LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nei confronti di Iorio Gaetana, nata a Roma il 15 gennaio 1959, elettivamente domiciliata in via degli Scipioni n. 268, presso l'avv. Luciano Revel, istante per riparazione di ingiusta detenzione, e il Ministero del tesoro, in persona del Ministro pro-tempore, elettivamente domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l'Avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e difende in virtu' di legge; Udite le conclusioni del p.g. e dell'istante, all'udienza in cam- era di consiglio del giorno 11 febbraio 1993; Ritiene: I) Premessa in diritto. L'art. 314 del c.p.p. vigente riconosce al prosciolto il "diritto ed un'equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave". E' di chiara evidenza che la norma - ai fini della esclusione del diritto alla riparazione - richiede il nesso di causalita' tra un comportamento doloso o colposo e la custodia. La chiara disposizione di legge, interpretata secondo i consolidati canoni logici propri del principio di causalita', quindi richiede, per l'esclusione del diritto alla riparazione, soltanto i seguenti elementi. Per l'elemento materiale: 1) una condotta del soggetto, anche solamente a titolo di concorso con quella di altri; 2) un nesso di causalita' tra condotta ed evento detenzione (detenzione = provvedimento di custodia della p.g. o dell'a.g.). Per l'elemento psicologico: uno stato di dolo o di colpa grave in riferimento all'evento, anche a titolo di concorso con quello di altri: un operare, cioe', con l'intenzione di procurare la detenzione: ovvero una azione od omissione gravemente colposa, cioe' negligente, imprudente, priva di perizia o che costituisca inosservanza di norme, in modo grave, anche solamente in concorso con colpa altrui, correlata al fatto reato previsto nell'impugnazione. E' pure evidente il rilievo logico che l'elemento (fattore) causa deve precedere - nell'ordine temporale - l'elemento causato (conseguenza), senza di che quella figura logica, che e' detta rapporto causale, non si rinviene. Da tali ovvie premesse anzitutto deriva l'inammissibilita' - sul piano logico - di tesi riduttive, che richiedano, per l'esclusione della riparazione, che la colpa sia solo quella che puo' rinvenirsi nell'attivita' difensiva dell'accusato (taluno usa anche il termine di "malaccortezza difensiva") e non anche in attivita' antecedente. Invece, dalle stesse premesse sopra enunciate, si ricava che tutto quel comportamento del soggetto, che precede la detenzione ed e' "ricollegabile" ad essa, non puo' essere senza rilievo, e in linea logica e per chiaro dettato legislativo. L'intento riduttivo di cui sopra non puo' essere rinvenuto nella norma di legge dell'art. 314, se interpretata secondo i corretti canoni e per due ordini di ragioni, ciascuno di per se' assorbente ed esaustivo: A) infatti, gia' nell'ordine normale cronologico dei fatti storici, l'atteggiamento difensivo segue e non precede l'inizio della custodia cautelare (cioe' il fatto detenzione), sicche' - per definizione - non puo' averla cagionata (arresto in supposta flagranza - provvedimento di custodia di persona irreperibile - provvedimento di custodia di persona denunciata e mai sentita, ecc.). La serie logica (condotta dolosa o colposa, che cagiona la custodia) precisata dalla norma non autorizza alcuna tesi minimale, che intenda limitare, nel solo caso di colpa, l'elemento antecedente solamente alla condotta difensiva; B) ma, a ben vedere, l'inesattezza della tesi interpretativa riduttiva si rileva che per altro verso. Operando nel senso che qui si contrasta, si viene a realizzare una disparita' tra ipotesi dolosa ed ipotesi colposa, inammissibile perche' senza fondamento nell'espressione di legge: per la ipotesi dolosa, di realizzazione nel nesso di causabilita', verrebbe in rilievo ogni comportamento antecedente alla custodia e non solo quello realizzato in sede di "difesa", sicche' la predisposizione di prove a proprio carico (cioe' la condotta con l'intento di provocare un provvedimento di custodia cautelare) non consentirebbe la riparazione, mentre l'ipotesi colposa rimarrebbe ridotta a comportamenti cronologicamente successivi rispetto a quelli dolosi, cioe' ai rari casi di colpa nella difesa (in quella condotta che poi quasi sempre segue alla custodia e, percio', sul piano logico, in detti casi, non ne costituisce un antecedente). Vero, quindi, e' che i principi generali sulla condotta colposa, sull'evento susseguente e sul relativo nesso di causalita' non consentono - per la sintetica omnicomprensiva espressione usata dalla legge - tale sorta di differenziazione. Ed il legislatore ha voluto sottolineare la rilevanza della mera situazione di colpa grave, tanto che ha ammesso che sia decisiva anche a titolo di concorso. A