Effettivamente la legge n. 36/1994 ha introdotto un sistema amministrativo di controlli, a carattere preminentemente concessorio, per la utilizzazione dell'acqua per fini diversi da quelli domestici (svincolati dal regime concessorio per espressa disposizione di legge), con l'evidente finalita' di rendere obiettivamente maggiormente incisivi sia i controlli di carattere pubblico sull'uso del bene ritenuto giustamente prezioso, sia al fine di sottoporre il suo concreto utilizzo alla valutazione di compatibilita' con la conservazione del bene medesimo, realizzando attraverso il provvedimento autorizzatorio di carattere discrezionale un effettivo bilanciamento degli interessi contrapposti all'utilizzo del bene ed alla sua conservazione. Tale quadro di riferimento normativo non mutava, nella sostanza, neppure con la introduzione del d.lgs. n. 152/1999, se e' vero che quest'ultima disposizione di legge esordiva, all'art. 1, indicando le finalita' che la nuova normativa di prefiggeva: «Art. 1. Finalita' l. - Il presente decreto definisce la disciplina generale per la tutela delle acque superficiali, marine e sotterranee, perseguendo i seguenti obiettivi: a) prevenire e ridurre l'inquinamento e attuare il risanamento dei corpi idrici inquinati; b) conseguire il miglioramento dello stato delle acque ed adeguate protezioni di quelle destinate a particolari usi; c) perseguire usi sostenibili e durevoli delle risorse idriche, con priorita' per quelle potabili; d) mantenere la capacita' naturale di autodepurazione dei corpi idrici, nonche' la capacita' di sostenere comunita' animali e vegetali ampie e ben diversificate. 2. - Il raggiungimento degli obiettivi indicati al comma 1 si realizza attraverso i seguenti strumenti: a) l'individuazione di obiettivi di qualita' ambientale e per specifica destinazione dei corpi idrici; b) la tutela integrata degli aspetti qualitativi e quantitativi nell'ambito di ciascun bacino idrografico ed un adeguato sistema di controlli e di sanzioni; c) il rispetto dei valori limite agli scarichi fissati dallo Stato, nonche' la definizione di valori limite in relazione agli obiettivi di qualita' del corpo recettore; d) l'adeguamento dei sistemi di fognatura, collettamento e depurazione degli scarichi idrici, nell'ambito del servizio idrico integrato di cui alla legge 5 gennaio 1994, n. 36 (a); e) l'individuazione di misure per la prevenzione e la riduzione dell'inquinamento nelle zone vulnerabili e nelle aree sensibili; f) l'individuazione di misure tese alla conservazione, al risparmio, al riutilizzo ed al riciclo delle risorse idriche.». Non soltanto quindi il decreto legislativo si inseriva perfettamente nelle linee guida fissate dalla legge n. 36/1994, ma con la sua introduzione veniva a delinearsi un sistema di tutela del bene giuridico costituito dalle acque pubbliche «rafforzato», ed il legislatore evidenziava una volonta' di prestare la massima attenzione alla gestione della risorsa idrica. Orbene in tale quadro normativo la previsione di una norma speciale tesa a depenalizzare l'impossessamento illecito, a fini di lucro, di un bene giuridico di notevole valore per la collettivita' si appalesa come manifestamente privo di razionalita' e di armonia con il sistema di tutele dato. E tale irragionevolezza appare ancor piu' eclatante solo che si raffronti la diminuita tutela del bene pubblico a far data dalla introduzione nell'ordinamento della norma speciale, con quella apprestata precedentemente - e che interesserebbe i fatti oggetto del processo in un arco temporale che va dall'anno 1997 all'anno 2000 - rappresentata dalla norma incriminatrice penale. Norma incriminatrice penale che, allo stato, continua a sanzionare condotte di aggressione a beni patrimoniali di gran lunga inferiori, nella scala dei valori fissata dal Legislatore, rispetto alla risorsa idrica. E proprio in questi due aspetti evidenziati in ultimo che il Tribunale coglie il primo profilo di