ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 3, primo comma,
 della  legge  regionale  siciliana  15  maggio  1986,  n.  26  (Norme
 integrative  della  legge regionale 10 agosto 1985, n. 37, relativa a
 "Nuove    norme    in    materia    di    controllo    dell'attivita'
 urbanistico-edilizia,  riordino  edilizio  e  sanataria  delle  opere
 abusive") promosso con ordinanza emessa il 3 giugno 1988 dalla  Corte
 di  Cassazione nel procedimento penale a carico di Lanzafame Placido,
 iscritta al n. 808 del registro ordinanze  1988  e  pubblicata  nella
 Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  3,  prima serie speciale,
 dell'anno 1989;
    Visto l'atto d'intervento della Regione Sicilia;
    Udito   nell'udienza  pubblica  dell'11  aprile  1989  il  Giudice
 relatore Renato Dell'Andro;
    Udito l'avv. Francesco Tinaglia per la Regione Sicilia;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Nel corso d'un procedimento penale per esecuzione di lavori
 edilizi senza concessione la Corte di  Cassazione,  con  ordinanza  3
 giugno  1988,  ha  sollevato questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 3, primo comma, della legge regionale siciliana  15  maggio
 1986,  n. 26 (Norme integrative della legge regionale 10 agosto 1985,
 n. 37, relativa a "Nuove norme in materia di controllo dell'attivita'
 urbanistico-edilizia,  riordino  edilizio  e  sanatoria  delle  opere
 abusive") in riferimento agli artt. 116, 117 e 3 Cost.
   Il  giudice a quo riferisce che, nella specie, l'imputato era stato
 dichiarato colpevole del reato di cui  all'art.  17  lett.  b)  della
 legge  28  gennaio  1977,  n.  10  essendosi,  tra  l'altro, ritenuta
 ininfluente, per mancata ultimazione delle opere  alla  data  del  1›
 ottobre  1983,  la  domanda  di  sanatoria  presentata  dall'imputato
 stesso. Questi aveva proposto ricorso  per  cassazione  deducendo  la
 violazione  della legge regionale siciliana 15 maggio 1986, n. 26, la
 quale, in sostituzione dell'art. 31 della legge 28 febbraio 1985,  n.
 47  (secondo cui, ai fini della sanatoria, devono intendersi ultimati
 gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e  completata  la
 copertura) dispone invece che, ai medesimi fini, s'intendono ultimati
 gli edifici nei quali sia stata eseguita la  struttura  portante  sia
 essa  del  tipo intelaiato, in cemento armato o con pannelli portanti
 od in muratura e sia completata la copertura. Nella specie,  infatti,
 l'opera  edilizia costruita dall'imputato non era compresa fra quelle
 indicate nell'art. 31 della legge n. 47 del 1985 ma rientrava appunto
 fra quelle menzionate dall'art. 3 legge regionale siciliana n. 26 del
 1986.
    Dopo  aver  escluso  che  la  disposizione  regionale possa essere
 interpretata restrittivamente, delimitandone cioe' la portata ai soli
 aspetti  amministrativi  della sanatoria ed escludendone il riverbero
 di carattere penale, il giudice a quo  osserva  che  la  disposizione
 stessa  -  in  quanto  detta,  in  tema  d'attivita' abusiva edilizia
 costituente reato, norme del tutto particolari e diverse  rispetto  a
 quelle  stabilite  dal  legislatore  nazionale  nell'art. 31, secondo
 comma, della legge n. 47 del 1985 - non appare  conforme  agli  artt.
 116, 117 e 3 Cost.
    A  parere  dello stesso giudice, la potesta' legislativa regionale
 "non puo' prescindere dal principio di ordine costituzionale, sancito
 specificamente  nella  materia  urbanistica  e  valevole anche per le
 Regioni a  statuto  speciale,  del  coordinamento  normativo  con  la
 legislazione    dello    Stato   nella   sua   funzione   regolatrice
 dell'interesse unitario alla uniforme disciplina in tema di  rapporti
 fondamentali  che  si realizzano in posizioni giuridiche direttamente
 facenti capo allo Stato".
    La  disposizione  impugnata,  conclude  il  giudice  a quo, appare
 violare anche il principio d'uguaglianza di cui all'art. 3 Cost.,  in
 quanto consente, limitatamente alle opere edilizie abusive realizzate
 nel territorio siciliano, l'estinzione dei reati  a  condizioni  piu'
 favorevoli di quelle stabilite per la generalita' dei cittadini.
    2.  -  E'  intervenuto  nel  giudizio  il Presidente della Regione
 siciliana,  rappresentato  e  difeso  dall'avv.  Francesco  Tinaglia,
 chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
    L'interveniente  osserva,  innanzi tutto, che non e' prospettabile
 alcuna  violazione  dell'art.  116  Cost.,  in  quanto   tale   norma
 attribuisce  un regime particolare d'autonomia alle Regioni a statuto
 speciale.  E  nemmeno  puo'  ritenersi  violato  l'art.  117   Cost.,
 trattandosi  di  norma  che  disciplina la potesta' legislativa delle
 Regioni di diritto comune  e  non  quella  delle  Regioni  a  statuto
 speciale.  Del  resto  il  limite dei principi fondamentali stabiliti
 dalle  leggi  dello  Stato  non  e'  applicabile  alla   legislazione
 esclusiva  della Regione siciliana, la quale, in materia urbanistica,
 ha potesta' legislativa esclusiva  ai  sensi  dell'art.  14  del  suo
 Statuto speciale.
    Quanto   alla  dedotta  violazione  del  principio  d'uguaglianza,
 l'interveniente rileva che la disciplina legislativa nazionale non e'
 stata  sempre  costante  in  ordine  alla  nozione  d'ultimazione dei
 lavori. Infatti, ai sensi della legge 28 gennaio 1977,  n.  10,  essa
 viene ad identificarsi con il completamento funzionale dell'opera; ai
 sensi della giurisprudenza  penale  relativa  alla  cessazione  della
 permanenza del reato di costruzione abusiva, la predetta "ultimazione
 dei lavori" s'identifica con il completamento dell'opera in ogni  sua
 parte,  comprese le rifiniture esterne; ai sensi della giurisprudenza
 amministrativa, relativa all'individuazione  del  momento  finale  di
 validita'  della  licenza edilizia, di cui all'art. 10, decimo comma,
 della legge n. 765 del  1967,  la  stessa  ultimazione  coincide  col
 compimento  delle  strutture  essenziali  dell'edificio.  La  nozione
 d'ultimazione dei lavori contenuta nell'art. 31 della legge n. 47 del
 1985  deve  ritenersi,  a  parere  dell'interveniente, coincidere con
 quest'ultima interpretazione, essendo lo scopo del legislatore quello
 di  rendere  bene  individuabile  il  volume  dell'opera alla data di
 riferimento per  l'applicabilita'  del  condono.  Del  resto,  se  il
 legislatore  nazionale  avesse  voluto  dare  al termine "rustico" il
 significato restrittivo di opera completata  ma  priva  d'intonaco  e
 rivestimento,  non avrebbe poi richiesto anche il completamento della
 copertura, che e' gia' necessariamente parte del rustico  inteso  nel
 senso suddetto.
