IL TRIBUNALE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza;
    Letto   il   ricorso   presentato  dall'Istituto  nazionale  della
 previdenza sociale in data 3 gennaio 1989,  diretto  ad  ottenere  la
 dichiarazione  di  fallimento  della  societa'  di  fatto  fra Cimini
 Giuseppe e Delle Monache Giuseppe;
    Letti gli atti;
    Sentito il relatore;
                             O S S E R V A
    Con  sentenza n. 570 del 22 dicembre 1989 la Corte costituzionale,
 nel dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art.  1,  secondo
 comma,  del  r.-d.  16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui prevede
 che  "quando  e'  mancato  l'accertamento  ai  fini  dell'imposta  di
 ricchezza   mobile,   sono   considerati   piccoli  imprenditori  gli
 imprenditori esercenti un'attivita'  commerciale  nella  cui  azienda
 risulta investito un capitale non superiore a lire novecentomila", ha
 rilevato,  in particolare, che, specie ai fini dell'assoggettabilita'
 o meno alla procedura fallimentare, i criteri di  individuazione  del
 piccolo  imprenditore  "devono  essere  stabiliti  in  relazione alla
 attivita'  svolta,  all'organizzazione  dei  mezzi  impiegati,   alla
 entita'  dell'impresa  ed  alle ripercussioni che il dissesto produce
 nell'economia generale".
    La ratio dell'esclusione dal fallimento del  piccolo  imprenditore
 e'  stata  individuata  dalla  Corte nell'esigenza - tra l'altro - di
 evitare l'apertura  della  procedura  in  ipotesi  in  cui  l'entita'
 modesta  dell'impresa  - con conseguente possibilita' di assorbimento
 dell'esiguo attivo con le spese della procedura stessa - fa  ritenere
 non  perseguibili  le finalita' del fallimento, rimanendone frustrata
 la tutela dei creditori.
    Tali esigenze sussistono indubbiamente - come gia' rilevato da una
 parte della giurisprudenza di merito - anche in presenza  di  imprese
 esercitate in forma collettiva.
    Nondimeno,  il  disposto  di cui all'art. 1, secondo comma, ultima
 parte, della legge fallimentare, per il quale "in  nessun  caso  sono
 considerati  piccoli imprenditori le societa' commerciali", impedisce
 di distinguere la "piccola impresa  collettiva"  da  quella  media  e
 grande,  verificandosi, cosi', un'evidente disparita' di trattamento,
 ad esempio,  fra  il  piccolo  imprenditore  artigiano  (escluso  dal
 fallimento)  e  la societa' (regolare o irregolare, o di fatto - come
 nella concreta fattispecie) fra due artigiani.
    In altri termini,  se  due  muratori  decidono  di  esercitare  in
 comune,  dividendone  utili  e  perdite,  -  magari  con l'ausilio di
 modesti attrezzi  di  lavoro  -  le  stesse  attivita'  che  potrebbe
 esercitare  individualmente  un artigiano con un operaio alle proprie
 dipendenze, in forza della norma innanzi cennata  sarebbero  comunque
 assoggettabili  al  fallimento  ("dipendente"  dal  fallimento  della
 societa'  di  fatto)   a   differenza   del   secondo,   con   palese
 ingiustificata disparita' di trattamento.
    Cio'  posto,  poiche'  nella concreta fattispecie sussistono tutti
 gli  elementi  innanzi  evidenziati  (modesta   societa'   di   fatto
 esercitata  da  due  muratori senza impiego di capitale rilevante) la
 questione  -  non  manifestamente   infondata   -   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art. 1, secondo comma, ultima parte, della legge
 fallimentare  in  relazione  all'art.  3  della  Costituzione  appare
 indubbiamente   rilevante,   sussistendo,  altresi',  il  presupposto
 oggettivo dell'insolvenza e non potendosi condividere  l'orientamento
 giurisprudenziale  minoritario  secondo cui la societa' artigiana non
 sarebbe assoggettabile al fallimento per la  natura  non  commerciale
 dell'attivita' svolta.