IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA
    Delegato  nel corso di procedimento per concessione di liberazione
 anticipata nei confronti di Marras  Sandro,  nato  a  Cagliari  il  7
 agosto  1958,  ad acquisire le dichiarazioni del Marras dal tribunale
 di sorveglianza di Cagliari;
                             O S S E R V A
    In data 15 dicembre 1989 il tribunale di sorveglianza di Cagliari,
 nel corso di procedimento per concessione di liberazione  anticipata,
 ha  delegato  questo  giudice ad acquisire le dichiarazioni di Marras
 Sandro, detenuto presso la casa di reclusione di Volterra. Il  Marras
 quindi,   pur   volendo  essere  ascoltato  direttamente  dall'organo
 decidente, ha tuttavia, alla stregua della normativa vigente  (quarto
 comma  dell'art.  666  del  c.p.p. la cui applicazione risulta quindi
 determinante nel procedimento in  esame),  solo  la  possibilita'  di
 essere  ascoltato  da  questo  magistrato. E' infatti da osservare al
 proposito  che  l'art.  666,  quarto  comma,   del   c.p.p.   dispone
 relativamente   al  procedimento  di  esecuzione  (applicabile  nella
 fattispecie) che, ove l'interessato sia detenuto o internato in luogo
 posto  fuori  dalla circoscrizione del giudice competente a decidere,
 sia  sentito  prima  del  giorno  della  udienza  dal  magistrato  di
 sorveglianza  del  luogo, salvo che il giudice ritenga di disporre la
 traduzione.
    Tale  norma riproduce sostanzialmente la disciplina gia' contenuta
 nell'art. 630 secondo comma, del vecchio codice la  cui  legittimita'
 e'  stata  reiteratamente  affermata  dalla  Corte costituzionale (v.
 sent. nn. 5/70 e 159/76).
    Occorre  tuttavia  esaminare  se tale legittimita' possa ritenersi
 sussistente  anche  nell'ambito  dell'ordinamento  posto  dal   nuovo
 codice.
    Nella  vigenza  del menzionato art. 630 del c.p.p. era chiaramente
 ravvisabile   un   orientamento   a    riconoscere    il    carattere
 giurisdizionale  del  procedimento  incidentale  di esecuzione, ma e'
 indubbio che nella nuova normativa si coglie  una  accentuazione  dei
 momenti  giurisdizionali  nel  rapporto  processuale della esecuzione
 che, come  e'  stato  osservato,  pur  mutando  natura,  conserva  le
 finalita'   essenziali   del   processo   di   cognizione  (si  pensi
 all'introduzione della possibilita' di  valutare  anche  in  sede  di
 esecuzione  il concorso formale dei reati e la continuazione, ai fini
 della determinazione della pena). Tale  orientamento  ben  si  coglie
 anche nella direttiva 96 della delega (legge 16 febbraio 1987, n. 81)
 relativa ai principi che regolano attualmente l'esecuzione:  in  essa
 si  sottolinea l'esigenza delle "garanzie di giurisdizionalita' nella
 fase  dell'esecuzione"  ed  in   particolare   la   "necessita'   del
 contraddittorio   nei   procedimenti   incidentali   in   materia  di
 esecuzione".
    Cio' precisato in ordine alle esigenze fondamentali di cui occorre
 tener conto  nel  valutare  la  disciplina  posta  dal  quarto  comma
 dell'art.  666  del c.p.p., e' da osservare che la procedura prevista
 da tale articolo e' applicabile  ad  un  ambito  quantitativamente  e
 qualitativamente  assai  piu'  esteso  e rilevante di quello previsto
 dall'art. 630 del vecchio codice. L'art.  678  del  c.p.p.,  difatti,
 regolando un procedimento unitario per tutte le materie di competenza
 del tribunale di sorveglianza e per gran parte di  quelle  attribuite
 al  magistrato di sorveglianza, rinvia all'art. 666, che viene quindi
 ad essere utilizzato in tutta una  vastissima  serie  di  fattispecie
 estremamente   delicate   in  cui  la  valutazione  discrezionale  su
 situazioni  personali,  familiari  e  lavorative,  su   problematiche
 comportamentali  e sociali acquista un rilievo nettamente preminente.