    Di  conseguenza - conclude l'interveniente - deve ritenersi che il
 legislatore regionale, resosi  conto  che  la  normativa  statale  si
 prestava   a   difformi   interpretazioni,   abbia  inteso  adeguarsi
 all'interpretazione piu' estensiva di detta  normativa,  comunque  in
 assonanza con lo scopo della norma statale.
                         Considerato in diritto
    1. - Vanno preliminarmente formulate quattro osservazioni.
    La  prima:  i  problemi  relativi al potere normativo penale delle
 Regioni sono di difficile soluzione in quanto fortemente condizionati
 dall'attuale  inflazione  della  normazione penale. Quest'ultima che,
 come s'evince dalla  Costituzione  e  come  si  sottolineera'  oltre,
 dovrebbe  esser  ridotta  al  minimo indispensabile al raggiungimento
 (attraverso l'incriminazione di gravi modalita' di  lesione  di  beni
 costituzionalmente  significativi  od  almeno  socialmente rilevanti)
 delle elementari  condizioni  del  vivere  democratico,  e'  divenuta
 "ipertrofica".  Se  gran parte della materia contravvenzionale fosse,
 attraverso  razionali,  ben   programmati   interventi   legislativi,
 "trasposta"  dal diritto penale al diritto amministrativo, i problemi
 in discussione verrebbero in  nuce  risolti  od  almeno  notevolmente
 semplificati.
    La  seconda osservazione attiene al metodo qui adottato nell'esame
 della sollevata questione di legittimita'  costituzionale:  si  fara'
 perno sull'interpretazione storico-politica, sistematica e funzionale
 dell'art.  25,   secondo   comma,   Cost.   E'   questo   comma   che
 costituzionalmente sancisce, in ordine alle fonti del diritto penale,
 la c.d. riserva di legge; ed in questa sede si  tratta,  appunto,  in
 primo  luogo,  di  stabilire l'ambito di comprensione di tal riserva:
 se, cioe', essa vada circoscritta  alle  sole  leggi  penali  statali
 oppure  sia  riferibile  (ed  eventualmente in che limiti) anche alle
 leggi regionali. La tradizione metodologica, in campo penalistico, e'
 decisamente orientata in tal senso: tutte le volte che si e' trattato
 di precisare l'ambito della riserva di legge penale (in  ispecie,  se
 essa   sia   assoluta  o  relativa)  si  e'  fatto  perno  unicamente
 sull'interpretazione  logica  e  sistematica  dell'art.  25,  secondo
 comma,  Cost., sottolineandosi, in particolare, che l'attenzione alla
 ratio di garanzia dalla quale  muove  la  predetta  riserva  consente
 d'assumere  conclusioni  appaganti  in  ordine  alla comprensione del
 dettato costituzionale in esame.
    La  terza  osservazione  e' cosi' formulabile: poiche' il problema
 attinente  al  potere  normativo  penale  regionale  e',  ovviamente,
 problema  relativo  all'esercizio  di  tal  potere nelle materie c.d.
 "esclusive" o "concorrenti", il punto di  partenza  dell'indagine  e'
 comunemente  costituito  dal  "silenzio"  della Costituzione (e degli
 statuti "speciali") in ordine al modo di disciplina penale,  all'atto
 dell'attribuzione  alle  Regioni  della  competenza  per  le predette
 materie. Tal "silenzio", com'e' noto,  mentre  e'  stato  assunto  da
 alcuni  Autori  come  implicito riconoscimento alle Regioni anche del
 potere  normativo  penale,  insieme  a  tutti  i  rimanenti  modi  di
 disciplina  delle  violazioni  dei  beni  rientranti nelle materie di
 competenza  regionale,  da  altra  parte  della  dottrina  e'   stato
 interpretato  come "esclusione" del conferimento del potere normativo
 penale  alle  Regioni,  ben  avendo  il  Costituente   consapevolezza
 dell'autonomia del ramo penale dell'ordinamento.
    Senonche', mentre e' senza dubbio vero che non e' dato configurare
 una preordinata materia penale, la  disciplina  di  questa  attenendo
 spesso  (o  sempre)  alla violazione dei piu' disparati beni "propri"
 (tutelati in via primaria) da  altri  rami  dell'ordinamento  (e,  da
 questo aspetto, come e' stato giustamente rilevato, non esistendo una
 "preesistente" materia penale, la medesima  non  poteva,  ovviamente,
 esser  conferita,  dal  Costituente  o dagli statuti "speciali", alle
 Regioni) e' altresi' vero, come sara' precisato meglio oltre, che  la
 c.d.  "materia  penale",  che, certamente, non "preesiste" alle norme
 penali, vien costituita  proprio  nel  momento  della  nascita  delle
 stesse  norme. E', infatti, il legislatore che, scegliendo tra i beni
 (generalmente tutelati in via primaria  da  altri  rami)  quelli  che
 interessa  allo  Stato  penalmente  garantire,  costituisce  la  c.d.
 "materia penale" e cioe' l'insieme dei beni e  valori  specificamente
 tutelati  (anche  o  soltanto)  penalmente.  Se  cosi'  non fosse, il
 diritto penale avrebbe natura esclusivamente sanzionatoria mentre  e'
 ben  noto che tal natura e' stata validamente criticata dall'assoluta
 maggioranza della dottrina sostenitrice  dell'autonomia  del  diritto
 penale.
