LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
 
    Sul ricorso proposto da Fabbri Morena, n. 6  agosto  1960,  Rossi
Stelio, n. 18 febbraio 1947; 
    Avverso la sentenza della Corte d'appello di Bologna in  data  28
maggio 2010. 
    Sentita la relazione svolta dal cons. Dubolino; 
    Sentito il P.G. in persona del dott. F.M. Iacoviello, il quale ha
chiesto  l'annullamento  senza   rinvio   limitatamente   alla   pena
accessoria ed il rigetto nel resto; 
    Sentiti, per Fabbri Morena, l'avv. Martines e, per Rossi  Stelio,
l'avv.   Melchionda,   i   quali   hanno   entrambi   insistito   per
l'accoglimento dei rispettivi ricorsi; 
    Ha pronunciato la seguente sentenza - ordinanza. 
 
                          Rilevato in fatto 
 
    Che con l'impugnata sentenza,  in  conferma,  per  quanto  ancora
d'interesse, di quella di primo grado pronunciata  dal  tribunale  di
Forti il 12 febbraio 2003,  Fabbri  Morena  e  Rossi  Stelio  vennero
ritenuti responsabili di bancarotta fraudolenta per  distrazione  con
riferimento al fallimento,  dichiarato  il  6  novembre  1996,  della
s.r.l. AST, per avere, secondo l'accusa, nelle rispettive qualita' di
legale rappresentante (la Fabbri) e di amministratore  di  fatto  (il
Rossi) di detta societa', distratto la  somma  di  lire  660  milioni
circa, incassata per conto della soc.  INALCA  dalla  societa'  russa
AOZT Center a fronte  di  una  fornitura  di  carni,  destinandola  a
finanziamenti alle societa' Movinord s.r.l. e Tecnic s.r.l., entrambe
in difficolta' finanziarie e facenti capo al nominato  Rossi;  fatti,
questi, per i quali erano stati  condannati  alla  pena  ritenuta  di
giustizia,  previo  riconoscimento   delle   circostanze   attenuanti
generiche valutate come prevalenti sulle contestate aggravanti di cui
all'art. 219, commi 1 e 2 n.l, L.F.; 
    che avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione,
nell'interesse degli imputati, i rispettivi difensori; 
    che la difesa di Fabbri Morena ha denunciato: 
        1) violazione degli artt. 223, comma 1, 216, comma  1  n.  1,
224, 217 comma 1  e  2  L.F.,  unitamente  a  vizio  di  motivazione,
sull'assunto, in sintesi e nell'essenziale, che  corte  territoriale,
nel disattendere le  doglianze  esposte  nell'atto  di  appello,  non
avrebbe considerato che le operazioni  di  finanziamento  rientravano
nell'ambito dell'oggetto sociale  e  non  potevano  dirsi  effettuate
senza contropartita, contemplando esse, oltre alla  restituzione,  in
breve termine, della  somma  capitale,  anche  la  corresponsione  di
interessi nella misura del 15 per cento; obbligazioni,  queste,  alle
quali in parte era stato fatto fronte nei tempi previsti,  prima  del
fallimento, e, per il resto, successivamente  al  fallimento,  grazie
all'intervento di altra societa' del gruppo  che  aveva  tacitato  la
INALCA, principale creditrice della AST, tanto che il fallimento  era
stato quindi chiuso per mancanza  di  passivo;  dal  che  si  sarebbe
dovuto concludere che non vi era  stata  alcuna  distrazione  o  che,
tutt'al piu', le operazioni in questione sarebbero state inquadrabili
nell'ambito delle previsioni di cui all'art. 217 n. 3 L.F.; 
        2) violazione dell'art. 43 c.p., in relazione agli artt. 216,
comma I, n. 1, 223, comma 1, 217, comma 1, n. 3, L.F.,  unitamente  a
vizio di motivazione, sull'assunto  che  sarebbe  stata  comunque  da
escludere la sussistenza  dell'elemento  soggettivo  del  reato,  non
essendovi prova della  consapevolezza,  da  parte  della  ricorrente,
quale  semplice  amministratore  di  diritto,  dell'esistenza   delle
condizioni che avrebbero reso penalmente illecite  le  operazioni  di
finanziamento in questione; 
        3) violazione degli artt. 236 L.F e 37 c.p., per essere stata
determinata  in  anni  dieci  la   durata   della   pena   accessoria
dell'inabilitazione   all'esercizio   di   imprese   commerciali    e
dell'incapacita'  all'esercizio  di  uffici  direttivi  in  qualsiasi
impresa, laddove detta durata avrebbe dovuto essere limitata a quella
della pena principale; 
    che la difesa di Rossi Stelio ha denunciato: 
        1) violazione dell'art. 106, commi 1 e  2,  c.p.p.,  e  degli
artt. 178 e l 79 c.p.p., sull'assunto che, avendo il Rossi, a seguito
del decesso  del  proprio  originario  difensore,  nominato,  per  il
giudizio d'appello, altro difensore nella persona del medesimo legale
che difendeva la coimputata Fabbri  Morena,  indebitamente  la  corte
d'appello avrebbe rilevato d'ufficio la  incompatibilita'  delle  due
posizioni, sulla sola base del contenuto degli interrogatori resi dai
coimputati nel corso delle indagini preliminari,  l'uno  delle  quali
(quello del Rossi) non acquisito al fascicolo per il  dibattimento  e
l'altro non utilizzabile (ne', di fatto,  utilizzato)  nei  confronti
del Rossi, ostandovi il  disposto  di  cui  all'art.  513,  comma  1,
c.p.p.,  ed  avrebbe  inoltre  omesso,  la  stessa  corte,  prima  di
provvedere alla nomina di un diverso difensore,  ai  sensi  dell'art.