 Ora,  gia'  nella   menzionata   sentenza   n.   5/1970,   la   Corte
 costituzionale,  pur  giungendo a dichiarare non fondata la questione
 di legittimita' costituzionale  dell'art.  630,  secondo  comma,  del
 c.p.p.,  ha osservato (seguendo in cio' i rilievi dell'avvocatura per
 cui   nella   procedura   incidentale,   a   differenza   di   quella
 dibattimentale,    la    questione   da   risolvere   appariva   gia'
 cristallizzata e le posizioni delle  parti  chiaramente  delineate  e
 reciprocamente  conosciute)  che  nel  procedimento incidentale "alla
 parte privata condannata la comparizione di persona e' consentita per
 un  fine  diverso da quello per cui l'imputato e' convocato avanti al
 giudice dell'istruzione o del giudizio e che e' un  fine,  almeno  in
 parte,  volto  all'acquisizione di elementi probatori", cosicche' non
 poteva scorgersi nessuna compressione del diritto di  difesa  in  una
 comparizione  personale  attuata  per il tramite di un altro giudice,
 particolarmente  tenendo  conto  "del  carattere  del  procedimento",
 "ristretto   a   questioni   ordinariamente   di  solo  diritto,  ben
 circoscritte e determinate". Anche  nella  sentenza  n.  159/1976  la
 Corte   costituzionale   ha   osservato   che  "sulla  base...  delle
 caratteristiche proprie del procedimento incidentale" (ristretto,  in
 sostanza,  a  questioni  ordinariamente  di  mero  diritto),  nessuna
 rilevanza poteva attribuirsi, ai fini della completezza  del  diritto
 di  difesa,  al  fatto che l'art. 630 secondo comma non prevedesse la
 possibilita' per il difensore dell'istante, detenuto in luogo diverso
 da  quello  del  giudice  competente  a  decidere  sull'incidente  di
 esecuzione, di essere posto in condizione di intervenire  dinanzi  al
 giudice  di  sorveglianza  o  al  pretore,  delegati  per l'audizione
 dell'istante stesso.
    Come  accennato,  proprio  il  carattere  del  procedimento di cui
 all'art. 666 del  c.p.p.  e'  nella  nuova  disciplina  profondamente
 mutato   ed   implica  l'acquisizione  di  elementi  probatori  e  la
 valutazione di elementi di fatto che devono essere  approfonditamente
 accertati, esaminati e discussi.
    In una tale situazione, la condizione dell'interessato detenuto in
 luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice che  deve  decidere
 sulla  sua  istanza  e' chiaramente deteriore. La Corte di cassazione
 (v. Cass. pen. sez. V, ord. 11 maggio 1978 n. 1011) ha osservato  che
 nell'incidente  di esecuzione l'intervento diretto del detenuto offre
 "una garanzia poziore rispetto a quella dell'audizione  dello  stesso
 detenuto  da  parte  di organo diverso da quello decidente" e cio' e'
 tanto piu' vero nella normativa attuale in cui l'interessato (ove  il
 giudizio  - secondo una sua valutazione del tutto discrezionale e che
 non puo' essere oggetto di censura  -  non  ritenga  di  disporre  la
 traduzione),  non  ha la possibilita' di essere udito dal suo giudice
 naturale  esponendo  le  sue  problematiche,  giustificando  i   suoi
 comportamenti,  adducendo  al giudizio nuovi elementi nell'ambito del
 contraddittorio ed alla presenza del  difensore.  E  tale  condizione
 deteriore  viene  in  concreto  ad  essere determinata da circostanze
 occasionali, fortuite, che  per  lo  piu'  sfuggono  totalmente  alla
 possibilita'  di  intervento  da  parte  del detenuto (sfollamento di
 istituti col numero eccessivo di  ristretti,  ristrutturazione  degli
 edifici carcerari, etc.).