    Or  se  la  Costituzione  o gli statuti "speciali" avessero inteso
 conferire al legislatore regionale anche il modo di disciplina penale
 non  avrebbero  attribuito  anche  il potere di costituire la materia
 penale senza neppur fare esplicitamente almeno un  sia  pur  generico
 riferimento   al   predetto   modo   di   disciplina.   Dalla   Carta
 costituzionale non risulta, in proposito, alcunche';  ne'  durante  i
 lavori  della Costituente sono stati mai sollevati problemi attinenti
 alla  competenza  penale  delle  Regioni.  Ingenera,  pertanto,  gia'
 all'inizio della ricerca, notevoli perplessita' la considerazione che
 la Costituzione, venendo per la prima volta a  configurare  lo  Stato
 regionale,  attribuendo  alle Regioni a statuto ordinario specifiche,
 svariate materie (art. 117 Cost.) e, soprattutto, prevedendo "forme e
 condizioni particolari d'autonomia, secondo statuti speciali adottati
 con leggi costituzionali" per alcune Regioni (art. 116 Cost.)  nulla,
 proprio  nulla,  dichiari  in  ordine  all'incriminabilita', da parte
 delle Regioni, delle lesioni di beni  la  cui  tutela  rientra  nella
 competenza  delle  medesime; ne', di regola, esplicitamente alcunche'
 dichiarano gli Statuti delle Regioni a regime "differenziato".
    La   quarta   ed  ultima  osservazione  preliminare  attiene  alla
 necessita' di nettamente distinguere i temi, sollevati dall'ordinanza
 di  rimessione, in due settori: il primo, relativo al generale potere
 normativo delle Regioni a prescindere dall'esercitato od  esercitando
 potere  normativo  penale  dello Stato ed il secondo, che raggruppa i
 temi che si pongono considerando  le  leggi  regionali  in  relazione
 all'emanata    (od   emananda)   legge   penale   (incriminatrice   o
 scriminatrice)  statale.  La  distinzione  dei  predetti  settori  e'
 metodologicamente  necessaria  perche' i problemi attinenti a ciascun
 settore sono  nettamente  diversi;  e,  sebbene  quelli  relativi  al
 secondo  settore  siano  spesso  condizionati,  nella loro soluzione,
 dalla conclusione in ordine al potere normativo penale delle Regioni,
 il  secondo  settore  non  riguarda, in senso proprio, l'ampiezza del
 principio della riserva di  legge  penale  bensi'  le  "possibilita'"
 conferite  alle  leggi  regionali  (anche ove fosse escluso un potere
 normativo penale delle medesime)  in  relazione  alle  leggi  statali
 incriminatrici o decriminalizzanti.
    2.  -  Nell'esame  dei temi relativi al primo dei predetti settori
 non puo' esser taciuto che dottrina e giurisprudenza che, in assoluta
 maggioranza,  limitano  la  riserva  di  legge penale alla sola legge
 statale (in sede di vicende costitutive  della  punibilita')  e  che,
 pertanto,  escludono  ogni  legittimita' (nella stessa sede) di leggi
 penali regionali, appaiono a disagio allorche' si tratta di scegliere
 la  disposizione  costituzionale  sulla  quale  fondare la pur comune
 conclusione: spesso si fa, infatti, riferimento all'art. 25,  secondo
 comma,  Cost.,  a  volte  all'art. 3, primo comma od all'art. 5 Cost.
 (interpretati, peraltro, questi  ultimi  articoli  come  "ispiratori"
 dell'intero sistema costituzionale); e non poche volte ci si richiama
 all'art. 13, secondo comma od all'art. 120, secondo  e  terzo  comma,
 Cost. E, nell'occasione, si danno dei citati articoli interpretazioni
 che sono esplicitamente collegate (quasi a "conforto"  o  "sostegno")
 ad  altre,  diverse  disposizioni.  Da  tale  incertezza  e'  agevole
 desumere che soltanto il  sistema  e  la  sua  intrinseca  teleologia
 riescono  a rendere sostenibili, a "giustificare", le interpretazioni
 che, in ordine ai temi qui in  esame,  dei  citati  articoli  vengono
 offerte.
    Vero   e'   che,  come  l'effettivo  ambito  di  comprensione  del
 "generale" principio di legalita' in sede penale non  e',  almeno  di
 regola,  desunto,  nella  sua  ampiezza,  dalle  sole,  peraltro  non
 univoche, formule costituzionali che pur lo enunciano bensi', come e'
 ormai generalmente ammesso, dalla ratio profonda che le ispira, cosi'
 la reale comprensione, in ispecie, del principio di riserva di  legge
 penale va principalmente ricavata dal fondamento politico-ideologico,
 sistematico e teleologico dello stesso principio piuttosto che  dalle
 dichiarazioni  costituzionali,  necessarie  e  solenni  ma non sempre
 tecnicamente precise, che lo enunciano; dichiarazioni i cui contenuti
 e limiti vanno, appunto, ricavati, anche e soprattutto, dai precitati
 fondamenti e, in particolare, dall'oggettiva,  determinante  funzione
 che,  nell'intero ramo penale dell'ordinamento statale, la riserva in
 questione esplica.
    3.  -  Il  profilo  storico-ideologico,  dal  quale va, anzitutto,
 esaminata la riserva di legge penale, deve iniziare dal  sottolineare
 che  tal  riserva fu il portato d'una ben determinata concezione che,
 partendo dall'illuminismo, tese a ribaltare  il  precedente  sistema:
 quest'ultimo  trovava  il fondamento dell'intervento penale, a tutela
 dei beni  piu'  importanti  per  l'ordinato  svolgimento  della  vita
 sociale,  nei  contenuti religiosi, metafisici, "naturali", idonei ad
 offrire  la  "verita'"  del  principio  costitutivo   dell'esperienza
 giuridica  in  genere  e  penale  in  particolare. La riconduzione ad
 unita'  delle  sparse,  frammentarie  disposizioni   giuridiche,   la
 certezza che soltanto attraverso il superamento delle varie, numerose
 fonti,  sostanziali  e  formali,  dell'Antico  Regime,   si   potesse
 raggiungere, insieme, la massima garanzia della riacquistata liberta'
 individuale ed  il  massimo  ordinato  vivere  sociale  condussero  a
 ravvisare nella legge, nella legge dello Stato, quale unita' organica
 dell'intero popolo sovrano, il nuovo principio costitutivo, il  nuovo
 fondamento del diritto penale.
    La  predetta  concezione  ideologica  della legge, concezione nata
 anche  dalla  concentrazione  d'ogni  valore  rappresentativo   nelle
 istituzioni  facenti  capo  allo  Stato  e dall'eliminazione dei vari
 corpi d'autonomia  sociale  a  vantaggio  dell'unico  corpo  politico
 sovrano,  non poteva, in sede penale, consentire altre fonti. D'altra
 parte, il sistema penale delineato  dalla  Costituzione  tende  ancor
 oggi,  come  meglio  si  chiarira' in seguito, a ridurre la quantita'
 delle norme penali, e, cosi', a concentrare queste ultime nella  sola
 tutela,  necessaria  (ultima  ratio)  di pochi beni, significativi od
 almeno "importanti", per l'ordinato vivere sociale.
