TRIBUNALE ORDINARIO DI CUNEO 
 
    Il giudice del  lavoro,  nella  persona  della  dott.ssa  Daniela
Rispoli ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa iscritta  al
n. 277/2016 R.G. Lav. promossa da: 
        Dario Bisotti,  Lorenzo  Capello,  Giuseppe  Lovera,  Carmine
Mascolo, Filippo Mascolo,  Nicola  Mascolo,  Franca  Monchiero,  Anna
Rainero, Vincenzo Aprea,  tutti  con  il  patrocinio  dell'avv  Aprea
Fabio, ricorrenti; 
    Contro I.N.P.S. sede centrale, I.N.P.S. sede di  Savigliano,  con
il patrocinio dell'avv. Cappiello Marina, convenuto. 
    I ricorrenti, titolari di pensione di anzianita', hanno  allegato
di  non  aver  usufruito,  per  effetto  dell'art.  24,   comma   25,
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni  urgenti  per  la
crescita,  l'equita'  e  il  consolidamento  dei   conti   pubblici),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della  legge  22
dicembre 2011; hanno poi allegato che la norma in questione e'  stata
dichiarata costituzionalmente illegittima dalla sentenza  n.  70/2015
della Corte costituzionale; quindi hanno allegato che la  fattispecie
e'  stata  nuovamente  disciplinata  dal  decreto-legge  n.  65/2015,
convertito con modificazioni dalla legge n. 109/2015. 
    Secondo  i  conteggi  prodotti  (non   contestati   dalla   parte
convenuta), in applicazione della normativa previgente alla normativa
dichiarata  incostituzionale,  essi  hanno  dedotto   che   avrebbero
maturato crediti nei confronti della ente convenuto, travolti  invece
dalla  normativa  sopravvenuta,   di   cui   hanno   prospettato   la
illegittimita' costituzionale. 
    In  particolare  Bisotti,  detratto  quanto  gia'   ricevuto   in
applicazione  del  disposto  di  cui  al  decreto-legge  n.  65/2015,
risulterebbe creditore della somma di euro  4.201,62,  Capello  della
somma di euro 2.994,93, Lovera della somma di euro 4.232,01,  Mascolo
Carmine della somma di euro 3.567,44, Mascolo  Filippo  la  somma  di
euro 3.916,82, Mascolo Nicola della somma di euro 2.176,97, Monchiero
della somma di euro 3.426,11, Rainero della somma di  euro  4.536,14,
Aprea della somma di euro 3.113,82. 
    Hanno  quindi  lamentato  che  il  pregiudizio  derivante   dalla
perequazione  minima   ricevuta   ha   condizionato   la   successive
rivalutazioni. 
    Previa  pertanto  rimessione  alla  Corte  costituzionale   della
questione della legittimita' costituzionale  della  normativa,  hanno
chiesto l'accertamento  del  diritto  alla  rivalutazione  automatica
della pensione per gli anni dal 2011 al 2015, la  condanna  dell'INPS
al pagamento  di  quanto  dovuto  e  non  versato,  e  l'accertamento
dell'importo delle rispettive pensioni per l'anno 2016. 
    L'INPS si costituiva chiedendo il rigetto del ricorso. 
 
     Rilevanza della questione di illegittimita' costituzionale 
 
    I  ricorrenti  sulla  base  del   meccanismo   di   rivalutazione
automatica delle pensioni cosi' come introdotto dall'art. 34, comma 1
della legge n. 448/98, avrebbero diritto alla rivalutazione annua del
trattamento  pensionistico  percepito:  la  rivalutazione  era  stata
infatti bloccata per gli anni  2012-2013,  in  virtu'  dell'art.  24,
comma  25,  decreto-legge  n.  201/2011  convertito  dalla  legge  n.
214/2011, ma tale norma e' stata dichiarata incostituzionale  con  la
sentenza della Corte costituzionale n. 70/2015. 
    Senonche', il legislatore e'  intervenuto  con  decreto-legge  n.
65/2015  (conv.  nella  legge  n.  109/2015)  con  normativa  che  si
autoqualifica  quale  strumento  di  attuazione  di  tale  pronuncia,
affermando  «Ritenuta  la  straordinaria  necessita'  e  urgenza   di
provvedere in materia di rivalutazione automatica delle  pensioni  al
fine di dare attuazione ai principi enunciati  nella  sentenza  della
Corte costituzionale n. 70 del 2015...» 
