IL GIUDICE DI PACE Il Giudice di pace di Pordenone, dott. Raffaele Vairo, nel processo nei confronti di Pikulina Svetlana, nata il 26 novembre 1960 a Sveerdlovsk (UK), domiciliata presso il proprio difensore di ufficio avv. Silvia Sanzogni del foro di Pordenone, imputata della contravvenzione prevista e punita dall'art. 10-bis del d.lgs. n. 286/1998 perche', straniera, si tratteneva nel territorio dello Stato italiano in violazione delle disposizioni di cui al citato d.lgs. n. 286/1998, accertato in Fontanafredda (Pordenone) in data 19 agosto 2009, ha emesso la seguente ordinanza. L'imputata e' stata rinviata a giudizio per rispondere della contravvenzione di cui all'art. 10-bis del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, articolo aggiunto dalla lettera a) del sedicesimo comma dell'art. 1 della legge 15 luglio 2009, n. 94. All'udienza del 28 settembre 2009 il p.m. sollevava eccezioni di incostituzionalita' della norma asseritamente violata, ritenendola in contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 27 e 97 della Costituzione. Osservava il p.m. che la norma, sotto la rubrica «Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato», punisce, con l'ammenda da € 5.000,00 a 10.000,00, lo straniero che fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato, in quanto violerebbe le disposizioni del d.lgs. n. 286/1998 nonche' le disposizioni di cui al comma 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68 (Disciplina del soggiorno di breve durata degli stranieri per visite, affari, turismo e studio). La norma, quindi, come rileva il p.m.: a) punisce, a titolo di contravvenzione e con una pena soltanto pecuniaria, l'ingresso e il soggiorno illegale nel territorio dello Stato, per tale intendendosi quello normalmente qualificato come clandestino; b) per tale reato, secondo quanto statuisce l'ultimo inciso del primo comma del citato art. 10-bis del d.lgs. n. 286/1998, e' esclusa l'applicazione dell'art. 162 del codice penale; c) il reato in questione e' sottoposto alla condizione di procedibilita' che lo straniero non sia effettivamente espulso o respinto. Ne inferiva che, trattandosi di un reato contravvenzionale, la sola pena pecuniaria prevista per la contravvenzione non costituirebbe un deterrente efficace per soggetti che sono spinti ad emigrare da condizioni di vita disperate, esponendo se stessi e i propri cari a gravi pericoli. Sotto il profilo processuale la nuova norma, al terzo comma stabilisce che «al procedimento penale per il reato di cui al comma 1 si applicano le disposizioni di cui agli articoli 20-bis, 20-ter e 32-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274» e, cioe': la «presentazione immediata dell'imputato al giudizio» (art. 20-bis, introdotto dalla lettera b) del comma 17 dello stesso art. 1 della legge n. 94/2009; la «citazione contestuale dell'imputato in udienza» quando «ricorrono gravi e comprovate ragioni di urgenza che non consentono di attendere la fissazione dell'udienza ai sensi del comma 3 del medesimo articolo» (art. 20-ter, introdotto anch'esso dalla lettera b) del comma 17 dello stesso art. 1 della legge n. 94/2009); lo svolgimento del processo secondo una procedura simile al giudizio direttissimo (art. 32-bis, introdotto dalla lettera c) del comma 17, dello stesso art. 1 della legge n. 94/2009). La nuova norma, sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello processuale, appare, sempre ad avviso del p.m., in palese contrasto con i principi posti dagli artt. 3, 24, 25, 27 e 97 della Costituzione, per violazione dei principi di uguaglianza, ragionevolezza, proporzionalita' ed offensivita'. Sotto il profilo sostanziale, la norma ha configurato quale reato una mera condizione, quella di semplice irregolarita' dello straniero che «di per se', non e' univocamente sintomatica di una pericolosita' sociale». Ulteriore elemento, ad avviso del p.m., sarebbe costituito dal fatto che la norma punisce non solo l'ingresso irregolare, ma anche lo straniero che si trattiene