   Gia'  in  base  alle precedenti considerazioni e' fondato sostenere
 che l'estensione alle leggi regionali  del  potere  normativo  penale
 contrasti  con  il  fondamento politico della riserva di cui all'art.
 25, secondo comma, Cost., con la "sostanza" storico-ideologica di tal
 fondamento,  per  la  quale,  inizialmente,  fu scelta la legge quale
 "forma   istituzionale"   del   diritto   penale.   La    letteratura
 illuministica,   infatti,   piu'  che  affidare  il  monopolio  della
 competenza penale alla  legge  in  quanto  atto-fonte,  lo  attribui'
 all'organo-Parlamento,  anche  se il medesimo venne considerato quale
 produttore, attraverso determinate forme,  dell'atto  stesso.  Se  e'
 vero che e' da quest'ultimo che derivano, attraverso la norma penale,
 le vicende costitutive della punibilita', e' anche vero che la  legge
 e'    il    risultato    d'un    processo   posto   in   essere   dal
 soggetto-Parlamento; ed e' soprattutto a quest'ultimo che fu  rivolta
 l'attenzione  delle  teorie  penal-illuministiche.  Come  la dottrina
 penalistica successiva all'avvento della Costituzione, nel  ricercare
 la  ratio della riserva di legge penale, ha tenuto a sottolineare, in
 modo particolare, il procedimento di formazione della  legge,  aperto
 al  confronto  tra  maggioranza  e  minoranza,  adeguato a tutelare i
 diritti dell'opposizione nel sindacare le scelte di criminalizzazione
 adottate   dalla   maggioranza,   la   dottrina   penal-illuministica
 individuo' il fondamento del principio di riserva di legge penale nel
 fatto  che  il  soggetto-Parlamento, l'organo produttore della legge,
 vede riunito, attraverso  i  suoi  rappresentanti,  tutto  il  popolo
 sovrano: e questo non puo' legiferare "contro se' stesso".
    Va  sottolineato  che,  anche  a  parte  le  vicende  storiche che
 inizialmente motivarono la scelta  della  riserva  di  legge  penale,
 ancor   oggi   la  dottrina  ricorda  che  il  monopolio  penale  del
 legislatore statale e' fondato sul suo essere  rappresentativo  della
 societa'  tutta,  "unita  per  contratto  sociale"; ed e' la societa'
 tutta che attende che  l'esercizio  del  potere  legislativo  penale,
 direttamente   od  attraverso  i  suoi  rappresentanti,  non  avvenga
 arbitrariamente bensi' "per il suo bene e nel suo interesse".
    4.  -  Nell'iniziare  l'esame  del  secondo  profilo  dal quale va
 considerata la riserva di legge penale ex  art.  25,  secondo  comma,
 Cost.  e'  necessario sottolineare l'assetto che il diritto penale ha
 assunto a seguito delle disposizioni costituzionali relative alla sua
 disciplina.   Allo  scopo  di  precisare  contenuto  e  limiti  della
 costituzionale riserva di  legge  penale  occorre,  infatti,  volgere
 l'attenzione  alla natura degli interessi e valori garantiti dal ramo
 penale dell'ordinamento.
    Va  subito  chiarito  che  la  statualita',  a  doppio titolo, del
 diritto penale postula  necessariamente  il  nascere  statuale  delle
 incriminazioni  penali.  Si  e'  precisato:  "a  doppio  titolo".  Ed
 infatti, statali sono i particolari interessi e valori  tutelati  dal
 ramo   penale   e   statale  e'  il  fine  perseguito  attraverso  le
 incriminazioni: la tutela di tutto l'ordinamento giuridico statale e,
 cosi',  della  vita  sociale  in  liberta',  uguaglianza  e reciproco
 rispetto dei soggetti.
    Dall'accettazione,  da  parte  della  Costituzione,  di  autonome,
 particolari  sanzioni,  che  si  collocano  in  un  determinato  ramo
 dell'ordinamento,  si deduce l'esistenza di autonomi interessi, fatti
 valere nello stesso ramo. Non puo',  invero,  accogliersi  l'opinione
 che  l'ordinamento  giuridico  appresti  sanzioni  diverse,  e  cioe'
 diverse tutele, per identici interessi: infatti, o le sanzioni  hanno
 i  medesimi  fini  ed  il  moltiplicarsi  dei  mezzi di difesa appare
 ingiustificato oppure esse son riferite ad  interessi  apparentemente
 eguali ma presi in considerazione sotto diversi profili giuridici: ed
 in quest'ultima ipotesi l'identita' e' soltanto apparente  mentre  in
 realta'   gli   interessi  che  vengono  tutelati  sono  diversi.  La
 Costituzione e',  inoltre,  ben  consapevole  della  titolarita'  dei
 predetti  interessi:  la  dimostrazione e' data dal confronto tra gli
 artt. 24, primo comma e 112 Cost. Ed invero, mentre negli altri  rami
 il  disporre della tutela giudiziaria attraverso l'azione appartiene,
 di regola, al singolo  soggetto,  privato  o  pubblico,  nel  settore
 penale  il  processo  d'attuazione  della  sanzione  e'  operato solo
 attraverso l'intervento dello Stato. L'art. 24,  primo  comma,  Cost.
 accomuna,  infatti,  tutti  i  diritti  e  gli interessi legittimi, a
 qualunque materia si riferiscano, consentendo  ai  singoli  soggetti,
 privati  o  pubblici,  di  poter  agire in giudizio per la tutela dei
 medesimi.  Non  cosi'  per  le   situazioni   giuridiche   subiettive
 penalmente tutelate per le quali non solo non e' data alcuna facolta'
 d'agire in giudizio ma, attraverso l'art. 112 Cost., vien individuato
 un  particolare  organo  dello  Stato  che  deve,  obbligatoriamente,
 esercitare l'azione penale. Dagli stessi artt. 24, primo comma e  112
 Cost.  s'evince,  pertanto,  che,  anche  per  la Costituzione, viene
 tutelato,  in  sede  penale,  il  concreto  interesse   dello   Stato
 all'integrita'  di  talune situazioni di vita, ad es. liberta', onore
 ecc., dei singoli soggetti.