    Il provvedimento ha modificato l'art. 24,  comma  25,  dichiarato
incostituzionale, e ha aggiunto il comma 25-bis. 
    L'art. 1, primo comma,  decreto-legge  n.  65/2015  (conv,  nella
legge n. 109/2015) ha infatti stabilito quanto segue: «1. Al fine  di
dare attuazione ai principi  enunciati  nella  sentenza  della  Corte
costituzionale  n.  70  del  2015,   nel   rispetto   del   principio
dell'equilibrio di bilancio e degli obiettivi  di  finanza  pubblica,
assicurando  la  tutela  dei  livelli  essenziali  delle  prestazioni
concernenti i diritti civili  e  sociali,  anche  in  funzione  della
salvaguardia della solidarieta' intergenerazionale, all'art.  24  del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni,
dalla legge 22 dicembre 2011, n.  214,  sono  apportate  le  seguenti
modificazioni: 
        1) il comma 25 e' sostituito dal seguente: 
    «25. La rivalutazione automatica dei  trattamenti  pensionistici,
secondo il meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1, della legge 23
dicembre  1998,  n.  448,  relativa  agli  anni  2012  e   2013,   e'
riconosciuta: 
    a) nella misura del 100 per cento per i trattamenti pensionistici
di importo complessivo fino a tre volte il trattamento  minimo  INPS.
Per le pensioni di importo  superiore  a  tre  volte  il  trattamento
minimo INPS inferiore a  tale  limite  incrementato  della  quota  di
rivalutazione automatica spettante  sulla  base  di  quanto  previsto
dalla  presente  lettera,  l'aumento  di  rivalutazione  e'  comunque
attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; 
    b) nella misura del 40 per cento per i trattamenti  pensionistici
complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo  INPS  e
pari o inferiori a quattro  volte  il  trattamento  minimo  INPS  con
riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per  le
pensioni di importo superiore a quattro volte il predetto trattamento
minimo  e  inferiore  a  tale  limite  incrementato  della  quota  di
rivalutazione automatica spettante  sulla  base  di  quanto  previsto
dalla  presente  lettera,  l'aumento  di  rivalutazione  e'  comunque
attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; 
    c) nella misura del 20 per cento per i trattamenti  pensionistici
complessivamente superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS
e pari o inferiori a cinque volte  il  trattamento  minimo  INPS  con
riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per  le
pensioni di importo superiore a cinque volte il predetto  trattamento
minimo  e  inferiore  a  tale  limite  incrementato  della  quota  di
rivalutazione automatica spettante  sulla  base  di  quanto  previsto
dalla  presente  lettera,  l'aumento  di  rivalutazione  e'  comunque
attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; 
    d) nella misura del 10 per cento per i trattamenti  pensionistici
complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo  INPS
e pari o inferiori  a  sei  volte  il  trattamento  minimo  INPS  con
riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per  le
pensioni di importo superiore a sei  volte  il  predetto  trattamento
minimo  e  inferiore  a  tale  limite  incrementato  della  quota  di
rivalutazione automatica spettante  sulla  base  di  quanto  previsto
dalla  presente  lettera,  l'aumento  di  rivalutazione  e'  comunque
attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; 
    e)  non  e'  riconosciuta   per   i   trattamenti   pensionistici
complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS con
riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi». 
        2) dopo il comma 25 sono inseriti i seguenti: 
    «25-bis   -   La   rivalutazione   automatica   dei   trattamenti
pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1,
della legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012 e  2013
come  determinata  dal  comma  25,  con   riguardo   ai   trattamenti
pensionistici  di  importo  complessivo  superiore  a  tre  volte  il
trattamento minimo INPS e' riconosciuta: 
    a) negli anni 2014 e 2015 nella misura del 20 per cento; 
    b) a decorrere dall'anno 2016 nella misura del 50 per cento». 
    Cio'  che  tutti  i  ricorrenti  deducono  allora   e'   che   in
applicazione della norma di  cui  al  decreto-legge  n.  65/15  hanno
ottenuto a titolo  di  arretrati  dovuti  per  effetto  della  citata
pronuncia n. 70/2015 della Corte costituzionale  un  importo  ridotto
per effetto della perequazione minima stabilita dalla norma da ultimo
introdotta, anziche' l'ammontare loro dovuto  in  applicazione  della
legge n. 448/98. Deducono poi che l'effetto di «trascinamento»  della
minima  rivalutazione,   legato   alla   mancata   previsione   della
capitalizzazione della rivalutazione annuale determina una definitiva
erosione  dell'importo  delle  loro  pensioni  anche  per  gli   anni
successivi. 