questo punto, un chiarimento si rende necessario. Il rapporto tra custodia cautelare e condotta del soggetto (dolosa o colposa), per la natura degli enti di cui si tratta, non puo' appartenere al genere di rapporto di causalita' c.d. fisico, cioe' che si realizza attraverso le leggi naturali delle scienze fisiche, poiche' la custodia cautelare (detenzione), a differenza, ad esempio, dell'evento morte in seguito a lesioni, non e' ovviamente conseguenza naturale (fisica) di un antecedente, ma e' realizzata comunque attraverso un provvedimento dell'autorita' (di polizia o giurisdizionale). E' evidente, quindi, che la condotta dell'interessato va esaminata in relazione a tale provvedimento. Applicando i principi generali da tempo acquisiti e consolidati in materia di causalita' giuridica, si dovra' verificare, cosi', se una data concreta condotta abbia costituito una condicio sine qua non del provvedimento cautelare (di qualsiasi autorita'); cioe', trattandosi di provvedimento e non di effetto naturale, se essa fu tale da costituire un antecedente, da cui conseguisse, in base a una correlazione frutto di ragionamento non arbitrario o irragionevole che lo collegava alla ipotesi di reato (se mai a titolo di concorso con altri antecedenti), un provvedimento cautelare (per definizione di legge, d'altra parte, ingiusto, in quanto non correlato ad effettiva partecipazione al reato). Ma cio' non basta, evidentemente, per l'esclusione del diritto alla riparazione. Occorrera' verificare, poi, se in tale condotta ricorra un ipotesi di dolo (cioe' se si tratta di condotta intenzionale, diretta all'emissione di un provvedimento cautelare o all'attribuzione di responsabilita' per reati) o di colpa grave, cioe' di una condotta in se' non neutra, ma gravemente imprudente, megligente, imperita o inosservate di norme o discipline, anche se solo a titolo di concorso con l'attivita' di altri. Sia il dolo che la colpa richiedono, anzi presuppongono, la conoscenza di una serie di elementi e circostanze del caso concreto, senza di che l'elemento psicologico non e' realizzato; sicche' la stessa condotta puo' - per certi casi - per Tizio, che e' a conoscenza di certi fatti, essere colposa, mentre non lo e' per Caio, che tali fatti e circostanze ignori e l'ignoranza non sia a lui imputabile a titolo di colpa giuridica. Per l'ipotesi di colpa vengono in rilievo anche le norme sui doveri e sulle discipline, sicche', anche qui, la stessa condotta puo' essere colposa per Tizio, che tali doveri abbia e non per Caio, a cui essi invece non incombano. Qualche ulteriore precisazione si impone. Trattandosi di causalita' non di ordine fisico, vengono anzitutto in rilievo tutti quei comportamenti, che, valorizzati soprattutto nel campo civilistico, cui comunque appartiene la materia della riparazione della ingiusta detenzione, possono sussumersi nella categoria delle condotte, che hanno ingenerato o concorso ad ingenerare l'errore di altri, il quale si e' poi determinato in un certo senso. Nella materia della lotta alla criminalita', in cui si esplica l'attivita' di quelle istituzioni che hanno il dovere di contrastare il crimine, per la difesa dei fondamentali diritti della collettivita' e del singolo, viene giustamente in rilievo in sostanza un onere di diligenza del cittadino. Detto onere ovviamente non ha rilievo ai fini propri penali, cioe' ai fini del proscioglimento dell'imputato dal resto doloso, ma a quelli di rendere ammissibile, al di la' del proscioglimento, una riparazione pecuniaria di una detenzione, che alla fine dell'iter giurisdizionale e' risultata non giusta sotto il profilo delle norme penali. Tale interpretazione del dettato legislativo, che sembra l'unica ammissibile per la chiara espressione della norma, risulta anche conforme ai principi generali del nostro ordinamento giuridico, secondo considerazioni di carattere sistematico. L'onere di una diligenza di un qualche rilievo (assenza di colpa grave) e' anzitutto espressione di principi generali di convivenza nella collettivita', sicche' solamente ad una condotta ne' dolosa, ne' gravemente colpevole, nei sensi sopra indicati, conseguira' il diritto alla riparazione (in aggiunta al diritto al proscioglimento, ancorato - questo - a presupposti diversi propri, in relazione alla fattispecie criminosa imputata). Non vi e' dubbio che la riparazione pecuniaria prevista dagli artt. 314 e segg. del c.p.p. vigente sia un istituto appartenente all'ampia categoria costituita dal genus degli istituti risarcitori- riparatori del diritto civile, che regolano la materia delle restituzioni e dei pagamenti di denaro, conseguenti a danni subiti dal singolo per qualsiasi tipo di condotta altrui (artt. 2043 e segg. 1053, 1218 e segg. del cod. civ. ecc.). Volta a volta la legge parla di "danno" ingiusto, se del tutto illegittimo (artt. 2043, 1218 ecc. del cod. civ.), ovvero di "indennita'" se il danno e' "legittimo", ma tale che il soggetto passivo non debba sopportarne integralmente le conseguenze (es. artt. 2045, 1053, ecc, del cod. civ.). Il principio generalissimo del nostro ordinamento giuridico, attinente alla riparazione pecuniaria di qualsiasi tipo di danno (anche quello cagionato alla persona, alla sua vita, alla sua integrita' fisica oltre che patrimoniale), quale che sia il suo antecedente soggettivo (diritto assoluto, diritto della persona, diritto di credito, relativo, ecc.) si rinviene negli artt. 1227, primo e secondo comma, e 2056 del cod. civ. Il primo prevede: "Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento e' diminuito secondo la gravita' della colpa e l'entita' delle conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non e' dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza". L'art. 2056 estende le stesse norme a tutte le altre categorie di danno riparabile o risarcibile, illegittimo o legittimo, illecito o lecito. La normativa contenuta nell'art. 1227 del cod. civ. viene generalmente intesa nel senso che l'ordinamento impone anche l'onere di usare una ragionevole diligenza per tutelare se stessi e il proprio patrimonio. La dottrina sottolinea come questa norma sia coerente coi principi generali in tema di causalita' e coi principi - espressi in una quantita' di norme - che impongono ai soggetti di comportarsi secondo correttezza o fanno riferimento agli obblighi (ed oneri) del bonus pater familias (art. 1175, ecc. del cod. civ.); senza di che il soggetto stesso non sara' tutelato con riparazioni pecuniarie. Va sottolineato che l'esclusione o la riduzione, nei congrui casi, del risarcimento o riparazione del danno, nel caso di colpa del danneggiato, si applica nel nostro ordinamento giuridico a qualsiasi genere di danno, anche a quello che attenga alla vita o alla integrita' fisica del danneggiato medesimo, sicche' in sostanza non e' incoerente col sistema giuridico complessivo prevedere anche - secondo l'istituto regolato negli artt. 314 e segg. del cod. civ. - che il concorso di colpa (grave) dell'imputato escluda la riparazione pecuniaria per la detenzione. Si tratta, in ogni caso, di una situazione giuridica soggettiva, che puo' sussumersi nella categoria dell'onere, piu' che in quella dell'obbligo. In conclusione, se sussiste un nesso di causalita' nel senso sopra indicato, se cioe' la condotta dell'agente provoco' (quale condicio sine qua non) o concorse a provocare "l'idea-base" del provvedimento di custodia, non ha ovviamente rilievo decisivo il fatto che si tratto' di una convinzione o ipotesi erronea, poiche' cio' costituisce proprio il presupposto naturale (necessario), "per definizione", dell'istituto della riparazione: se l'ipotesi non fosse stata erronea, sarebbe conseguita l'affermazione della responsabilita' e non si verterebbe in ipotesi di riparazione. Quel che conta - secondo la chiara norma di legge - e' se nel realizzarsi di detta convinzione o ipotesi abbia almeno concorso la colpa grave del soggetto che fu inquisito e poi processato. Infine, si deve sottolineare che la stessa Corte costituzionale prevede che il diritto alla riparazione degli errori giudiziari non e' incondizionato, affermando, appunto, all'art. 24, ultimo comma, che la legge determina le condizioni nelle quali esso e' ammesso, oltre che i modi dell'esercizio. II) Il caso di Iorio Gaetana. Le circostanze di fatto rilevanti del caso che riguarda l'istante Iorio Gaetana, per quanto attiene all'istituto della riparazione della ingiusta detenzione, sono le seguenti, gia' evidenziate nei provvedimenti giurisdizionali penali. Dopo le percosse inferte nel corso di un litigio, dal Vitto Stefano alla moglie, in casa di costei poco dopo le ore 13 del 17 ottobre 1984, la Iorio si reco' al pronto soccorso, ove, munitasi di gettoni, telefono' a Zecchiaroli Sandro, suo amante dal novembre 1983; questi sopraggiunse subito e riaccompagno' la donna a casa, dove furono raggiunti dal Cipollaro e dalla fidanzata di costui, Tiziana Fabiani. Iorio Gaetana, la madre della stessa (Anna Maria Ceccarelli), la sorella (Stefania), lo Zecchiaroli, il Cipollaro e la sua fidanzata (Tiziana Fabiani) si trattennero tutto il pomeriggio del 17 in casa della prima, in stato di evidente animazione, come e' dato rilievo dalle varie deposizioni, in seguito al grave episodio delle lesioni subite dalla donna ad opera del marito; sopraggiunse anche Corsi Claudio, fidanzato della Stefania (sorella della signora Gaetana); appunto Corsi riferi' di un appuntamento che aveva preso per quella sera stessa, alle ore 21,30 con Stefano Vitto, il quale per telefono gli aveva chiesto di incontrarlo; verso sera