nel territorio dello Stato in modo irregolare, violando cosi' il disposto del secondo comma dell'art. 25 della Costituzione in quanto finirebbe con il punire un soggetto per una condotta passata, «a meno di non voler ritenere - cosa peraltro anch'essa palesemente in contrasto con la Costituzione - che la norma, pur non indicandolo espressamente, ha previsto un generale obbligo di abbandonare l'Italia, immediatamente ed il giorno stesso della sua entrata in vigore, per gli stranieri in condizione di clandestinita'». Al riguardo, sottolinea il p.m., nel d.lgs. n. 286/1998 e' gia' contemplata l'ipotesi di reato consistente nel trattenersi nel territorio dello Stato, allorche' lo straniero, nei cui confronti fosse stato emesso il provvedimento del Questore contenente l'ordine di lasciare il territorio dello Stato, non vi ottemperasse. «Tale ipotesi e' certamente piu' grave di quella prevista dall'art. 10-bis, in quanto la condotta e' posta in essere da chi ha ricevuto un espresso provvedimento di allontanamento e lo viola volutamente, tanto vero che e' stata configurata come delitto. Per tale delitto, tuttavia, e' espressamente prevista una causa di esclusione della configurabilita' del reato costituita dal giustificato motivo che, come ha avuto modo di precisare tanto la giurisprudenza della Consulta quanto quella della Cassazione, va individuato in tutte quelle circostanze concrete che rendono oggettivamente inesigibile l'ottemperanza all'ordine». Altro motivo di incostituzionalita' della norma in esame sarebbe costituito dal disposto contenuto nell'ultimo inciso del primo comma dell'art. 10-bis del d.lgs. n. 286/1998 che sancisce: «Al reato di cui al presente comma non si applica l'art. 162 del codice penale». Tale disposto sarebbe in evidente contrasto con l'art. 3 della Costituzione per violazione del principio di uguaglianza davanti alla legge. Infine, la pena prevista per il reato di clandestinita' non si ispirerebbe al principio di proporzionalita' e di ragionevolezza, in quanto la pena: (a) viene utilizzata pur in presenza di altri strumenti idonei al raggiungimento dello scopo; (b) nello specifico, la nuova figura di reato si sovrappone integralmente a quella dell'espulsione quale misura amministrativa. Un ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale in relazione all'art. 97 della Costituzione il p.m. ravvisa nel procedimento, creato ad hoc, molto simile a quello disciplinato dagli artt. 449 e 452 c.p.p. «nonostante per il reato stesso sia stata prevista, come condizione di procedibilita', la mancata esecuzione dell'espulsione o del respingimento», in quanto: a) la macchina giudiziaria verrebbe onerata di un carico di lavoro cosi' consistente che potrebbe derivarne, in tempi brevi, la paralisi degli uffici con una notevole ricaduta sui procedimenti di maggiore rilevanza sociale; b) il richiamo dell'art. 345 c.p.p., poi, creerebbe una evidentissima ed assurda serie di procedimenti che potrebbero protrarsi all'infinito: l'immigrato viene processato ed e' prosciolto (per non luogo a procedere) se se ne va o viene eseguita l'espulsione. Ma se torna in Italia, come accade spesso, deve essere di nuovo processato e punito, salvo che venga espulso di nuovo, e cosi' all'infinito; c) lo scenario non muterebbe neanche nell'ipotesi di celebrazione del processo e la condanna del clandestino. Il difensore dell'imputato dichiarava di condividere tutte le eccezioni proposte dal p.m. Il Giudice si riservava. A scioglimento della riserva, il Giudice dichiara che le eccezioni proposte dal p.m., e condivise dal difensore dell'imputato, non sono manifestamente infondate, per le ragioni che seguono. Secondo un orientamento dottrinale, un fatto sarebbe da considerarsi reato quando e' previsto come tale da una norma penale. Quindi, per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la realizzazione di un comportamento materiale corrispondente al fatto enunciato dalla norma incriminatrice, indipendentemente dalle conseguenze che ne possano