    La disciplina da ultimo introdotta pertanto ha certamente  inciso
sul valore del trattamento pensionistico riconosciuto ai ricorrenti. 
    Deve ritenersi chiara, perche' espressa,  l'applicabilita'  della
norma sopravvenuta alle posizioni dei ricorrenti, evidente invero che
quelli che i ricorrenti contestano sono proprio gli  effetti  che  la
nuova disciplina vuole produrre e produce,  senza  che  se  ne  possa
prospettare una interpretazione diversa  che  sola  consentirebbe  di
evitare il ricorso alla pronuncia sulla legittimita' della stessa. Di
qui la rilevanza della questione proposta. 
 
                     Non manifesta infondatezza 
 
    L'art.  24,  comma  25,  decreto-legge  n.  201/2011  (conv.  con
modifiche   nella   legge   n.   214/2011)   aveva   stabilito,   «in
considerazione della  contingente  situazione  finanziaria»,  che  la
rivalutazione automatica dei trattamenti  pensionistici,  secondo  il
meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1, della legge  23  dicembre
1998,  n.  448,  fosse  riconosciuta,  per  gli  anni  2012  e  2013,
esclusivamente ai  trattamenti  pensionistici  d'importo  complessivo
fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per
cento. 
    Le pensioni di valore superiore a tre volte il trattamento minimo
INPS non godevano pertanto di alcuna rivalutazione. Il blocco operava
quindi per le pensioni d'importo superiore ad € 1.217,00 netti. 
    Con sentenza n. 70 del 30 aprile 2015 la Corte costituzionale  ha
dichiarato   l'incostituzionalita'   dell'art.    24,    comma    25,
decreto-legge n. 201/2011, per contrasto  con  gli  articoli  3,  36,
primo comma, e 38, secondo  comma,  Cost.,  nella  parte  in  cui  ha
previsto, per le ragioni anzidette, che la  rivalutazione  automatica
fosse  riconosciuta  esclusivamente  ai   trattamenti   pensionistici
d'importo complessivo fino a tre volte il  trattamento  minimo  INPS,
nella misura del 100 per cento. 
    La  pronuncia  ha,  o  avrebbe   dovuto   avere,   l'effetto   di
ripristinare  l'integrale  applicazione  del  meccanismo  perequativo
previsto dall'art. 34, primo comma, legge n. 448/98. 
    L'intervento  di  cui  al  decreto-legge  n.  65/2015  ha  invece
reintrodotto per gli stessi anni,  2012-2013,  un  nuovo  sostanziale
blocco della perequazione automatica, pur operando  delle  modifiche.
Nello   specifico   ha   confermato   l'esenzione   integrale   dalla
disattivazione per le sole pensioni d'importo superiore a  tre  volte
il  minimo;  ha  elevato  la  soglia  dell'esclusione  totale   della
rivalutazione da tre a sei volte il minimo; tra la une e le altre  ha
inserito fasce intermedie, identificate sempre mediante  il  rapporto
di valore tra trattamento complessivo in godimento e pensione minima,
cui applicare la perequazione in misura parziale, con una percentuale
inversamente proporzionale allo scarto tra il valore della pensione e
quello della pensione minima (40%  per  quelli  compresi  tra  tre  e
quattro volte la minima; 20% per quelli compresi tra quattro e cinque
volte; 10% per quelli compresi  tra  cinque  e  sei  volte).  Ha  poi
ulteriormente  limitato  l'operativita'  della  rivalutazione   cosi'
stabilita, nella misura del 20% per il biennio seguente, 2014-2015, e
del 50% per il 2016. 
    Si prospetta in primo luogo la non manifesta  infondatezza  della
questione della legittimita' costituzionale della norma per contrasto
con gli articoli 3, 36, 38 della Costituzione. 
    Le modifiche apportate all'art. 24, comma  25,  decreto-legge  n.
201/2011 dal decreto-legge n. 65/2011 non risultano tali da sottrarre
la norma alle medesime  censure  di  incostituzionalita'  gia'  fatte
presenti e rilevate dalla Corte costituzionale. 