lo Zecchiaroli e il Cipollaro uscirono dalla casa di G. Jorio, lasciando ivi la fidanzata di Cipollaro; verso le 21,30, Stefano Vitto usci' dalla casa dei genitori per recarsi all'appuntamento con il Corsi, e per incontrare anche un certo Cunina Cesare, che poco prima gli aveva telefonato, chidendogli di vederlo; in quella stessa ora la teste Alda Chiavaroli, abitante in corso Duca di Genova di Ostia, ove era anche l'abitazione del Vitto Stefano, udi' delle voci alterate di uomini che discutevano animatamente nel parcheggio della vicina piazza Agrippa, dove il Vitto era solito lasciare la sua auto, e senti', poi, il rumore di alcuni sportelli che si chiudevano e di un'auto che ripartiva a grande velocita'; la sera del 17 Zecchiaroli e Cipollaro non fecero piu' ritorno a casa di Jorio G. e la fidanzata di Cipollaro pernotto' li'; la mattina del 18 ottobre, Vitto Elvio recatosi a casa della Jorio per chiedere notizie del figlio, alla sua richiesta se la donna avesse parlato del grave litigio ai suoi amici, ebbe dalla stessa risposta negativa. La Jorio, sentita per la prima volta dalla polizia nell'Ospedale S. Giovanni dove si era fatta ricoverare dopo avere ricevuto la visita a casa del Vitto Elvio, dichiaro' che aveva telefonato allo Zecchiaroli soltanto al mattino del giorno 18. Successivamente, la stessa, su consiglio di Zecchiaroli, rettifico' la sua deposizione ammettendo di aver avvertito telefonicamente lo stesso Zecchiaroli gia' nel primo pomeriggio dle giorno 17; affermo', pure, che aveva mentito per "lasciare fuori dai suoi problemi personali Zecchiaroli, che era estraneo ai fatti"; nei giorni seguenti, nelle sue dichiarazioni agli inquirenti la Jorio cerco' di accreditare l'ipotesi che il marito potesse essere rimasto coinvolto in vendette di persone conosciute in occasione di traffici illeciti (ricettazione e, forse, traffico di droga con i fratelli Fascioni); l'ipotesi fu presa in seria considerazione dagli inquirenti e porto' all'arresto di due persone, poi scarcerate. Segui' a tutto cio' la fuga in Francia dello Zecchiaroli, del Cipollaro, della Jorio e della fidanzata del Cipollaro, con l'uso di documenti falsi procurati da Zecchiaroli Gaetano e dopo aver offerto in vendita perfino i mobili di casa. Dopo circa un mese da quando Gaetana Jorio si era resa irreperibile, venne spiccato contro di lei e contro Zecchiaroli e Cipollaro ordine di cattura per omicidio in corso. Rinviati a giudizio dalla Corte di Assise per omicidio volontario ed altro, Cipollaro e Zecchiaroli erano condannati per omicidio preterintenzionale ed occultamento di cadavere; Jorio Gaetana veniva assolta per insufficienza di prove in I grado e per non aver commesso il fatto in grado di appello. Su ricorso del p.g., la Corte di cassazione annullava con rinvio, per difetto di motivazione, la pronuncia di assoluzione della Jorio. La corte di assise di appello, in sede di rinvio, riconosceva Jorio Gaetana colpevole di concorso in omicidio preterintenzionale e la condannava alla pena di anni quattro e mesi sei di reclusione, concesse le attenunati generiche. La corte di cassazione, su ricorso della difesa, annullava senza rinvio, per difetto di motivazione, la sentenza di condanna, cosicche' il procedimento penale giungeva al suo termine. Presentata, da pare della Jorio, l'istanza di riparazione per ingiusta detenzione, la corte di appello di Roma riteneva verificata nella condotta dell'istante l'ipotesi di colpa grave, prevista dalla norma, cosicche' respingeva la domanda, con ordinanza del 18 aprile (20 maggio) 1991. La corte di appello, in detto provvedimento, riteneva che Jorio Gaetana aveva posto .. "in atto un vero e proprio depistaggio delle indagini, allorche' interrogata la prima volta dalla Polizia non riferi' agli inquirenti della visita ricevuta al pronto soccorso dell'ospedale di Ostia, ove era stata ricoverata per le lesioni subite dal marito, da parte di Zecchiaroli Sandro e Cipollari Luciano, ritenuti gli autori dell'omicidio in danno del Vitto. Successivamente, interrogata il giorno dopo, rettifico' le precedenti dichiarazioni, precisando che aveva informato lo Zecchiaroli (delle lesioni subite) il giorno 17 e non il 18, testualmente affermando: 'Ho fatto tale asserzione perche' il ragazzo Zecchiaroli Sandro e' estraneo a questi fatti ed io lo volevo lasciare fuori dai miei problemi personali'. In buona sostanza, la Jorio aveva posticipato la data della conoscenza da parte 'del suo ragazzo' dell'aggressione commessa dal Vitto: infatti, siccome la vicenda della sparizione di quest'ultimo si era verificata il 17, la Jorio affermando che il suo amico fino al 18 non aveva alcuna notizia dell'aggressione da lei subita, avrebbe in tal modo allontanato da lui ogni sospetto e indirizzato le indagini in altre direzioni. Altro