incostituzionalita' della disposizione denunciata, allorche' non soltanto introduce una disparita' di trattamento sanzionatorio di condotte identiche relative allo stesso bene giuridico, ancorche' poste in essere in momenti diversi, senza che emerga ragione a fondamento, ma introduce una disparita' di trattamento sanzionatorio fra beni di diverso valore sociale, apprestando tutela diminuita proprio a quel bene che, con la medesima legge, si intende tutelare piu' incisivamente; con aperta violazione del principio di ragionevolezza, quale articolazione del principio di uguaglianza fissato dall'art. 3 della Carta costituzionale. Ritiene peraltro il Tribunale che la irragionevolezza della disposizione denunciata si colga anche in relazione ad altre condotte di impossessamento relative al medesimo bene giuridico, e da ritenersi ancora sanzionate dalla norma incriminatrice generale di cui all'art. 624 c.p. Ed infatti non puo' convenirsi con la operazione interpretativa della fattispecie normativa effettuata dalla Corte di legittimita' nella sentenza n. 25548/2007 della quinta Sezione penale allorquando la Corte afferma che «le due norme infatti regolano la stessa materia - e cioe' l'impossessamento di un bene altrui per trarne vantaggio - caratterizzandosi la fattispecie amministrativa per due elementi specializzanti, e cioe' l'oggetto dell'impossessamento (l'acqua pubblica) ed il dolo specifico (la finalita' industriale).» Se tale sovrapposizione e' vera in relazione a condotte quali quelle contestate agli odierni imputati, deve rilevarsi come, in linea generale, non vi sia alcuna sovrapposizione nella condotta materiale descritta dalle due norme, l'art. 624 c.p. e l'art. 23 d.lgs. n. 152/1999, poiche' le condotte di derivazione o utilizzo descrivono solo alcuni dei possibili casi di impossessamento. Per la verita' soltanto la condotta di derivazione descrive una modalita' di impossessamento, poiche' la condotta di utilizzazione descrive un post factum rispetto all'impossessamento, e piu' propriamente una finalita' di quest'ultimo; si utilizza un bene dopo essersene impossessati, ovvero ci si impossessa per poi utilizzarlo. Se tali osservazioni le si leggono alla luce del principio di tassativita' degli illeciti amministrativi fissato dall'art. 1, comma secondo della legge n. 689/1981, si vedra' che vi possono essere casi di impossessamento che non vengono realizzati attraverso una derivazione, o che non sono finalizzati all'utilizzo industriale del bene, ma che sono comunque caratterizzati da fine di lucro, i quali necessariamente sfuggono alla previsione della norma amministrativa, e ricadono necessariamente sotto l'impero della fattispecie penale, questa volta essa stessa speciale rispetto alla norma amministrativa. Si pensi, a mero titolo esemplificativo, a colui che effettuasse la trivellazione di un pozzo di acque sotterranee, perche' ritenute dotate di caratteristiche fisiche di pregio, al fine di farne mero commercio, anche eventualmente mediante la pura e semplice cessione a terzi. In tal caso l'impossessamento non si realizzarebbe mediante derivazione, ne' avrebbe come finalita' un utilizzo dell'acqua pubblica a fini industriali (utilizzo che presuppone quasi nella totalita' dei casi il rilascio del bene stesso dopo il suo utilizzo), e quindi necessariamente sarebbe la norma penale a dispiegare i propri effetti, provvedendo a sanzionare una sfera di illecito che sfugge alla previsione amministrativa. E' quindi alla luce di queste considerazioni che il Tribunale coglie il secondo profilo di incostituzionalita' della disposizione denunciata, allorche' il Legislatore introduce una disparita' di trattamento sanzionatorio di condotte di identico disvalore sociale relative allo stesso bene giuridico, ancorche' poste in essere con motivazioni differenti, senza che emerga ragione a fondamento di tale diversa valutazione. Non si vede quale sia la ragione di sanzionare con pena criminale la condotta