    Si  ripropongono  infatti  i  vizi  gia'  rilevati  dalla   Corte
costituzionale nel testo originario della norma:  manca  il  rispetto
del  vincolo  di  scopo,  tenuto  conto   della   genericita'   delle
giustificazioni poste a base del bilanciamento tra ragioni  di  spesa
pubblica e tutela dei diritti dei pensionati; sono ancora  una  volta
valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalita' nel meccanismo
perequativo; viene confermato il carattere definitivo del  sacrificio
economico, perche' manca una norma che preveda meccanismi di recupero
futuro del valore reale  dei  trattamenti  incisi;  per  le  pensioni
superiori di sei volte  al  trattamento  minimo  viene  riprodotto  e
prolungato nel tempo l'azzeramento totale della perequazione. 
    Conviene  allora  richiamare  le  ragioni  per   cui   la   Corte
costituzionale  ha  dichiarato  l'incostituzionalita'  dell'art.   24
decreto-legge n. 201/2011. 
    La Consulta parte da  precisi  presupposti,  sulla  scorta  delle
acquisizioni rilevabili dalle precedenti pronunce in materia:  «8.  -
Dall'analisi dell'evoluzione normativa in subjecta materia, si evince
che la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici  e'  uno
strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il  rispetto
del criterio di adeguatezza di cui all'art. 38, secondo comma,  Cost.
Tale strumento si presta contestualmente a innervare il principio  di
sufficienza della retribuzione di cui all'art.  36  Cost.,  principio
applicato,  per  costante  giurisprudenza   di   questa   Corte,   ai
trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione  differita  (fra
le altre, sentenza n. 208 del 2014 e sentenza n. 116 del  2013).  Per
le sue caratteristiche di neutralita' e obiettivita'  e  per  la  sua
strumentalita'  rispetto   all'attuazione   dei   suddetti   principi
costituzionali,  la  tecnica  della  perequazione  si  impone,  senza
predefinirne   le   modalita',   sulle   scelte   discrezionali   del
legislatore, cui spetta intervenire per determinare  in  concreto  il
quantum di tutela di volta in volta necessario.  Un  tale  intervento
deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui  agli  articoli  36,
primo comma,  e  38,  secondo  comma,  Cost.,  principi  strettamente
interconnessi, proprio in ragione  delle  finalita'  che  perseguono.
(...) Pertanto, il criterio di ragionevolezza, cosi'  come  delineato
dalla giurisprudenza citata in relazione ai principi contenuti  negli
articoli 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., circoscrive  la
discrezionalita' del legislatore e vincola le sue scelte all'adozione
di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali.» 
    Percio': la perequazione automatica dei trattamenti  di  pensione
e' uno strumento tecnico diretto a garantire nel  tempo  il  rispetto
del criterio di adeguatezza di cui all'art. 38, secondo comma, Cost.,
connesso al principio  di  sufficienza  della  retribuzione,  di  cui
all'art. 36, primo comma, Cost., dovendosi intendere  il  trattamento
di quiescenza come una retribuzione  differita  (su  cui  gia'  Corte
costituzionale  n.  208/2014,  n.  116/2013  nonche',  con  specifico
riferimento alla dinamica  retribuzione-pensione,  n.  226/1993);  le
scelte legislative devono muoversi secondo finalita' ragionevoli, nel
rispetto del principio della  eguaglianza  sostanziale  (ex  art.  3,
secondo comma, Cost.), ed evitando  che  esse  si  risolvano  in  una
disparita' di trattamento per alcune categorie di pensionati. 
    Lo «scostamento» tra dinamica delle retribuzioni e  quella  delle
pensioni deve pertanto mantenersi nel limite del «sopportabile» (cfr.
ancora Corte  costituzionale  n.  226/93),  attraverso  il  costante,
bilanciamento delle esigenze di rispetto  delle  risorse  finanziarie
disponibili con la salvaguardia «irrinunciabile delle esigenze minime
di protezione della persona (Corte cost., n. 316/2010), alla luce dei
principio di cui  agli  articoli  36  e  38,  secondo  comma,  Cost.:
proporzionalita' e adeguatezza, che devono  sussistere  non  solo  al
momento del collocamento a riposo, ma vanno «costantemente assicurati
anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere  d'acquisto
della moneta». Ne consegue che seppur non e' dovuta  una  coincidenza
automatica ed integrale tra pensione ed  ultima  retribuzione  (Corte
cost., n. 316/2010), va comunque garantito  il  costante  adeguamento
della prima alla seconda (Corte cost., n. 501/88). 