evidente tentativo di 'depistaggio' fu posto in essere con gli interrogatori del 25 e 29 ottobre 1984 allorche' la Jorio riferi' delle attivita' illecite e dei rapporti del marito con persone legate al mondo del gioco d'azzardo e del totonero, riferendo episodi tali da indurre in un primo tempo gli investigatori a dirigere verso quell'ambiente le indagini per risalire agli autori del delitto. In- fine, - circostanza decisiva ai fini dell'indagine in esame - la sua fuga con l'amante all'estero e l'abbandono della figlia Cristina, in circostanze (vendita dei beni e ricorso a falsi documenti) che potevano ragionevolmente portare a concludere per una corresponsabilita' della Jorio nell'omicidio. Si consideri che, al momento di tale fuga, nessun provvedimento restrittivo della liberta' personale era stato ancora emesso, sicche' era ragionevole trarre da quel comportamento quella particolare rilevanza accusatoria che ad esso e' stata attribuita, e che porto' all'emissione del mandato di cattura". Per concludere, secondo la corte di appello, la condotta della Jorio fu di grave imprudenza: con i tentativi di depistaggio delle indagini e con la fuga all'estero essa dette causa alla emissione del provvedimento restrittivo della liberta' personale. Senonche', la Corte di cassazione, con sentenza del 20 gennaio (20 febbraio) 1992, annullava, con rinvio, detta pronuncia. Riteneva la Corte suprema, anzitutto, che certamente la condotta della Jorio, evidenziata dalla ordinanza cassata, non realizzava quell'ipotesi di dolo, che avesse dato causa a concorso a dar causa alla detenzione, prevista dall'art. 314 del c.p.p., poiche' "l'intento della Jorio non era questo, ma era invece quello, del tutto diverso, di coprire responsabilita' altrui senza minimamente prospettare o lasciare trasparire, in sostituzione, responsabilita' proprie". La reticenza e le menzogne della Jorio, prosegue la Cassazione, risultano in ogni caso obiettivamente idonee a coprire responsabilita' altrui, "ma non a porre in evidenza inesistenti responsabilita' della stessa Jorio", sicche' va esclusa la configurabilita' di una colpa ad esse riferibile. La stessa fuga all'estero, sia pure con quelle particolari circostanze (vendita dei beni, uso di documenti falsi) "non puo' valere a costituire colpa, ai fini di cui all'art. 314 de c.p.p.". In conclusione, la Corte suprema enuncia il principio di diritto, cui uniformarsi: "Il dolo o la colpa grave previsti dall'art. 314 del c.p.p. in tanto sussistono in quanto il soggetto inquisito o abbia scientemente operato al fine di creare la fallace apparenza di condizioni nelle quali potesse o dovesse essere adottata o mantenuta una misura cautelare nei suoi confronti (ipotesi dolosa), ovvero abbia mostrato una ingiustificabile e macroscopica trascuratezza nella rappresentazione, all'autorita' precedente, una volta reso edotto degli addebiti mossigli, di fatti e circostanze atti a scagionarlo o comunque a consentire il mantenimento o il recupero dello stato di liberta' (ipotesi colposa)". In seguito alla sentenza della suprema Corte, il procedimento ritorna alla corte di appello di Roma, quarta sezione penale, in composizione differente rispetto a quella che emano' l'ordinanza cassata. All'udienza del giorno 11 febbraio 1993, assente l'avvocatura dello Stato, uditi il p.g. e la difesa dell'istante, che concludevano per l'accoglimento della richiesta, questa corte di appello si e' riservata di decidere. III) Le due ipotesi di non manifesta infondatezza di incostituzionalita' della normativa. Ad avviso di questa corte di appello, in sede di rinvio, si possono profilare, nel caso, due questioni, non manifestamente infondate, di incostituzionalita' di norme, ciascuna di per se' rilevante ai fini della decisione. A) La prima di dette questioni scaturisce da quella parte della pronuncia della Corte di cassazione, in cui si afferma che, comunque, la condotta di coprire responsabilita' penali altrui non rientra nell'ipotesi di dolo o colpa grave previste dall'art. 314 (anche a titolo di concorso nel rapporto di causalita') per l'esclusione del diritto alla riparazione per la detenzione subita. Va sottolineato, nel caso concreto: che l'intento di coprire la responsabilita' dell'amante Zecchiaroli fu espressamente "confessato" dalla Jorio in sede di interrogatorio; che nella sentenza della Corte di assise di appello, che assolse la Jorio dal reato di concorso in omicidio, era contenuta l'osservazione .. "Vedra' il p.m. se sara' il caso di elevare a carico della Jorio l'imputazione di favoreggiamento personale sul presupposto che i comportamenti tenuti dalla suddetta (reticenza, menzogne e depistaggio) diretti a scagionare lo Zecchiaroli hanno configurato l'ipotesi delittuosa prevista dall'art. 378 del c.p.; ne' si