    Il secondo titolo di "statualita'" del ramo penale attiene ai fini
 dello stesso ramo.
    Va  notato  che  la  Costituzione disciplina essa stessa parte del
 settore penale. Tale disciplina, mentre  limita  la  discrezionalita'
 del  legislatore,  puntualmente chiarisce quali debbano essere i fini
 del diritto penale.
    La  disposizione  di  cui  all'art.  27,  terzo comma, Cost. svela
 apertamente, indicando la teleologia delle  pene,  l'identita'  e  le
 finalita'  del diritto penale dalle quali la Carta fondamentale parte
 nel dettare la normativa attinente alla sede penale. L'art. 27, terzo
 comma,  Cost.,  riguarda, infatti, le sanzioni propriamente penali: e
 queste,    nell'essere    particolarmente    caratterizzate,     sono
 implicitamente  distinte  da  tutte  le  altre  sanzioni. Le sanzioni
 penali, a differenza di quelle extrapenali, sono  dalla  Costituzione
 caratterizzate  dalla tendenza ad incidere sull'animo, sulla vita del
 condannato, tutelando, mediante  un  singolare  tipo  di  prevenzione
 speciale   (la   rieducazione)   non  soltanto  questo  o  quel  bene
 specificamente offeso dal reato  ma  anche  tutti  i  beni  garantiti
 dall'ordinamento  e,  cioe',  l'intero  ordinamento statale in quanto
 tendente a realizzare una vita in comune democraticamente  orientata.
    Or  se  le  pene,  a  loro  volta,  com'e'  di  comune cognizione,
 caratterizzano il ramo penale dell'ordinamento,  nel  senso  che  del
 medesimo  svelano  l'identita',  deve  concludersi  che  non  solo la
 Costituzione ben "conosce"  il  ramo  penale  ma  che  nettamente  lo
 "distingue"  dagli  altri rami, sottolineando del medesimo esigenze e
 fini, che attengono alla comunita'  tutta,  alla  tutela  dell'intero
 ordinamento statale.
    Ricordato  che  alla  "rigida"  statualita' del diritto penale va,
 oggi, da alcuni Autori contrapponendosi, in ordinamenti  diversi  dal
 nostro,   l'idea   d'una   sanzione   punitiva  privata,  soprattutto
 attraverso lo strumento risarcitorio, deve, tuttavia, osservarsi che,
 pur  prescindendo  dai  notevoli  problemi  sociali  che  un  ritorno
 all'avvicinamento   tra   diritto   penale   e    rami    extrapenali
 dell'ordinamento  porrebbe  e dall'eventuale ribaltamento dell'intero
 ordinamento giuridico, che considera attualmente il ramo penale  come
 l'ultimo,  conclusivo  momento  dell'esperienza  statuale  e,  cosi',
 dell'intera esperienza  giuridica,  l'idea  d'una  (almeno  relativa)
 privatizzazione  del  diritto penale non trova significativi consensi
 neppure negli ordinamenti in cui i problemi relativi a tale idea  son
 posti e discussi.
    Se,   dunque,   l'attuale  lettura  della  Costituzione  induce  a
 confermare la statualita' del ramo  penale  dell'ordinamento,  e'  da
 ritenersi  costituzionalmente  inestensibile alle Regioni la potesta'
 normativa penale.
    5.  -  Il  terzo  profilo,  forse  il piu' rilevante, dal quale va
 esaminata la riserva di legge penale ex art. 25, secondo comma, Cost.
 e' quello della sua funzionalita'.
    Il  principio  per  il  quale unica fonte del diritto penale e' la
 legge va chiarito non tanto nella  sua  generale  ratio  di  garanzia
 quanto, e particolarmente, nell'oggetto della medesima.
    Per  vero,  e'  stato  gia'  adeguatamente posto in luce che ratio
 della riserva di legge penale e' la tutela della liberta' e dei  beni
 fondamentali  dei  singoli  soggetti,  anche se e' stato sottolineato
 soprattutto  l'aspetto  negativo  della  riserva  stessa,   e   cioe'
 l'esclusione  di  possibili  arbi'tri  da parte di altri poteri dello
 Stato.
    Senonche',  le  sottolineature  della  dottrina,  relative ai temi
 attinenti alla natura (assoluta  o  relativa)  della  riserva,  ossia
 attinenti  alle  relazioni  tra  legge  dello  Stato  ed atti statali
 subordinati, nella gerarchia delle fonti, alla stessa legge, non sono
 sufficienti  a  risolvere il diverso tema delle relazioni, in sede di
 riserva di legge penale, tra legge dello  Stato  e  legge  regionale,
 tenuto  soprattutto  conto  che  l'art.  25, secondo comma, Cost., fa
 riferimento,  genericamente,  alla   "legge"   e   che   dottrina   e
 giurisprudenza  hanno  posto  in luce che la legge regionale non puo'
 esser ritenuto atto subordinato a quella statale.
    Soltanto   l'ulteriore   chiarimento   in   ordine,   soprattutto,
 all'aspetto sostanziale, positivo della riserva di legge penale  puo'
 offrire sufficienti spunti per convenientemente risolvere il tema che
 in  questa  sede  occupa  la  Corte.  Precisando,  infatti,  che   la
 Costituzione,    nel    riservare    al    legislatore    le   scelte
 criminalizzatrici, impone  criteri  sostanziali  di  scelta  e  fissa
 precise  direttive di politica criminale, e' agevole ritenere la sede
 dei consigli regionali non idonea a valersi  di  tali  criteri  ed  a
 realizzare le predette direttive.
   Il  punto  di  partenza  e',  pertanto,  costituito dal significato
 positivo del principio di  riserva  di  legge  penale:  se,  infatti,
 quest'ultimo,  nella  Costituzione, non fosse mezzo per adeguate, ben
 definite e, pertanto, limitate scelte criminalizzatrici, non  sarebbe
 in  grado di costituire strumento d'effettiva ed efficiente garanzia.
 A ben riflettere, anche la capacita' ad excludendum della riserva  di
 legge  penale,  il  suo  significato "negativo" (evitare gli abusi da
 parte di "altri" organi  dello  Stato)  suppone  ed  implica  giusti,
 limitati usi, soltanto rispetto ai quali e' dato ipotizzare abusi.