    La Corte e'  quindi  giunta  all'enunciazione  del  principio  di
diritto su cui si fonda la pronuncia di illegittimita': 
        «10. - La censura relativa  al  comma  25  dell'art.  24  del
decreto-legge n. 201 del 2011, se  vagliata  sotto  i  profili  della
proporzionalita' e adeguatezza del trattamento pensionistico,  induce
a ritenere che siano stati valicati  i  limiti  di  ragionevolezza  e
proporzionalita',  con  conseguente  pregiudizio  per  il  potere  di
acquisto del trattamento stesso e  con  "irrimediabile  vanificazione
delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il  tempo
successivo alla cessazione della propria attivita'" (sentenza n.  349
del 1985). 
    Non  e'  stato  dunque  ascoltato  il   monito   indirizzato   al
legislatore con la sentenza n. 316 del 2010. 
    Si  profila  con  chiarezza,  a   questo   riguardo,   il   nesso
inscindibile che lega il dettato degli articoli 36,  primo  comma,  e
38, secondo comma, Cost. (fra le piu' recenti, sentenza  n.  208  del
2014, che richiama la sentenza n. 441 del 1993). Su questo terreno si
deve   esercitare   il   legislatore   nel   proporre   un   corretto
bilanciamento, ogniqualvolta si profili l'esigenza di un risparmio di
spesa, nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo  "al  fine  di
evitare  che  esso  possa  pervenire  a  valori  critici,  tali   che
potrebbero rendere inevitabile l'intervento correttivo  della  Corte"
(sentenza n. 226 del 1993). 
    La  disposizione   concernente   l'azzeramento   del   meccanismo
perequativo, contenuta nel comma 24 dell'art. 25 del decreto-legge n.
201 del 2011, come convertito, si limita a  richiamare  genericamente
la "contingente situazione finanziaria", senza che emerga dal disegno
complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze  finanziarie  sui
diritti oggetto di bilanciamento, nei  cui  confronti  si  effettuano
interventi cosi' fortemente incisivi. Anche in  sede  di  conversione
(legge 22 dicembre 2011, n. 214),  non  e'  dato  riscontrare  alcuna
documentazione  tecnica  circa  le  attese  maggiori  entrate,   come
previsto dall'art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196,
recante "Legge di contabilita' e finanza pubblica"  (sentenza  n.  26
del 2013, che interpreta il citato art.  17  quale  "puntualizzazione
tecnica" dell'art. 81 Cost.). 
    L'interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari
di trattamenti previdenziali modesti, e' teso alla conservazione  del
potere di acquisto delle somme  percepite,  da  cui  deriva  in  modo
consequenziale il diritto a una prestazione  previdenziale  adeguata.
Tale diritto, costituzionalmente fondato,  risulta  irragionevolmente
sacrificato nel  nome  di  esigenze  finanziarie  non  illustrate  in
dettaglio.  Risultano,  dunque,  intaccati  i  diritti   fondamentali
connessi  al  rapporto  previdenziale,  fondati   su   inequivocabili
parametri costituzionali:  la  proporzionalita'  del  trattamento  di
quiescenza, inteso  quale  retribuzione  differita  (art.  36,  primo
comma, Cost.)  e  l'adeguatezza  (art.  38,  secondo  comma,  Cost.).
Quest'ultimo e' da intendersi quale espressione certa, anche  se  non
esplicita, del principio di solidarieta' di cui all'art. 2 Cost. e al
contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale  di  cui
all'art. 3, secondo comma, Cost.». 
    Una sospensione a tempo indeterminato  della  perequazione  o  la
reiterazione frequente di misure dirette a paralizzarla, esporrebbero
il sistema pensionistico  a  tensioni  evidenti  con  i  principi  di
proporzionalita'   ed   adeguatezza:   «la   sospensione   a    tempo
indeterminato  del  meccanismo  perequativo,  ovvero   la   frequente
reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbe  il  sistema
ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di  ragionevolezza
e proporzionalita',  poiche'  risulterebbe  incrinata  la  principale
finalita' di tutela, insita nel meccanismo della perequazione» (sent.
n. 316/2010). 