sarebbe potuto derubricare, in questa sede, l'ipotesi di omicidio volontario nell'ipotesi delittuosa dianzi esaminata, perche' si sarebbe verificata una immutazione dell'accusa contestata e, quindi, la violazione del principio di correlazione tra questa e la sentenza"; che la stessa Corte suprema, nella sentenza di annullamento senza rinvio della condanna della Jorio che concluse il procedimento penale, confermo' l'ipotesi che le affermazioni mendaci sia al padre del marito che alla polizia, successive al fatto, potevano "essere dirette o stornare i sospetti sull'amante e quindi integrare semmai un diverso illecito non contestato". Sembra a questa corte di appello che non sia manifestamente infondato ritenere interpretazione della norma contenuta nell'art. 314 del c.p.p. vigente, possa condurre alla conclusione che la norma stessa sia incostituzionale, per contrasto con l'art. 3 della nostra Carta costituzionale, sotto il profilo dell'irragionevolezza della statuizione di una disparita' di trattamento tra situazioni dei singoli. Nell'ambito dei principi enunciati nel primo comma dell'art. 3 della Costituzione, la dottrina costituzionalistica ha affermato che "il legislatore sarebbe vincolato a non porre in essere discipline intimamente incoerenti e contraddittorie" e che "per riconoscere le disarmonie in parola occorre rifarsi agli scopi perseguiti dal legislatore" o "agli interessi che si sono valuti tutelare e alla congruita' di tale tutela"; che vi e' "l'esigenza (costituzionale) che il legislatore sviluppi il contenuto normativo di ogni disposizione, estenda la disciplina contenuta in essa a tutte le ipotesi in cui lo richiede la ratio che vi presiede"; ovvero che e' necessario aver riguardo alla ragionevolezza dello scopo perseguito dal legislatore per valutare la costituzionalita' della diversita' di regolamentazione tra situazioni consimili; che "puo' esservi inoltre necessita' di rapportare la norma denunciata unicamente con un principio generale, nel presupposto che essa distingua illegittimamente una situazione che avrebbe dovuto rimanere pur essa regolata da quel principio; oppure la comparazione puo' mancare di un secondo termine di comparazione quando si deduce l'illegittimita' di una norma per la sua incompletezza, in quanto regola una fattispecie descritta in modo da escludere componenti che non ne modificano la sostanza, e da non permettere ingiustificatamente una protezione integrale o da non sanzionare senza ragione tutti gli atteggiamenti della fattispecie reale". La Corte costituzionale, a sua volta, con ampio svolgimento dei principi indicati, con il termine "ragionevolezza" ha espresso numerose volte le condizioni che il legislatore deve rispettare e l'oggetto del suo sindacato, pervenendo, in qualche sentenza, ad usare anche la terminologia di "eccesso nell'esercizio del potere discrezionale del legislatore". Il requisito della "idonea ragione", del "ragionevole motivo", dell'assenza di "arbitrarieta'", di "presupposti logici obiettivi", del limite della ragionevolezza e' stato continuamente richiesto dalla Corte costituzionale, fin dalla sentenza n. 46/1959 (conf. sentenze n. 7/1963, n. 22/1966, ecc.). La sentenza n. 54/1968 fa riferimento, per il "giudizio di razionalita' di una certa disciplina", "anche alla funzione od allo scopo a cui essa e' preordinata". La Corte costituzionale individua lo scopo oggettivo di una normativa attraverso la rappresentazione degli interessi che questa tutela. Venendo all'applicazione dei principi al caso in esame, pare a questa corte di appello che il ritenere che l'ipotesi della condotta menzognera (volta a depistare le indagini o a evitare che siano indagati o coinvolti in procedimento penale altri soggetti) non possa ricevere, nella fattispecie contenuta nell'art. 314 del c.p.p., e nel contemperamento degli interessi e nei fini che essa si prefigge, il medesimo trattamento dell'ipotesi di colui che con colpa grave (ovvero con dolo) concorre a dar causa alla sua detenzione, non si sottragga, manifestamente, alle dette censure di incostituzionalita', per irragionevolezza e/o irrazionalita', ed in definitiva, per violazione dell'art. 3 della Carta costituzionale. Sembra alla corte di appello, infatti, che tale disparita' di trattamento non trovi alcuna ragione, e non si sottragga ad un giudizio di arbitrarieta'. Tanto piu' ove si consideri che la norma che prevede l'esclusione del diritto alla riparazione ha uno scopo e una funzione ben precisi, oltre che chiari "presupposti logici obiettivi". Essa, infatti, non sembra solo l'espressione di un onere di diligenza, che sia pure nella misura minima (poiche' solo la colpa grave non la lieve osta alla riparazione) incombe all'individuo, che fa parte di un consorzio sociale, nei suoi comportamenti che