derivare, anche nell'ipotesi che nessun bene tutelato dall'ordinamento sia stato leso o sia stato semplicemente posto in pericolo. Un secondo indirizzo dottrinale, invece, ritiene che, perche' un fatto possa qualificarsi quale reato, non e' sufficiente che si realizzi in un mero comportamento vietato dalla norma penale, ma occorre che esso sia idoneo ad incidere nel mondo esterno (al soggetto agente) in modo tale da pregiudicare (a livello di danno o di pericolo) un quid cui il contesto sociale ed il diritto penale attribuiscano un significato di valore (bene giuridico). Piu' precisamente, la teoria del reato richiede che il fatto incriminato sia, oltre che tipico (principio di legalita') e colpevole (principio di colpevolezza), anche offensivo (principio di offensivita'). Pur nella diversita' degli indirizzi dottrinari, i giuristi dell'uno o dell'altro indirizzo manifestano, tuttavia, la propensione nell'individuare negli articoli 13, 21, 25, 27 della Costituzione il fondamento costituzionale dei principi sopra enunciati. L'art. 13 Cost. individua nella liberta' personale il bene supremo della persona; liberta' che puo' essere limitata con la norma penale soltanto per tutelare beni di pari rango costituzionale da determinate modalita' di aggressione; l'art. 25, comma 2, Cost. indica nel fatto e, quindi, nella condotta materiale ed offensiva, il comportamento punibile per legge; l'art. 27, comma 3, Cost., pone in evidenza la funzione educativa della pena che verrebbe compromessa nell'ipotesi di previsione di una sanzione penale a carico di un soggetto resosi responsabile di una mera disobbedienza, in quanto il soggetto che abbia commesso un fatto inoffensivo non riuscirebbe a comprendere la ragione della punizione; infine, l'art. 21 Cost., che tutela la libera manifestazione del pensiero. Da tanto non si discosta il p.m. che ritiene la nuova norma circa il reato di ingresso e soggiorno illegale territorio dello Stato in contrasto con i principi posti dagli artt. 3, 24, 25, 27 della Costituzione. Il principio di offensivita', cui fa riferimento il p.m., esige, dunque, che, affinche' possa configurarsi un reato, occorre un comportamento che, oltre a corrispondere alla fattispecie descritta dalla norma, sia colpevole ed offensivo, idoneo, cioe', a ledere o porre in pericolo un bene costituzionalmente significativo o comunque non incompatibile con la Costituzione. In altri termini, il reato e' ritenuto dal p.m. come un fatto umano che aggredisce un bene giuridico meritevole di protezione da parte di un legislatore che si muove nel quadro dei valori costituzionali (nullum crimen sine iniuria), sempreche' la misura dell'aggressione sia tale da far apparire inevitabile il ricorso alla pena e le sanzioni di tipo non penale non siano sufficienti a garantire un'efficace tutela. Nello stesso senso sembra muoversi la giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo la quale: a) «il mancato possesso del titolo abilitativo alla permanenza nello Stato» da parte dello straniero non puo' considerarsi reato, in quanto non e' di per se' idoneo a produrre una particolare pericolosita' sociale (Corte cost., 16 marzo 2007, n. 78); b) la mera condizione di clandestino non puo' considerarsi idonea a porre seriamente in pericolo la sicurezza pubblica. Sicche' la criminalizzazione di tale condizione stabilita dalla norma in esame si rivela priva di fondamento giustificativo. Il legislatore, quindi, non puo' delineare fattispecie incriminatrici che prescindano dall'esistenza dell'offesa ad un bene giuridico, come e', invece, avvenuto con l'introduzione nel nostro ordinamento del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato. Del resto, il fondamento giuridico di quanto teste' affermato lo si rinviene, oltre che nella giurisprudenza della Corte costituzionale, anche nel secondo comma dell'art. 49 c.p. che esclude la punibilita' «quando, per la inidoneita' dell'azione o per la inesistenza dell'oggetto di essa, e' impossibile l'evento dannoso o pericoloso». Al