    Difettano anche nella norma qui in esame i necessari requisiti di
«eccezionalita'»  delle  esigenze  (onde  far  fronte  a   specifiche
contingenze),   tali   non    potendosi    ritenere    gli    effetti
nell'ordinamento di norma  illegittima,  e  di  adeguata  limitazione
degli effetti a quanto indispensabile a far fronte a tali esigenze. 
    Il legislatore del 2011 e' stato censurato dalla  Corte  perche',
avendo utilizzato un generico richiamo alla  «contingente  situazione
finanziaria», senza rispettare il vincolo di  scopo  ineludibile  del
sacrificio economico imposto ai pensionati, non aveva  esercitato  il
corretto bilanciamento tra ragioni di spesa e tutela  del  potere  di
acquisto del trattamento pensionistico,  essendo  rimasto  del  tutto
privo di evidenza il criterio di bilanciamento dei degli interessi di
rango costituzionale concretamente adottato. 
    Ma allo stesso modo, l'introduzione del nuovo testo dell'art.  24
decreto-legge n. 201/11, cosi' come sostituito con  il  decreto-legge
n.  65/15,  e'  stato  giustificato  dal  «rispetto   del   principio
dell'equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica»  e
dalla «salvaguardia della solidarieta' intergenerazionale», cioe'  da
enunciazioni generiche e relative a finalita' gia' insite di per  se'
(ai sensi, rispettivamente, degli articoli 81 e  38  Cost.)  in  ogni
iniziativa legislativa adottata nella materia pensionistica. 
    Nella relazione illustrativa  al  disegno  di  legge  le  ragioni
vengono espresse ponendo come  unico  riferimento  i  maggiori  oneri
finanziari che lo Stato sopporterebbe in via decrescente tra il  2012
ed il 2016 proprio per effetto  della  riattivazione  del  meccanismo
perequativo dell'art. 69, legge n. 388/2000 conseguente alla sentenza
n. 70/15 della Corte costituzionale, mentre manca  qualsiasi  accenno
alla ragione per cui si intende comunque riequilibrare  il  disavanzo
con l'intervento sul sistema pensionistico e sul perche'  esso  venga
modulato con le specificita' di cui sopra si e' detto. 
    Anche nelle enunciazioni di principio  e'  pertanto  gia'  palese
l'elusione del giudicato costituzionale. 
    Inoltre, il testo dell'art.  24  comma  25  cosi'  sostituito  ha
effetti distribuiti su piu' anni e destinati a diventare  permanenti,
non essendo  previsto  il  recupero  futuro  del  mancato  incremento
rivalutativo della base di calcolo dei trattamenti pensionistici. Con
un'unica  disposizione  si  e'  dunque  realizzata   di   fatto   una
reiterazione annuale della paralisi del  meccanismo  perequativo,  in
contrasto col monito piu' volte ripetuto dalla Corte costituzionale. 
    Vale la pena ricordare che la Corte  ha  chiaramente  evidenziato
che «Deve  rammentarsi  che,  per  le  modalita'  con  cui  opera  il
meccanismo della perequazione, ogni eventuale perdita del  potere  di
acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, e',  per
sua natura, definitiva. Le successive rivalutazioni saranno, infatti,
calcolate non sul valore reale originario, bensi' sull'ultimo importo
nominale, che dal mancato adeguamento e' gia' stato intaccato». 
    Una delle ragioni di censura della norma, che risiede  nel  fatto
che  essa  non  abbia  previsto  alcun   «recupero»   dell'incremento
perequativo a partire degli anni successivi, incremento  che  avrebbe
potuto avvenire se al  termine  del  blocco  la  rivalutazione  fosse
applicata partendo  da  una  base  di  pensione  gia'  «virtualmente»
aumentata dell'importo di perequazione non corrisposto, non  solo  e'
stata mantenuta, ma si e' aggrevata. 
    Vengono  inoltre  incise  pensioni  anche  di  valore   economico
modesto, comunque non rilevante, con applicazione del  meccanismo  di
rivalutazione in percentuali tali da svuotarne il valore. 
    Conviene sul punto osservare, con la difesa, come la stessa Corte
abbia anche con riferimento alle soglie di ragionevolezza dei  metodi
applicati,  sviluppato  delle  differenziazioni  che  consentono   di
effettuare delle valutazioni. 
    La Corte ha infatti valutato le  diverse  scelte  effettuate  dal
legislatore,  avallando,  con  dei  limiti,  la  scelta  del  passato
legislatore di diversificare la  dinamica  perequativa  per  aree  di
riferimento. 