interferiscono o possano interferire con la attivita' di difesa dei diritti fondamentali ed essenziali della collettivita' e dei singoli, che compete agli organi di p.g. e della giurisprudenza penale. Essa esprime anche una applicazione (ennesima) di un principio generalissimo, che informa e percorre tutto il nostro ordinamento giuridico e che regola in definitiva tutta la nostra convivenza civile, principio del quale si e' accennata qualche applicazione nella prima parte della presente ordinanza (art. 1227 del cod. civ. ecc. v. f. 8 sc.), e che puo' riassumersi, con la dottrina, nella regola generale, secondo cui, in via di principio, il danno risarcibile (in astratto) deve essere sopportato dal suo autore, ovvero viene limitato o escluso il risarcimento del danno causato dallo stesso danneggiato. Infine, ad abundantiam, non pare infondato osservare che l'espressione di detto onere di diligenza possa trovare una sua collocazione, oltre che nel principio dell'art. 3 della Costituzione, nei sensi sopra richiamati, anche nella norma generale dell'art. 2, che richiede, in nome dello Stato, ai consociati, anche l'adempimento dei doveri di solidarieta' politica e sociale, oltre che economica. Esaminando, comunque, la fattispecie prevista dall'art. 314, primo comma, del c.p.p. vigente, sotto l'aspetto della ragionevolezza e conformita' all'art. 3 della Costituzione, dianzi accennato, sembra a questa Corte che possano anche essere congruamente richiamati alcuni canoni o criteri ben noti in dottrina e in giurisprudenza, espressione peraltro di principio di logica; si tratta, in sostanza, del c.d. principio od "elemento" sistematico e dell'argomento a fortiori. Secondo il primo, fra singole norme e' immanente il principio di non-contraddizione, ossia di coesione o di coerenza logica. Il secondo argomento o canone contiene anche il criterio a minori ad maius. Entrambi i principi od argomenti sembrano anche espressione di un principio piu' generale, quello di ragionevolezza. Nell'ordine di idee sopra espresso, sembra comunque a questa corte di appello che l'ipotesi di condotta menzoniera diretta a depistare le indagini di p.g. o a evitare che siano indagati altri soggetti, ovvero diretta ad aiutare altri ad eludere le investigazioni dell'autorita' penale, dovrebbe, secondo i principi della ragionevolezza sopra accennati, accolti e fissati dalla giurisprudenza dalla Corte costituzionale, essere considerata fattispecie "maggiore", in un certo senso, e non minore di quelle altre imputabili, anche a titolo di concorso, a colpa grave dell'istante e tali da comportare l'esclusione del diritto alla riparazione pecuniaria per la detenzione. La ritenuta esclusione di tale fattispecie dalla normativa in questione sembra comportare una discrasia tale da rendere la norma, cosi' interpretata, incostituzionale per violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione): ed in questo ordine di idee, si puo' richiamare la dottrina che ha espressamente previsto una violazione del principio costituzionale nell'ipotesi in cui "non siano sanzionati senza ragione tutti gli atteggiamenti della fattispecie reale". Una considerazione, comunque, puo' essere non inutile aggiungere a questo punto. In sede di giudizio sull'istanza di riparazione non si tratta in alcun modo di pervenire ad una pronuncia che riguardi, in linea diretta o indiretta, la responsabilita' penale (per favoreggiamento o altro) dell'istante (ipotesi di responsabilita' peraltro gia' prescritta per decorso del tempo, anche per la durata del giudizio penale per diversa imputazione); ma si tratta solo di esaminare se una data condotta (che non e' esclusa, anzi e' affermata dalle pronunzie di assoluzione per il reato di omicidio, divenute "cosa giudicata") realizzi una ipotesi tale da dover essere parificata nelle conseguenze particolari a quelle del dolo e della colpa grave che abbiano anche solo concorso a dar causa alla detenzione, cioe' a quelle che, per volonta' del legislatore, comportano l'esclusione del diritto alla riparazione ex art. 314 del c.p.p. E, per altro verso, va perfino sottolineato, in via di principio, secondo la teoria generale del diritto, che una condotta che abbia un certo intento e sia nei confronti dell'evento cui l'intento si dirige da qualificarsi come dolosa, a certi effetti che prevede l'ordinamento giuridico (per esempio il diritto penale sostanziale), puo' nello stesso tempo qualificarsi colposa (cioe' materiata di imprudenza, negligenza, inosservanza di norme) ad altri effetti e per altre conseguenze giuridicamente rilevanti, per diversi istituti (ad es. di diritto civile sostanziale, ecc.). B) Sembra a questa corte di appello che nella fattispecie concreta in esame venga in rilievo anche un diverso profilo di non manifesta infondatezza