di colui che si impossessa della risorsa idrica per farne mero commercio, ed ottenere un utile patrimoniale illecito, rispetto a colui che si impossessa del medesimo bene illecitamente e per fine di profitto, nel caso in cui quest'ultimo sia rappresentato non dal prezzo della vendita, bensi' dal vantaggio patrimoniale consistente nell'utilizzo del bene in un processo industriale. La rilevanza nel processo in corso. I fatti reato oggetto della causa vengono collocati dalla Pubblica accusa nella contestazione del delitto di furto aggravato e continuato a far data dall'anno 1997 (data di inizio della consumazione) e fino all'anno 2005 (data di presunta cessazione della consumazione). Allo stato, nella vigenza della previsione della norma ritenuta speciale, le condotte poste in essere successivamente alla entrata in vigore del d.lgs. n. 152/1999 risultano penalmente irrilevanti, e quelle poste in essere anteriormente a tale data non punibili ex art. 2 comma secondo del codice penale. La espulsione dall'ordinamento della disposizione denunciata di incostituzionalita' consentirebbe la nuova espansione della norma incriminatrice penale, quantomeno per i fatti reato commessi tra il 1997 e la entrata in vigore della norma denunciata, allo stato ancora non colpiti da termine prescrizionale, e gia' contestati agli imputati. Nella fattispecie oggetto della odierna ordinanza di rimessione si discute infatti di condotte poste in essere prima dell'entrata in vigore della norma ritenuta di favore (ergo, quando il fatto era piu' severamente punito), onde il principio di irretroattivita' della norma penale sfavorevole non viene affatto in rilievo. Viene in considerazione, piuttosto, il distinto principio di retroattivita' della norma penale (o sanzionatoria di carattere non penale) piu' mite: principio che trova espressione nell'ordinamento giuridico a livello di legge ordinaria, nell'art. 2, secondo comma e seguenti, del codice penale. Sul punto ritiene il Tribunale che, nella specificita' dei fatti oggetto di processo, si versi in ipotesi di irrilevanza di tale principio, e cio' secondo le considerazioni che la Corte costituzionale ha gia' espresso in caso di successione di leggi penali nel tempo, ma che il Tribunale ritiene applicabili anche alla ipotesi di successione di norma sanzionatoria di carattere non penale, e del seguente tenore: «(...) e' giocoforza ritenere che il principio di retroattivita' della norma penale piu' favorevole in tanto e' destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di per se', costituzionalmente legittima. Il nuovo apprezzamento del disvalore del fatto, successivamente operato dal legislatore, puo' giustificare - in chiave di tutela del principio di eguaglianza - l'estensione a ritroso del trattamento piu' favorevole, a chi ha commesso il fatto violando scientemente la norma penale piu' severa, solo a condizione che quella nuova valutazione non contrasti essa stessa con i precetti della Costituzione. La lex mitior deve risultare, in altre parole, validamente emanata: non soltanto sul piano formale della regolarita' del procedimento dell'atto legislativo che l'ha introdotta e, in generale, della disciplina delle fonti (v., con riferimento alla mancata conversione di un decreto-legge, sentenza n. 51 del 1985); ma anche sul piano sostanziale del rispetto dei valori espressi dalle norme costituzionali. Altrimenti, non v'e' ragione per derogare alla regola sancita dai citati art. 136, primo comma, cost. e 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953, non potendosi ammettere che una norma costituzionalmente illegittima - rimasta in vigore, in ipotesi, anche per un solo giorno - determini, paradossalmente, l'impunita' o l'abbattimento della risposta punitiva, non soltanto per i fatti commessi quel giorno, ma con riferimento a tutti i fatti pregressi, posti in essere nel vigore dell'incriminazione o dell'incriminazione piu' severa.» (sentenza n. 394/2006).