    Sono state individuate  le  due  diverse  tecniche  adottate  del
legislatore per diversificare le percentuali di incremento: la prima,
per fasce di importo pensionistico, presuppone  l'attribuzione  della
perequazione  a  tutta  la  platea  dei  pensionati,  sia  pure   con
percentuali di incremento decrescenti per ciascuna fascia di  importo
pensionistico percepito con il crescere del trattamento  complessivo.
Ne costituiscono esempi (citati in  sentenza)  l'art.  24,  comma  4,
legge n. 41/1986; l'art. 11, decreto legislativo  n.  503/92;  l'art.
69, legge n. 388/2000. 
    Tale sistema viene esplicitamente validato dalla Corte in  quanto
«non  discriminava  tra  trattamenti  pensionistici  complessivamente
intesi, bensi' tra fasce di importo». 
    La seconda, per trattamenti complessivi percepiti  e  dunque  per
scaglioni di soggetti destinatari in base ai  trattamenti  percepiti,
e' solo citata (v. art. 1, comma 483, legge n. 147/2013). 
    Tale norma reca uno scarto progressivo moderato delle percentuali
di perequazione (95% per i trattamenti superiori al triplo del minimo
INPS; 75% per quelli  superiori  a  quattro  volte;  50%  per  quelli
superiori al quintuplo; 40-45% per quelli superiori al sestuplo). 
    L'adozione di tale tecnica e' profondamente diversa  dalla  prima
poiche'  attribuisce  ai  pensionati  con  trattamenti  maggiori  una
percentuale minore di perequazione su tutto il trattamento percepito,
laddove con il precedente sistema  gli  stessi  pensionati  avrebbero
percepito una percentuale di incremento piu' favorevole per le  quote
piu' basse del loro trattamento. 
    E'  solo  la  modestia  e  con  cio',  la  ragionevolezza,  della
decrescita della percentuale ad escludere radicali differenze tra  le
diverse platee di percettori, e  con  cio'  discriminazioni  tra  gli
stessi. 
    La riduzione delle percentuali (40% invece del  95%;  20%  invece
del 75%; 10% invece del 50%; zero invece del 40-50%) rende  la  norma
estremamente differente e finisce per offrire aumenti poco  piu'  che
simbolici, a fronte di una  diversificazione  operata  non  piu'  per
fasce di importo ma per soggetti percettori. 
    Si prospetta in secondo luogo come non  manifestamente  infondata
la questione di legittimita' della norma alla stregua  dell'art.  136
Cost., anche in conseguenza di quanto sopra osservato. 
    La norma in esame invero, presentandosi come volta ad  affrontare
le conseguenze della pronuncia di illegittimita', senza peraltro  che
si fosse creato  un  vero  e  proprio  vuoto  normativo,  per  essere
automatica l'applicabilita' della norma vigente sino al decreto-legge
del 2011, ha negli effetti vanificato la  portata  retroattiva  della
pronuncia  di   incostituzionalita',   eludendone   il   significato,
riproducendo la stessa tecnica di  applicazione  della  perequazione,
solo lievemente  edulcorata,  ma  non  maniera  tale  da  riuscire  a
correggerne la gia' ritenuta irragionevolezza. 
    Violando con cio' il c.d. «giudicato costituzionale». 
    Deve ricordarsi al riguardo che secondo le recenti pronunce della
stessa Corte, deve essere adottato,  nel  valutare  l'estensione  del
giudicato costituzionale, un approccio sostanziale. 
    La Corte ha infatti affermato che  l'illegittimita'  della  norma
che, «evidentemente priva  di  autonomia,  si  prefigge  soltanto  di
ricostituire una base normativa per "effetti" e "rapporti" relativi a
contratti che,  in  conseguenza  della  pronuncia  di  illegittimita'
costituzionale,  ne  sarebbero  rimasti  privi:  ne'   il   carattere
temporaneo della disposizione sembra risolvere il problema e  nemmeno
attenuarne la portata. 