    Ne'  va dimenticato che l'ideologia illuministica in tanto esalto'
 la legge statale  in  quanto  quest'ultima,  attraverso  l'intervento
 dell'organo rappresentativo di tutta la societa' "unita per contratto
 sociale", era in grado  di  positivizzare  i  principi  razionali  ed
 immutabili  di "giustizia": sin dal periodo illuministico, dunque, si
 pose, anche se fu inizialmente  risolto  in  maniera  utopistica,  il
 problema della "giustizia" della legge.
    La    Costituzione   ha,   certamente,   "superato"   l'eccessiva,
 illuministica fiducia nella legge; tal superamento  e'  testimoniato,
 fra  l'altro,  in  previsione di eventuali abusi del legislatore, dai
 controlli costituzionali sulle leggi. Ma e' proprio la Costituzione a
 "credere"  ancora  nella  legge  statale:  e cio' perche' ritiene che
 soltanto  attraverso   quest'ultima   possano   avverarsi   "giuste",
 opportune, limitate scelte criminalizzatrici.
    La   Carta   fondamentale   accoglie  e  sottolinea  il  principio
 illuministico per  il  quale  il  "di  piu'"  di  liberta'  soppressa
 costituisce  abuso.  Tutto sta, oggi, a precisare questo "di piu'" in
 relazione  alle  misure  limitative   della   liberta'   strettamente
 necessarie  ad  assicurare liberta', uguaglianza e reciproco rispetto
 tra i soggetti. Si tratta, cioe', nelle scelte criminalizzatrici,  di
 limitare  la  liberta'  solo per quel tanto strettamente necessario a
 garantirla.
    Il  diritto  penale  e' sistema che, nell'atto in cui autorizza la
 difesa sociale attraverso le sanzioni piu' gravi per  la  liberta'  e
 dignita'  umana, limita la difesa stessa attraverso precise, puntuali
 determinazioni di scopi, modalita' e  contenuti  di  fattispecie.  Il
 diritto  penale  e',  particolarmente  (e  la  Costituzione  lo svela
 all'evidenza) sistema di limiti sostanziali  al  legislatore;  ed  e'
 mirato,  soprattutto,  al  rispetto  di  questi  ultimi  il monopolio
 statale nella produzione della legge  penale,  la  riserva  di  legge
 penale.
    La  criminalizzazione  comporta, anzitutto, una scelta tra tutti i
 beni e valori emergenti nell'intera societa': e tale scelta non  puo'
 esser  realizzata dai consigli regionali (ciascuno per proprio conto)
 per la mancanza  d'una  visione  generale  dei  bisogni  ed  esigenze
 dell'intera societa'.
    L'altro,  ancor  piu' importante, limite sostanziale garantito dal
 principio di riserva di legge penale e' il fine della scelta  innanzi
 indicata.  Tale  scelta va, appunto, operata in funzione d'un fine da
 raggiungere ed e' strettamente limitata dallo stesso fine.
    Si  suol  ripetere  che il diritto penale tutela interessi, beni e
 valori giuridici; tale tutela, frutto, conseguenza della  preindicata
 scelta tra beni e valori emergenti, meritevoli di garanzia penale, e'
 affidata alla discrezionalita' vincolata del legislatore. La predetta
 "scelta" va fatta in funzione d'un unico scopo: l'assicurazione delle
 condizioni "minime" del vivere democratico e cioe'  delle  condizioni
 di liberta', uguaglianza e rispetto reciproco tra i soggetti. Anche i
 beni giuridici,  anche  i  valori  costituzionalmente  significativi,
 divengono,  pertanto, mezzi di volta in volta scelti (o "sacrificati"
 rispetto  ad  altri  valori)  per  l'assicurazione,   in   una   data
 concretezza  storica,  delle  predette  condizioni  democratiche  del
 vivere civile. Sono queste a costituire il vincolo finalistico  della
 c.d.   discrezionalita'  del  legislatore,  a  garanzia  di  tutti  i
 cittadini.
    Vanno,  inoltre,  particolarmente ricordati, a proposito di limiti
 sostanziali  del  legislatore  nelle  scelte   criminalizzatrici,   i
 principi   di   sussidiarieta',  proporzionalita'  e  frammentarieta'
 dell'intervento  penale,  costituenti,  quanto  meno,  direttive   di
 politica  criminale.  Anche tali principi implicano il possesso d'una
 visione generale dei beni e  valori  presenti  nell'intera  Comunita'
 statale  e  limitano  ulteriormente,  nell'atto in cui le fondano, le
 scelte criminalizzatrici: la  realizzazione  di  tali  principi,  che
 costituiscono   garanzia  dell'intera  comunita',  rende  impossibile
 affidare alla legge regionale la piu' importante e difficile  tra  le
 funzioni statali.
    Il principio di sussidiarieta', per il quale la criminalizzazione,
 costituendo l'ultima ratio, deve intervenire soltanto  allorche',  da
 parte  degli  altri rami dell'ordinamento, non venga offerta adeguata
 tutela ai beni da  garantire,  implica,  fra  l'altro,  programmi  di
 politica   generale,   e   criminale   in  ispecie,  nonche'  giudizi
 prognostici che soltanto lo Stato puo' formulare.
    Il  principio  di  proporzionalita',  inteso  non  soltanto  quale
 proporzione tra gravita' del fatto e sanzione penale bensi', anche  e
 soprattutto,  quale "criterio generale" di congruenza degli strumenti
 normativi  rispetto  alle  finalita'  da  perseguire,  conferma   che
 soltanto  lo  Stato e' in grado, avendo piena consapevolezza di tutti
 gli strumenti idonei  a  compiutamente  realizzare  la  direttiva  in
 esame,   d'effettivamente   garantire,   sotto   questo  aspetto,  la
 comunita'.
    Ed  infine,  anche  il  principio  di frammentarieta', inteso come
 intervento penale "puntiforme",  che  attua  la  garanzia  "liberale"
 determinata   dai  necessari  "vuoti  di  tutela",  e'  adeguatamente
 rispettabile   dall'organo   statale   di   produzione   legislativa:
 quest'ultimo, che appunto possiede la piu' generale visione di beni e
 valori  presenti  nella  societa',  e'   particolarmente   idoneo   a
 confermare,  con  la determinatezza della legge penale, la concezione
 della liberta' quale regola e dell'illecito penale quale eccezione.
    Ne'  va  dimenticato  che  ulteriori  limiti  sostanziali  vengono
 costituzionalmente  imposti  al  legislatore,  quale,  fra  i  tanti,
 quello,  fondamentale,  della  finalita'  rieducativa della pena ( ex
 art. 27, terzo comma, Cost.): anch'esso fonda e  nello  stesso  tempo
 limita l'intervento penale.