97, comma 4, c.p.p., di assegnare al Rossi un termine  per  rimuovere
la suddetta incompatibilita'; 
        2) violazione dell'art. 526, commi  1  e  1-bis,  c.p.p.,  in
relazione agli arti. 513, comma 1, e 493, comma 3, c.p.p., per  avere
la corte d'appello valorizzato, a sostegno del confermato giudizio di
colpevolezza, il contenuto dell'interrogatorio reso al P.M. dal Rossi
il 21 dicembre 1996 (nella parte in cui il Rossi aveva affermato  che
scopo delle operazioni di finanziamento era stato soltanto quello  di
sottrarre le risorse finanziarie alle  pretese  creditorie,  ritenute
ingiustificate,   della   soc.   INALCA),   nonostante   che    detto
interrogatorio  non  fosse  stato  acquisito  al  fascicolo  per   il
dibattimento a seguito di produzione, senza opposizione, da parte del
pubblico ministero all'udienza  del  31  gennaio  2003  (come  invece
affermato nell'impugnata sentenza), ma risultasse soltanto l'avvenuta
utilizzazione, a soli fini di contestazione, di altro  interrogatorio
reso dal Rossi al giudice per  le  indagini  preliminari;  doglianza,
questa, cui si accompagna il richiamo adesivo alle  censure  espresse
nel ricorso proposto nell'interesse di Fabbri Morena a proposito  del
ritenuto carattere distrattivo delle operazioni di  finanziamento  in
questione; 
        3) erronea applicazione dell'art.  2639  c.c.,  unitamente  a
vizio di motivazione, sull'assunto che, avendo avuto il ricorrente un
ruolo  diretto  solo  con  riguardo  alle  specifiche  operazioni  di
finanziamento  formanti  oggetto  dell'imputazione,   avrebbe   fatto
difetto il requisito della "continuita'" che, alla stregua del citato
art. 2639 c.c., era da considerare richiesto perche' gli  si  potesse
attribuire,  come  invece  era   stato   fatto,   la   qualifica   di
amministratore di fatto dell'impresa fallita; 
        4) erronea applicazione degli arti. 216 L.F. e 37  C.P.,  per
le stesse ragioni gia' indicate nell'illustrazione del  terzo  motivo
del ricorso proposto nell'interesse di Fabbri Morena; 
 
                       Considerato in diritto 
 
    Che va preliminarmente rilevato come  il  reato  contestato  agli
imputati non possa ritenersi ancora prescritto, nonostante l'avvenuto
decorso, dalla data di consumazione,  coincidente  con  quella  della
declaratoria di fallimento, del termine di prescrizione  massima,  da
individuarsi  in  anni  quindici  (alla   stregua   della   normativa
precedente alla riforma introdotta dalla legge n.  251/2005,  tuttora
applicabile, nella specie, in virtu' del disposto di cui all'art. 10,
comma 3, di detta legge), dal momento detto termine va  prorogato  di
mesi tre e giorni tredici corrispondenti al  totale  dei  periodi  di
sospensione per rinvii chiesti dalla difesa e, segnatamente:  dal  30
gennaio al 7 febbraio 2001 per impegno  professionale  del  difensore
(gg. 8); dal 5  novembre  2001  al  25  febbraio  2002  per  asserita
impossibilita',  da  parte  dell'imputato  Rossi  Stelio,   all'epoca
dimorante all'estero, di rientrare in Italia fino al rilascio  di  un
duplicato del passaporto, il cui originale era andato smarrito  (mesi
tre e giorni cinque); 
    che, cio' premesso, appare fondato ed assorbente, allo stato,  il
primo motivo del ricorso proposto  nell'interesse  di  Rossi  Stelio,
atteso che, a prescindere dalla correttezza o meno della  riscontrata
incompatibilita' tra la difesa del Rossi e quella della  Fabbri,  sta
di fatto che  la  corte  d'appello,  come  segnalato  nel  gravame  e