    Al riguardo, va rammentato come, sin da epoca ormai risalente, la
giurisprudenza costituzionale non abbia mancato  di  sottolineare  il
rigoroso significato della norma contenuta nell'art. 136 Cost.: su di
essa - si e' detto - "poggia il contenuto pratico di tutto il sistema
delle garanzie costituzionali, in quanto essa  toglie  immediatamente
ogni  efficacia  alla  norma  illegittima",  senza  possibilita'   di
"compressioni od incrinature nella sua rigida applicazione" (sentenza
n. 73 del  1963,  che  dichiaro'  la  illegittimita'  di  una  legge,
successiva alla pronuncia di illegittimita'  costituzionale,  con  la
quale il legislatore aveva dimostrato "alla evidenza" la volonta'  di
"non accettare la immediata cessazione dell'efficacia giuridica della
norma illegittima, ma di prolungarne  la  vita  sino  all'entrata  in
vigore della nuova  legge";  tra  le  altre  pronunce  risalenti,  la
sentenza n. 88  del  1966,  ove  si  e'  precisato  che  il  precetto
costituzionale, di cui si e' detto, sarebbe  violato  "non  solo  ove
espressamente si disponesse  che  una  norma  dichiarata  illegittima
conservi la sua efficacia", ma anche ove una legge, per il  modo  con
cui provvede a regolare le fattispecie verificatesi prima  della  sua
entrata  in   vigore,   perseguisse   e   raggiungesse,   "anche   se
indirettamente, lo stesso risultato"). Principi,  questi,  ripresi  e
ribaditi in numerose altre successive decisioni  (fra  le  altre,  le
sentenze n. 73 del 2013; n. 245 del 2012; n. 354 del 2010; n. 922 del
1988; n. 223 del 1983). 
    Se appare, infatti, evidente che una pronuncia di  illegittimita'
costituzionale non possa,  in  linea  di  principio,  determinare,  a
svantaggio del legislatore, effetti corrispondenti  a  quelli  di  un
"esproprio" della potesta' legislativa sul punto - tenuto anche conto
che una  declaratoria  di  illegittimita'  ha  contenuto,  oggetto  e
occasione circoscritti dal "tema" normativo devoluto e dal "contesto"
in cui la pronuncia demolitoria e' chiamata ad iscriversi -,  e'  del
pari evidente, tuttavia, che questa non possa  risultare  pronunciata
"inutilmente", come accadrebbe quando una accertata violazione  della
Costituzione  potesse,  in  una   qualsiasi   forma,   inopinatamente
riproporsi. E se, percio', certamente il legislatore  resta  titolare
del potere di disciplinare, con un nuovo atto, la stessa materia,  e'
senz'altro  da  escludere  che  possa  legittimamente  farlo  -  come
avvenuto nella specie - limitandosi a "salvare", e cioe' a "mantenere
in vita", o a ripristinare gli effetti prodotti da disposizioni  che,
in ragione della dichiarazione di illegittimita' costituzionale,  non
sono piu' in grado di produrne. Il contrasto con l'art. 136 Cost. ha,
in un simile frangente, portata addirittura letterale. 
    In altri termini: nel mutato contesto di  esperienza  determinato
da una pronuncia caducatoria, un conto sarebbe riproporre, per quanto
discutibilmente, con un nuovo provvedimento, anche la stessa volonta'
normativa censurata dalla Corte; un altro conto e' emanare  un  nuovo
atto diretto esclusivamente a prolungare  nel  tempo,  anche  in  via
indiretta, l'efficacia di norme che "non possono  avere  applicazione
dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione"  (art.  30,
terzo comma,  della  legge  11  marzo  1953,  n.  87  -  Norme  sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale)»  (Corte
cost., 16 luglio 2015, n. 169). 
    L'indirizzo espresso da questa  decisione  trova  conferma  nella
gia' citata sentenza n. 173/2016: pur  escludendo  nella  fattispecie
l'elusione del giudicato costituzionale (rappresentato dalla sentenza
n.  116/2013),  infatti,  ne  ha  vagliato  il  rispetto  anche   con
riferimento non solo al tenore testuale della  norma  successiva,  ma
anche ai suoi «effetti» e finanche alle «finalita'». 
    La  emanazione  della  norma   ha   chiaramente   impedito   alla
declaratoria d'illegittimita' costituzionale dell'art. 24, comma  25,
decreto-legge  n.  201/2011  di  produrre  le  conseguenze   previste
dall'art. 136 Cost., cioe' la cessazione ex tunc degli effetti  della
norma dal giorno successivo alla pubblicazione della pronuncia. 
    Non manifestamente infondata e'  allora  anche  la  questione  di
costituzionalita' alla stregua dell'art. 136 Cost.