di questione di incostituzionalita'. Detto profilo sembra scaturire dal principio di diritto affermato dalla suprema Corte, che, gia' sopra richiamato, e' il seguente: "il dolo o la colpa grave previsti dall'art. 314 del c.p.p. in tanto sussistono in quanto il soggetto inquisito o abbia scientemente operato al fine di creare la fallace apparenza di condizioni nelle quali potesse o dovesse essere adottata o mantenuta una misura cautelare nei suoi confronti (ipotesi dolosa), ovvero abbia mostrato una ingiustificabile e macroscopica trascuratezza nella rappresentanza, all'autorita' precedente, una volta reso adotto degli addebiti mossigli, di fatti e circostanze atti a scagionarlo o comunque e consentire il mantenimento o il recupero dello stato di liberta' (ipotesi colposa)". Quindi, a quel che pare, secondo la Corte di cassazione la norma dell'art. 314 affermerebbe che l'attivita' antecedente (sul piano cronologico e logico) alla vera e propria "difesa" avrebbe rilevanza solo se dolosa, cioe' solo se diretta intenzionalmente, dal soggetto attivo, a cagionare "l'evento" della propria detenzione. La sola colpa (grave) che avrebbe rilevanza sarebbe quella che sarebbe dato di riscontrare nelle dichiarazioni o "rappresentazioni difensive all'autorita' procedente, una volta reso edotto - l'indagato - degli addebiti mossigli" (quindi addirittura quella dopo la contestazione e dopo la detenzione). A tal proposito, possono essere qui richiamate le ampie considerazioni - anche di carattere sistematico - svolte nella prima parte di questa ordinanza di rimessione, ai fogli da 2 a 11. Senonche', poiche' l'interpretazione della Corte suprema, piu' volte riaffermata, si impone quale "diritto vivente" e vale a costituire l'ambito ed il significato della normativa in questione, si deve concludere che l'art. 314 del c.p.p. afferma quello che la Corte di cassazione ritiene che affermi tanto piu' nel caso del giudizio di rinvio. In questa situazione dell'interpretazione, pare alla corte di appello che si riproduca, per altro verso, una ipotesi non manifestamente infondata di "irragionevolezza" di normativa, secondo i principi elaborati ed assunti da gran tempo dalla Corte costituzionale: 1) non solo e non tanto verrebbe ad affermarsi una incongrua ed irragionevole disparita' di trattamento nelle ipotesi, pure congruenti logicamente, di verificazione del principio di causalita', cosi' come consacrato nel nostro ordinamento giuridico; 2) non solo si perverrebbe a creare una incongrua ed irragionevole disparita' di trattamento con altre ipotesi di colpa del danneggiato (previste agli artt. 1227, 2056 ecc. cod. civ.) che hanno cagionato o concorso a cagionare danni personali, anche i piu' gravi, addirittura permanenti e irreparabili (si pensi a colui che per gravissima colpa si produca una mutilazione gravissima o invalidita' permanente totale, sia pure in concorso con la condotta altrui, colposa o meno); 3) ma si verrebbero anche a legittimare, ad ogni effetto di diritto civile, le ipotesi o i casi anche piu' gravi di condotta colposa dell'agente, che abbia creato la piu' evidente apparenza di responsabilita' penale, divenendo cosi' la norma banditore di un principio di irresponsabilita' giuridica e sociale (oltre che mo- rale), che (per irragionevolezza, incongruenza, violazione del principio di non-contraddizione, di coesione o di coerenza logica del sistema dei rapporti giuridici previsto dall'ordinamento) non si concilia con i fondamenti, che e' dato enucleare dal nostro sistema di legislazione e dalla stessa Carta costituzionale; un principio di irresponsabilita' giuridica di fronte alla collettivita' e allo Stato e al suo organo, Ministero del tesoro, che - si aggiunga - non ha neppure avuto riconosciuta la veste giuridica propria per partecipare - a suo tempo - a tutela dei propri interessi di natura prettamente civilistica al processo penale, sfociato in una sentenza assolutoria della responsabilita' penale, primo fatto costitutivo della responsabilita' per riparazione. Infine, ad abundantiam, non sembra infondato sostenere che un principio di irresponsabilita' "sociale", del genere di quello sopra indicato, potrebbe ritenersi in contrasto, non solo con l'art. 3 della Costituzione, ma anche con il generale principio costituzionale, espresso nell'art. 2 della Carta, che richiede, in nome dello Stato, l'adempimento dei doveri di solidarieta' politica e sociale, oltre che economica. In via generale, poi, la "condizione" di una condotta antecedente non gravemente colposa, nei sensi sopra ritenuti da questa corte di appello, troverebbe comunque collocazione nella norma dell'art. 24, terzo comma, della Costituzione, che prevede essere tutt'altro che assoluto e incondizionato il diritto alla riparazione di errori giudiziari.