confermato dall'esame degli  atti  (legittimo  e  doveroso  anche  in
questa sede, trattandosi  di  vizio  "in  procedendo"),  dopo  avere,
all'udienza del 28 maggio 2010, rilevato la detta incompatibilita'  e
quindi confermato la nomina del difensore d'ufficio  che,  a  seguito
dell'accertato decesso del difensore di fiducia del Rossi, era  stato
designato a costui, per l'eventualita' che egli non  avesse  nominato
un nuovo difensore di fiducia (cosa che egli  aveva  fatto  nominando
appunto lo stesso legale che difendeva la Fabbri), ha  dichiarato  la
contumacia  dell'imputato  e  proceduto,   quindi,   alla   immediata
celebrazione del giudizio conclusosi con la pronuncia della sentenza,
in palese violazione, quindi, del disposto di cui all'art.106,  comma
2, c.p.p., nella parte in cui  prescrive  all'autorita'  giudiziaria,
quando abbia rilevato una causa di incompatibilita' nella difesa,  di
fissare un termine per la sua rimozione; il che ha dato luogo ad  una
nullita' inquadrabile nell'ambito di  quelle  di  cui  all'art.  178,
comma l,  lett.  c),  c.p.p.,  da  riguardarsi  come  tempestivamente
dedotta con il ricorso, non  potendosi  ritenere  l'operativita'  del
disposto di cui all'art. 182, comma 2, prima ipotesi, c.p.p.,  atteso
che l'imputato non era presente e, benche' dichiarato contumace,  non
poteva dirsi rappresentato ad ogni effetto  dal  difensore  d'ufficio
confermato nell'occasione (e, per esso,  dal  sostituto  presente  in
udienza), dal momento che detta conferma  (in  realta'  qualificabile
come nuova nomina, volta  che,  "medio  tempore",  vi  era  stata  la
nomina,  da  parte  dell'imputato,  del  difensore  di  fiducia   poi
dichiarato incompatibile),  era  intervenuta  senza  che  l'imputato,
proprio a cagione della summenzionata violazione dell'art. 106, comma
2, c.p.p., avesse avuto modo  di  designare  un  nuovo  difensore  di
fiducia; 
    che,  estendendosi  la  suddetta  nullita'  anche   all'impugnata
sentenza, questa non puo', quindi, che essere annullata  con  rinvio,
nei confronti del Rossi Stelio,  per  la  celebrazione  di  un  nuovo
giudizio  d'appello,  ad  altra  sezione  della  corte  d'appello  di
Bologna; 
    che, con riguardo alla posizione di Fabbri Morena,  a  differenza
di quella del Rossi, il ricorso non appare definibile senza che venga
affrontato il  motivo  attinente  alla  durata  della  disposta  pena
accessoria; 
    che si ripropone quindi il problema,  gia'  affrontato  in  altre
occasioni, della compatibilita' dell'art. 216, ultimo comma, L.F., se
interpretato  nell'unico  modo  ritenuto  corretto  dalla  prevalente
giurisprudenza  di  questa  Corte,  con  gli  arti.  3  e  27   della
Costituzione; 
    che, al proposito, giova richiamare l'ordinanza del 23 marzo 2011
con la quale questa Corte ha gia' ritenuto di sollevare questione  di
costituzionalita' del citato art. 216, ultimo comma, L.F., sulla base
delle argomentazioni che di seguito si riportano: 
        «Invero, l'orientamento seguito pressoche'  costantemente  da
questa Corte in tema di bancarotta  fraudolenta  (rilevabile  sin  da
Cass. Sez. 5, 16 ottobre 1973 Tonarelli, CED Cass.  126018),  e'  nel
senso che la pena  accessoria  dell'inabilitazione  all'esercizio  di
imprese commerciali ed all'incapacita' di esercitare uffici direttivi
presso qualsiasi impresa, sia fissata inderogabilmente  nella  misura
di dieci anni, ancorandosi alla lettera della disposizione. Pertanto,
non essendo  indeterminata  la  sua  durata,  essa  si  sottrae  alla
disciplina di cui all'art. 37 cod. pen. 