riguardo, ad esempio, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 519 del 1995, ha dichiarato incostituzionale il reato di mendicita', evidenziando che «non e' conforme al canone di ragionevolezza e travalica i limiti assegnati dalla Costituzione al legislatore, il ricorso non necessitato alla tutela penale in difesa di beni giuridici, quali la tranquillita' e l'ordine pubblico, che non sono posti in pericolo da manifestazioni non invasive di mera mendicita', consistenti in una semplice richiesta di aiuto». Ne consegue che il concetto di bene giuridico: a) impone un limite nelle scelte del legislatore; b) deve guidare il giudice il quale, nell'interpretare la legge, dovra' preferire, tra i significati che si possono attribuire alla lettera della legge, quello che meglio si armonizza con il bene giuridico tutelato. La norma, poi, oltre alla condotta di ingresso irregolare, punisce lo straniero che si trattiene nel territorio dello Stato in modo irregolare, con cio' violando il secondo comma dell'art. 25 della Costituzione (irretroattivita' della norma penale), in quanto punisce un soggetto anche per condotte poste in essere prima dell'entrata in vigore della legge n. 94/2009. Il p.m. osserva in proposito che nel d.lgs. n. 286/1998 e' gia' prevista, nel comma 5-ter dell'art. 14, un'ipotesi di reato consistente nel trattenersi nel territorio dello Stato a seguito di provvedimento del Questore, sottolineando che tale ipotesi «e' certamente piu' grave di quella prevista dall'art. 10-bis, in quanto la condotta e' posta in essere da chi ha ricevuto un espresso provvedimento di allontanamento e lo viola volutamente, tanto vero che e' stata configurata come delitto. Per tale delitto, tuttavia, e' espressamente prevista una causa di esclusione della configurabilita' del reato costituita dal giustificato motivo che, come ha avuto modo di precisare tanto la giurisprudenza della Consulta quanto quella della Cassazione, va individuato in tutte quelle circostanze concrete che rendono oggettivamente inesigibile l'ottemperanza all'ordine». Nell'ipotesi disciplinata dalla norma in esame, che e' sicuramente meno grave (sia ontologicamente che giuridicamente, essendo stata configurata come contravvenzione punita con la sola ammenda) rispetto a quella di cui al comma 5 dell'art. 14, non e' prevista alcuna causa di esclusione, il che costituisce una ulteriore, evidentissima violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza. Altra norma sospetta di incostituzionalita', per violazione dell'art. 3 della Costituzione, e' quella contenuta nell'ultimo inciso del primo comma dell'art. 1 della legge n. 94/2009, secondo cui «Al reato di cui al presente comma non si applica l'articolo 162 del codice penale». Al riguardo il giudice osserva che nessuna norma dell'ordinamento giuridico discrimina il cittadino dallo straniero irregolare, per cui l'esclusione di quest'ultimo dalla possibilita' di utilizzare l'istituto dell'oblazione, creando una sorta di regime speciale che riguarda un'intera categoria di soggetti (gli stranieri clandestini) viola il principio di uguaglianza sancito, appunto, dall'art. 3 della Costituzione. Il p.m., in cio' confortato dalla Cassazione (Cass. Pen., n. 5811/2004), ritiene fondatamente che il ricorso all'oblazione sia un un vero e proprio diritto soggettivo per l'imputato di contravvenzione punita con la sola pena dell'ammenda, con conseguente estinzione del reato; ebbene, tale diritto viene negato immotivatamente al migrante clandestino solo perche' tale. Sotto il profilo sanzionatorio, il p.m. ha sollevato dubbi sui caratteri della pena prevista per questa contravvenzione. In effetti, la norma non tiene affatto conto della ratio che deve rivestire la sanzione penale che, nel rispetto del principio di proporzionalita', dev'essere utilizzata solo in mancanza di altri strumenti idonei al raggiungimento dello scopo mentre, nel caso di specie, la nuova figura di reato si sovrappone integralmente a quella dell'espulsione quale misura