    Nella   fase   del  procedimento  di  cognizione,  nonostante  sia
 riconosciuta in taluni casi una facolta' di delega (v.  ad  es.  art.
 294,  quinto  comma,  art.  398,  quinto comma) e' prevista anche una
 presentazione spontanea che da' luogo ad un atto che equivale  ad  un
 interrogatorio (v. art 374) e comunque l'interessato partecipa sempre
 alle udienze in cui si decide il  procedimento  instaurato  nei  suoi
 confronti (artt. 421, 441, 447, 451 e 474).
    In realta' la norma in esame, stabilita dal quarto comma dell'art.
 666 del c.p.p. non prevedendo  il  diritto  del  condannato  che  sia
 detenuto  in  luogo  diverso  da  quello  in  cui  risiede il giudice
 competente a decidere, di intervenire  personalmente  all'udienza  in
 camera    di    consiglio,    risulta   affetto   da   illegittimita'
 costituzionale, sia nei confronti dell'art.  3,  primo  comma,  della
 Costituzione  (operando  una  disparita'  di trattamento non solo fra
 individui detenuti e non detenuti, ma anche tra gli stessi detenuti),
 sia nei confronti dell'art. 24 secondo comma (ponendo una limitazione
 al diritto di difesa).
    Difatti  la  disparita'  e  la limitazione suddetti, indubbiamente
 sussistenti, non possono comunque piu' essere considerati "razionali"
 (v.  a  tal proposito sentenza n. 5/1970 della Corte costituzionale),
 sotto il profilo che  il  legislatore  avrebbe  giustamente  ritenute
 prevalenti  le  difficolta'  pratiche  scaturenti  da un trasporto in
 stato di detenzione, di fronte alla irrilevanza che il  beneficio  di
 essere  ascoltato  di  persona  dal  giudice  competente  a  decidere
 rappresenterebbe per il detenuto.
    In  realta'  il  trasporto  di detenuti, anche pericolosi, avviene
 attualmente con estrema frequenza, per i motivi piu' vari  (si  pensi
 ad  es.  ai  permessi  ex art. 30 della legge n. 354/1975), palesando
 cio' come il legislatore e la  prassi  tendano  sempre  piu'  a  dare
 maggiore  rilievo  alle  esigenze  sostanziali  che  alle difficolta'
 logistiche; e comunque la natura stessa delle fattispecie attualmente
 trattate  attraverso  la  procedura di cui all'art. 666 del c.p.p. e'
 tale da non tollerare di essere  compressa  (attraverso  l'esclusione
 del   mezzo   principale  di  difesa  costituito  dalla  comparizione
 personale) da problemi pratici di per se' certo non irresolubili.
    Nella  normativa  attuale  non  puo'  essere  usato un trattamento
 ripugnante alla logica del contraddittorio ed a fondamentali esigenze
 di  difesa,  dando  ingiustificatamente  la  prevalenza  a ragioni di
 ordine materiale o economico.
    Quest'ultima  "filosofia"  si  ritrova  in  verita' anche in altre
 disposizioni del nuovo codice (v. art. 127, terzo comma, del  c.p.p.,
 309,  ottavo  comma,  del  c.p.p., 101, secondo comma, delle norme di
 attuazione). In realta' anche il procedimento in camera di  consiglio
 e' previsto in ipotesi, quali ad es. l'appello contro le ordinanze in
 materia di misure cautelari personali ed il riesame  delle  ordinanze
 che  dispongono  una  misura  coercitiva,  che  non  vertono certo su
 questioni  "cristallizzate",  "di  mero  diritto"  e  "reciprocamente
 conosciute"   ed   in   cui   la  possibilita'  di  essere  ascoltato
 direttamente  dal  giudice  che  deve  decidere  appare  di  primaria
 importanza.  Sono  ipotesi, queste, in cui il diritto di difesa viene
 compresso,  analogamente  a  quanto  avviene  con  il  quarto   comma
 dell'art.  666, e che la nuova normativa, se vuol essere coerente con
 le  esigenze  espresse  nelle  direttive  della  delega,   non   puo'
 accettare.