    A fronte di siffatta lettura recenti sentenze (cfr. per es. Cass.
Sez. V, lOrzo 2010, Tonizzo, n. 9672; Cass., Sez. V, 31  marzo  2010,
Travaini, n.  23720)  hanno  ritenuto  che  siffatta  fissita'  della
sanzione  accessoria  contrasti   con   il   «volto   costituzionale»
dell'illecito penale, e che - comunque - il sistema  normativo  debba
lasciare comunque adeguati spazi alla discrezionalita'  del  giudice,
ai  fini  dell'adeguamento  della  risposta  punitiva  alle   singole
fattispecie concrete onde risulta illegittima la previsione che lasci
il  giudice  privo  di  sufficienti  margini   di   adattamento   del
trattamento sanzionatorio alle  peculiarita'  della  singola  ipotesi
concreta,   aderendo   all'ispirazione   ermeneutica   leggibile   in
provvedimenti del Giudice delle Leggi (C. Cost., Ord. 12 marzo 2008/4
aprile 2008 n. 91; C. Cost. Ord. 2 aprile 1980 n.  50)  per  cui  «In
linea di principio ... previsioni sanzionatorie rigide  non  appaiono
in armonia con il «volto costituzionale» del sistema  penale;  ed  il
dubbio di illegittimita' costituzionale potra' essere, caso per caso,
superato a condizione che, per la natura dell'illecito  sanzionatorio
e  per  la  misura  della  sanzione  prevista,  quest'ultima   appaia
ragionevolmente  "proporzionata"   rispetto   all'intera   gamma   di
comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato'. 
    Nel caso in esame la durata della sanzione  -  fissata  in  dieci
anni  dal  legislatore  fallimentare   -   appare   suscettibile   di
perplessita', in termini di  ragionevolezza,  in  ragione  della  sua
immutabilita',  al  variare  di  condotte  profondamente  diverse   e
difformemente sanzionate con la  pena  principale  (per  es.  la  cd.
bancarotta  preferenziale,  la  singolare  ampiezza   dell'escursione
afflittiva contemplata dalle circostanze speciali di cui all'art. 219
comma 1 e uc.  legge  fallimentare),  tutto  cio'  per  tacere  della
sproporzione che viene a crearsi nei riti alternativi - come nel caso
in esame - ove le soglie di pena risultano  grandemente  inferiori  a
cagione  della  diminuzione  premiale  consentita   o   imposta   dal
legislatore. 
    Sicche', nel caso in esame, la soluzione normativa (a prescindere
dalla profonda diversita' della sanzione accessoria rispetto a quella
ordinaria, alla quale non sembra corrispondere difforme  trattamento,
in termini di  durata)  evidenzia  la  negazione  del  principio  del
'minore    sacrificio    necessario'    nella    risposta    punitiva
dell'ordinamento  alla  violazione  penale,  anche   quando   possano
sussistere agevoli parametri mediante cui modulare  la  stessa,  caso
per caso, cosi' tramutando  la  rigidita'  della  previsione  in  una
ingiustificata parificazione di situazioni tra loro diverse. 
    La sottrazione del giudizio ai  consueti  criteri  dettati  dagli
art. 132 e  133  cod.  pen.  urta,  a  parere  della  Corte,  con  le
previsioni costituzionali degli art. 3, 27, e 111 (quest'ultima norma
regolante il cd. 'giusto processo') Cost. 
    Al contempo, dubita questo  Collegio  che  il  Giudice  Ordinario
possa superare il dato testuale dell'art. 216 u.c. legge fall. e  che
piuttosto  spetti  alla  Corte   costituzionale   l'affermazione   di
illegittimita' della previsione,  quando  essa  sia  interpretata  in
aderenza alla espressa volonta' legislativa"; 
        che tali argomentazioni meritano,  ad  avviso  del  collegio,
piena adesione; 
        che, pertanto, disposta la  separazione  della  posizione  di
Fabbri Morena da quella d i Rossi Stelio, debbasi rinnovare, come  da
dispositivo che segue (non risultando  ancora  intervenuta  decisione
della   Corte   costituzionale),   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 216 ult. comma l. fall.  in  relazione  agli
art. 3 e 27 Cost.;