    Obiettivi  come  quelli  sopra  individuati non sono razionalmente
 realizzabili dalle Regioni: queste sarebbero  in  grado  di  proporre
 programmi  di  politica legislativa criminale ma in funzione di scopi
 particolari alle diverse Regioni e, comunque,  ciascuna  per  proprio
 conto.  E,  basterebbe  cio'  a  far  ritenere non realizzabili dagli
 organi locali in discussione quei fini generali ed i relativi  limiti
 costituzionalmente   precisati   che  costituiscono  l'oggetto  della
 riserva di legge penale ex art. 25, secondo comma, Cost.
    Ne'  le Regioni possono ritenersi costituzionalmente legittimate a
 raggiungere accordi su "programmi" di politica criminale  validi  per
 tutta  la  Comunita'  statale:  ove  tali  accordi fossero raggiunti,
 sarebbero  violate  le  ragioni  per  le  quali  il  Costituente   ha
 riconosciuto  l'ente  regionale  come  realta'  politica,  oltre  che
 giuridica, distinta ed autonoma rispetto allo Stato.
    6. - Da quanto innanzi osservato discende che, ove l'art. 3, primo
 comma, della legge siciliana n. 26 del  1986,  senza  riferimento  ad
 alcuna  "altra"  legge  statale,  avesse sottratto all'incriminazione
 determinate ipotesi di edifici che, alla data del  1›  ottobre  1983,
 non  avessero raggiunto i requisiti di cui al secondo comma dell'art.
 31  della  legge  n.  47  del  1985,  non  sorgerebbe  alcun   dubbio
 sull'illegittimita'    costituzionale   dell'impugnata   disposizione
 dell'ora citata legge siciliana. Ed infatti:  avendo  il  legislatore
 statale  il  monopolio delle vicende costitutive della punibilita' ed
 avendo gia', in concreto, esercitato la sua potesta'  incriminatrice,
 non  e'  legittimo  che  una  legge  regionale  abroghi norme statali
 incriminatrici.
    Ne'  e'  valido  il  ricorso,  nell'ipotesi in discussione, ad una
 (ipotetica) funzione "scriminante" (in senso stretto)  che  la  legge
 regionale  siciliana  avrebbe avuto. Va, invero, ricordato che, anche
 ammettendo che le  leggi  regionali  possano  assurgere  a  fonte  di
 "diritti  scriminanti",  non  si ravvisano, attraverso il primo comma
 dell'art. 3  della  legge  siciliana  n.  26  del  1986,  ragionevoli
 motivazioni  per  concedere,  da  parte  della  Regione  Sicilia,  un
 qualsiasi diritto scriminante. In ogni caso, l'impugnata disposizione
 della  piu'  volte citata legge siciliana non ha funzione scriminante
 in senso stretto, applicando essa alle ipotesi di cui al primo  comma
 dell'art.  3  della  stessa  legge  una causa d'estinzione del reato,
 quella, appunto, concessa dalla legge n. 47 del 1985.
    Senonche',   la   Regione   Sicilia   assume,  a  proposito  della
 disposizione impugnata, che  non  di  abrogazione  di  legge  statale
 incriminatrice  si  tratti  sibbene  d'interpretazione  estensiva del
 secondo comma dell'art. 31 della legge n. 47 del 1985: il primo comma
 dell'art.  3 della legge siciliana in discorso si limiterebbe, cioe',
 ad integrare e precisare il  concetto  di  "ultimazione  dei  lavori"
 dall'ora citata legge statale determinato.
    La  difesa della Regione Sicilia solleva, cosi', il problema degli
 spazi interpretativi (nei confronti d'una gia' emanata legge  statale
 incriminatrice) costituzionalmente concessi alle leggi regionali.
    A  parte  ogni  altra considerazione, qui e' sufficiente ricordare
 che alle leggi regionali non  e'  precluso  concorrere  a  precisare,
 secundum  legem,  presupposti  d'applicazione di norme penali statali
 (cfr., fra le altre, le sentenze di questa Corte n. 210 del 1972 e n.
 142  del  1969) ne' concorrere ad attuare le stesse norme e cioe' non
 e' precluso realizzare funzioni analoghe a quelle che sono  in  grado
 di  svolgere  fonti secondarie statali. Tutte le volte in cui non sia
 in gioco la riserva di legge penale statale (nelle ipotesi, cioe', in
 cui  ad  es.  la  legge  statale  abbia gia' autonomamente operato le
 scelte fondamentali sopra ricordate) disposizioni attuative di  leggi
 statali  ben  possono  esser emanate da altre fonti ed in particolare
 dalle leggi regionali.
    Va,  poi,  ricordato  che  dottrina e giurisprudenza ritengono che
 ampio spazio in materia penale sia consentito alle Regioni  allorche'
 dalle   leggi   statali   si   subordinino  effetti  incriminatori  o
 decriminalizzanti ad atti amministrativi (o  legislativi)  regionali:
 in   tal   caso,   nel  determinare  i  presupposti  dai  quali  sono
 condizionati gli effetti penali (e, conseguentemente, nel  modificare
 i  presupposti  stessi)  le  leggi  regionali  indirettamente,  e per
 determinazione delle stesse leggi statali,  incidono  su  fattispecie
 penali previste da leggi statali.
    E  va  aggiunto  che  la  tutela  penale dei beni rientranti nelle
 materie  regionali,  "esclusive"  o  "concorrenti",  puo'  ben  esser
 autonomamente fornita, attraverso l'incriminazione di violazioni agli
 stessi beni, dalla legge penale statale. La  dottrina,  fra  l'altro,
 comunemente  ammette  che  si diano casi di colpa per inosservanza di
 leggi regionali cautelari (sempre che si  ritenga  rispettato  l'art.
 25,  secondo comma, Cost.) e che, in alcune ipotesi di delitti contro
 la pubblica amministrazione, le leggi regionali possano concorrere  a
 definire  elementi  costitutivi (es. "dovere", "atto d'ufficio" ecc.)
 delle fattispecie tipiche incriminate.
    Non essendo consentito, in questa sede, soffermarsi analiticamente
 sugli spunti offerti, in proposito, dalla  dottrina,  deve  la  Corte
 limitarsi a ricordare che il legislatore ha gia' iniziato a prevedere
 alcune, particolari ipotesi di concorso di norme  penali  statali  ed
 amministrative  regionali  (cfr., a parte ogni valutazione, l'art. 9,
 secondo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689).