amministrativa, il che mette in luce la sua assoluta irragionevolezza. Sotto il profilo processuale la norma sarebbe, sempre ad avviso del p.m., in evidente contrasto con l'art. 97 Cost., in quanto rischia di aggravare la crisi degli uffici giudiziari gia' in situazioni di notevole precarieta' con conseguente ricaduta sul buon andamento dall'amministrazione della giustizia. Tanto piu' che, per il reato in esame, e' stato previsto un procedimento molto simile a quello disciplinato dagli artt. 449 - 452 c.p.p., scelta, questa, giudicata irrazionale dal p.m., dal momento che la competenza e' stata attribuita al Giudice di pace, davanti al quale, e' utile ricordarlo, l'art. 17 della legge 24 novembre 1999, n. 468, prevede un procedimento che si svolga con le massime semplificazioni rese necessarie dalla competenza dello stesso giudice. Effettivamente, come e' stato ben evidenziato dalla memoria scritta del p.m.: a) la macchina giudiziaria verra' onerata di un carico di lavoro tale da incidere pesantemente sul buon funzionamento degli uffici; b) il richiamo all'art. 345 c.p.p. potrebbe causare «una assurda sequela di processi senza scopo e senza pena», in quanto l'immigrato viene processato ed e' prosciolto (per non luogo a procedere) se se ne va o viene eseguita l'espulsione. Ma se torna in Italia, come accade spesso, deve essere di nuovo processato e punito, salvo che venga espulso di nuovo, nel qual caso si fara' luogo ad una nuova sentenza di proscioglimento che, ex art. 345 c.p.p., sara' di nuovo revocata da un successivo rientro ... e cosi' all'infinito. Lo scenario non cambia neanche nell'ipotesi di celebrazione del processo con condanna del clandestino. La circolare n. 557/LEG/240520.09/3^P, emanata dal Capo della Polizia - Direttore generale della pubblica sicurezza - del 7 agosto 2009, avente ad oggetto: legge 15 luglio 2009, n. 94, recante: Disposizioni in materia di pubblica sicurezza, conferma: «se lo straniero rientra illegalmente in Italia prima della scadenza del divieto di reingresso, l'azione penale va riproposta». Infatti, se esiste la possibilita' di applicare l'espulsione come sanzione sostitutiva, «tale espulsione, tuttavia, si affianca semplicemente a quella amministrativa che, anzi, come si evince dal gia' ricordato meccanismo previsto dal quarto e quinto comma della nuova norma, sara' appunto quella cui normalmente si fara' ricorso. Ne derivera', allora, che, di fatto, la celebrazione del processo si sara' limitata ad una mera esibizione di forza da parte dello Stato, senza, peraltro, aver conseguito risultati ulteriori o diversi rispetto a quelli gia' conseguibili con la normativa previgente se non quello, gia' evidenziato, di avere inutilmente intasato le Aule dei Giudici di pace e le Procure della Repubblica, costrette, nonostante le notorie difficolta' gia' esistenti, ad affrontare un procedimento direttissimo molto rapido ed impegnativo senza prospettive di risultati concreti». Quanto alla tesi dei difensori della norma in questione, secondo la quale il reato di clandestinita' sarebbe previsto da altre legislazioni di Stati Europei (ad esempio Germania, Francia e Gran Bretagna), va chiarito che tale tesi non tiene conto delle sostanziali differenze esistenti tra i vari ordinamenti, «non ultima la diversita' in tema di obbligatorieta' dell'azione penale, non prevista generalmente nei sistemi giuridici anglossani mentre da noi e' consacrata nella Costituzione - in tutti tali Stati non vi e' alcuna sovrapposizione tra sanzione penale e sanzione amministrativa ed il procedimento penale garantisce un risultato non ottonibile per le vie amministrative come avviene, invece, nel nostro Ordinamento». Sulla rilevanza delle questioni di legittimita' costituzionale va precisato quanto segue. La questione di legittimita' costituzionale di tali norme si pone come una vera e propria questione pregiudiziale, un antecedente logico-giuridico necessario per la decisione della causa, ed e', pertanto, palesemente rilevante nel giudizio in esame.