IL PRETORE
    Esaminate  le  questioni  di legittimita' costituzionale dell'art.
 248 delle norme transitorie al codice di  procedura  penale  (decreto
 legislativo  28  luglio  1989,  n.  271),  in relazione all'art. 444,
 secondo comma, del codice di procedura penale, proposte dalla  difesa
 della parte civile.
                              R I L E V A
    Innanzitutto,  che  tali  questioni  sono  rilevanti al fine della
 definizione del  giudizio,  cosi'  come  ne  e'  delineato  il  thema
 decidendum  proposto  dalle  parti  che  attualmente  vi  partecipano
 (invero,  allo  stato,  il  presente  giudizio  ha  ad  oggetto   una
 delibazione  di responsabilita' penale dell'imputato ed una correlata
 e conseguenziale  delibazione  della  pretesa  risarcitoria  avanzata
 dalla parte civile).
    Quanto,  poi,  alla  fondatezza  delle  questioni  va rilevato che
 almeno taluna di esse non appare manifestamente infondata.
    Invero,  con  la  norma  contenuta  nel  citato articolo 248 delle
 disposizioni  attuative,  il  legislatore  subordina   l'operativita'
 dell'istituto  dell'applicazione  della pena su richiesta delle parti
 (imputato e p.m.) alla mera circostanza che  non  siansi  effettuate,
 nel  giudizio,  le  formalita'  di apertura del dibattimento di primo
 grado, alla data del 24 ottobre  1989.  E  poiche'  tale  circostanza
 processuale   si   verifica  senza  alcun  impulso  od  incidenza  di
 comportamento della parte  civile  ben  puo'  verificarsi  che  parti
 civili  che  ebbero  a  costituirsi  nel medesimo periodo in analoghi
 processi penali vengano a subire - ripetesi  per  eventi  processuali
 del  tutto  indipendenti  ed  estrinseci  alla loro condotta - regimi
 processuali   discriminanti    e,    comunque,    sperequanti;    con
 ingiustificate   limitazioni,   per  taluni,  della  loro  agibilita'
 processuale.
    Infatti per effetto della disposizione contenuta nell'ultima parte
 del secondo comma del citato art. 444 del codice di procedura  penale
 la  parte  civile inserita in un processo per il quale, alla data del
 24 ottobre 1989, erano state gia' compiute le formalita' di  apertura
 del  dibattimento  potra'  continuare  ad espletare, nella intrapresa
 sede  processuale  penale,  la  propria  azione  civile,   usufruendo
 dell'ampia   liberta'  che  la  sede  penale  assicura  all'attivita'
 probatoria.
    All'opposto  la parte civile inserita in un processo per il quale,
 alla data del 24 ottobre 1989, non erano  state  ancora  compiute  le
 formalita'   di   apertura   del   dibattimento,  dovra'  subire  una
 sostanziale estromissione dal processo medesimo e, poiche',  in  ogni
 caso,  il  giudice,  accolto  l'istituto  della pena su richiesta non
 potra'  decidere  sulla  domanda   proposta   dalla   parte   civile,
 quest'ultima  sara'  costretta  a  dover  adire il giudice civile per
 esperire la relativa azione. Con un effetto senz'altro svantaggioso e
 perche'  -  divenuta  ormai  priva di efficacia giuridica l'attivita'
 sin'allora  espletata  nella  sede  penale  -  dovra'  attendere   un
 ulteriore  tempo  per  conseguire il riconoscimento della sua pretesa
 risarcitoria  e  perche'  -  e  questo  e'  ancora  piu'   gravemente
 discriminante  -  dovra' subire i limiti che la normativa processuale
 civilistica impone in materia di prove.