    7.  -  Vero e' che l'art. 3, primo comma, della legge siciliana n.
 26 del 1986 non si e' valso di alcuno dei procedimenti legittimamente
 attuativi dell'art. 31, secondo comma, della legge n. 47 del 1985.
    Non  e',  infatti,  condivisibile  l'assunto  della  difesa  della
 Regione  Sicilia  secondo  il  quale  il  primo  comma  dell'articolo
 impugnato  interpreti  estensivamente l'art. 31, secondo comma, della
 legge statale da ultimo citata. L'esecuzione del  rustico  dei  nuovi
 edifici ed il completamento funzionale delle opere interne di edifici
 gia' esistenti o non  destinati  a  residenza  concretano  situazioni
 tassativamente  precisate  dall'art.  31  della  legge  statale,  che
 nettamente divergono dall'ipotesi (esecuzione  della  sola  struttura
 portante  degli  edifici) di cui all'art. 3, primo comma, della legge
 regionale in esame. E non e',  certo,  fondatamente  sostenibile  che
 quest'ultima  ipotesi  rientri  in uno dei significati traibili dalla
 lettera del secondo comma dell'art. 31 della citata legge statale.
    Ne' puo' ritenersi che l'art. 3 della legge siciliana "specifichi"
 l'art. 31 della legge statale: non basta, infatti, la copertura degli
 edifici  ad  unificare  le  situazioni  previste  dalle due leggi. La
 specificazione non puo' attenere a caratteristiche (esecuzione  della
 sola  struttura portante) che, per se', esclude il (preteso) "genere"
 (esecuzione del rustico o completo funzionamento delle opere  interne
 per  gli  edifici  gia'  esistenti  o  non destinati a residenza): la
 realizzazione della sola struttura portante dell'edificio esclude che
 sia stato realizzato anche il rustico.
    L'art.  3,  primo  comma,  della  legge  siciliana  n. 26 del 1986
 effettivamente applica la causa d'estinzione del reato prevista dalla
 legge   statale  n.  47  del  1985  ad  ipotesi  non  considerate  da
 quest'ultima legge.
    Senonche',  le  situazioni  per  le  quali  e' dalla legge statale
 prevista una causa d'estinzione del reato non possono essere, neppure
 dalle  leggi  regionali, analogicamente "estese". Si oppone, infatti,
 all'interpretazione analogica delle cause d'estinzione del  reato  la
 seconda parte dell'art. 14 delle disposizioni preliminari sulla legge
 in generale. Anzitutto, le cause d'estinzione, almeno di regola,  non
 sono   riconducibili   a   principi   generali,  tali  da  consentire
 l'applicazione dell'analogia iuris. Ma anche la  ratio  delle  stesse
 cause  e',  generalmente, di mera opportunita': non attiene, infatti,
 di regola, all'interesse specifico (c.d. "interno")  leso  dal  fatto
 costituente  reato.  A  tale  ratio  (che  tutela  il  c.d. interesse
 "esterno" al reato) non sono,  pertanto,  riconducibili  ipotesi  non
 previste dalle leggi concessive del beneficio.
    E  valga  il  vero:  le  situazioni  di cui all'art. 3 della legge
 regionale siciliana n. 26 del 1986  risultano  incriminate  da  leggi
 statali;  la  legge  n.  47 del 1985, nel prevedere l'"estinzione del
 reato" per le ipotesi ivi previste, realizza  un'eccezione  ad  altre
 leggi,  quelle,  appunto,  incriminatrici: ma, ai sensi della seconda
 parte dell'art. 14 delle disposizioni sulla  legge  in  generale,  le
 leggi  "...che  fanno  eccezione...  ad  altre leggi non si applicano
 oltre i casi ed i tempi in esse considerati". La Regione Sicilia  non
 e', dunque, legittimata a ritenere applicabile l'estinzione del reato
 di cui alla legge statale  n.  47  del  1985  anche  ad  ipotesi  non
 previste dall'art. 31 della stessa legge.
    La  legge  regionale  impugnata  ha, in conseguenza, anche violato
 l'art. 3, primo comma, Cost.
    Che,  d'altra  parte,  le situazioni di cui all'art. 3 della legge
 siciliana n. 26 del  1986  non  solo  non  siano  riconducibili  alle
 motivazioni  d'opportunita'  che  ispirano  la previsione della causa
 d'estinzione da parte della legge statale n. 47 del 1985 ma risultino
 nettamente  contrastanti con dette motivazioni, e' dimostrato (anche)
 dalla lettera dell'art. 3, primo  comma,  della  legge  siciliana  in
 discussione   e   dai  lavori  preparatori  relativi  a  quest'ultimo
 articolo.
    Dalla  lettera  dell'impugnato  art.  3  risulta, infatti, che "Il
 secondo comma dell'art. 31 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 e'...s
 ostituito"...  dall'art.  3  della legge regionale n. 26 del 1986: la
 norma regionale impugnata ha in tal modo, sostituendosi, appunto,  al
 legislatore  statale,  arbitrariamente  resa applicabile l'estinzione
 del reato prevista dalla stessa legge statale ad ipotesi che, essendo
 escluse  dal  secondo  comma  dell'art.  31  della  stessa legge, non
 potevano legittimamente esser "decriminalizzate" con legge regionale.
    Dai   lavori   preparatori  relativi  al  contestato  primo  comma
 dell'art. 3 della citata  legge  regionale  non  emergono,  peraltro,
 elementi atti a trarre diverse conclusioni.
    Poiche' la previsione di cause d'estinzione del reato e' riservata
 alla legge statale, in  quanto  a  quest'ultima  spetta  la  potesta'
 incriminatrice;  poiche' alla stessa legge compete, conseguentemente,
 individuare le situazioni alle quali si applicano le citate cause;  e
 poiche', pertanto, l'ambito delle predette situazioni, individuato in
 una legge statale, non puo' esser illegittimamente esteso o ristretto
 ad  opera  di  leggi  regionali  (neppure di quelle che dispongono in
 materie  c.d.  "esclusive")   deve   dichiararsi   costituzionalmente
 illegittimo   il  primo  comma  dell'art.  3  della  legge  regionale
 siciliana n. 26 del 1986.
    Ai  sensi  dell'art.  27  della  legge  11  marzo 1953, n. 87 deve
 dichiararsi illegittimo anche il  secondo  comma  dell'art.  3  della
 legge regionale n. 26 del 1986.