    Vero   e'  che  tale  discriminazione,  fondata  unicamente  sulla
 preoccupazione  del  legislatore  di  assicurare  il  piu'  possibile
 l'ingresso  ai  piu'  abbreviati  ed  informali  riti speciali, trova
 fondamento  sul  dato  oggettivo  della  diversa  fase  di   sviluppo
 dibattimentale  del  processo  alla data considerata. Ma poiche', con
 adeguati  accorgimenti  normativi,  il  legislatore  avrebbe   potuto
 contemperare  le due esigenze (rapidita' di definizione del processo,
 magari con la concomitante  operativita'  di  istituti  premiali  per
 l'imputato,   e   realizzazione   del  diritto  della  parte  civile,
 costituzionalmente  sancito,  alla   delibazione   giudiziale   della
 esercitata  azione  di  danno),  tale ingiustificata sperequazione in
 danno di una  sola  delle  parti  del  rapporto  processuale  penale,
 verosimilmente  determina  violazione del principio costituzionale di
 uguaglianza, sancito dall'art. 3 della  Costituzione.  E  cio'  anche
 alla stregua della interpretazione piuttosto restrittiva che, sino ad
 oggi, di tale diritto  ha  effettuato  la  Corte  costituzionale  nel
 ragionevole intento di contemperare - se non subordinare - gli status
 soggettivi riconosciuti ai singoli con preminenti interessi  generali
 (nel  caso  di  specie  facilmente  individuabili  con  quello  della
 rapidita' dei giudizi).
    Le   considerazioni   innanzi   svolte  inducono  a  ritenere  non
 manifestamente infondata la questione proposta in relazione  all'art.
 3  della  Costituzione  (principio  di eguaglianza), risultando leso,
 senza alcun giustificabile motivo, il regime della par condicio  alla
 piena  tutela  giurisdizionale del proprio diritto al risarcimento ed
 alla restituzione.
    All'opposto  non manifestano alcun pregio le argomentazioni svolte
 in relazione  all'art.  24  della  Costituzione  (riconoscimento  del
 diritto di azione: "tutti possono agire in giudizio per la tutela dei
 propri diritti ed interessi legittimi").
    Invero   con   l'anzidetto   principio  si  e'  voluto  unicamente
 assicurare al titolare  di  una  situazione  giuridica  qualificabile
 diritto  soggettivo  od interesse legittimo - e per la tutela di tali
 situazioni giuridiche - quello strumento processuale di tutela che e'
 il  giudizio;  con  piena  liberta'  per il legislatore ordinario, di
 liberamente modellare e prevedere siffatti strumenti processuali (uno
 o  piu', concorrenti od alternativi), con l'unico limite del rispetto
 dei  fondamentali  principi  all'uopo  sanciti   dalla   Costituzione
 (diritto  di  difesa,  diritto al contraddittorio, diritto al giudice
 naturale precostituito per legge, ecc.).
    E  siffatto  diritto  di  azione  - rectius: diritto ad almeno uno
 strumento processuale di  tutela  articolato  secondo  gli  anzidetti
 principi costituzionali - e' indubbiamente residuato anche alla parte
 civile oggetto della preclusione di cui  al  citato  art.  148  delle
 norme att., sia pure con la piu' ristretta e discriminante agibilita'
 innanzi rilevata.
    Parimenti  deve  ritenersi,  infine,  manifestamente  infondata la
 questione sollevata  in  relazione  all'art.  25  della  Costituzione
 (diritto  al  giudice  naturale),  in quanto che nel caso di specie -
 residuando, in favore della parte civile estromessa, l'azione  civile
 esperibile presso il (precostituito) giudice civile - neppure si pone
 la problematica gia' oggetto di esame della Corte costituzionale  (v.
 Corte  costituzionale  5  maggio  1967, n. 56; Corte costituzionale 8
 aprile 1976, n. 72) e da questa risolta nel senso  che  il  principio
 del  giudice  naturale e' violato quando il giudice venga designato a
 posteriori dal legislatore "in via di eccezione singolare alle regole
 generali"  ma  non  lo e' quando la legge "sia pure con effetto anche
 sui processi in corso, modifica in generale i presupposti o i criteri
 in  base  ai  quali deve essere individuato il giudice competente" in
 vista   "dell'interesse   generale    intimamente    connesso    alla
 funzionalita'  dei servizi della giustizia" attuabile con un migliore
 assetto dell'organizzazione degli uffici giudiziari.