IL PRETORE
    Ha emesso la seguente ordinanza ex art. 23 della  legge  11  marzo
 1957, n. 87, proc. n. 9408/1992 ruolo generale, nel giudizio promosso
 da: Arena Salvatore, Tirelli Vergnano Giorgio, Clerici Maria, Nardone
 Vincenzo,  Chierchia  Ciro,  Messina  Antonio,  Barbiroglio Giuseppe,
 Spennacchio Michele, Mannis Zumbo Anna, Bolognese  Giuseppe,  Capello
 Guido,  Canazza Germano, Caminito Giuseppe, Ghirotti Silvano, Minniti
 Maria, Laurenzano Celestino, Sena Rocco, Motta Angelo, Gaglio Pietra,
 Pichierri Michele, Cappello Giuliana, Savian Pietro, Ignoto Caterina,
 Topazio   Antonia,   Sedaro   Antonietta,   Varlese    Anna,    Asara
 Domenicangela,  Nigro  Francesco,  Damone  Rocco,  D'Errico Giovanni,
 Marzuillo Antonio, Giordano Saverio,  Micheletti  Umberto,  Napoleone
 Ludovico, Pirillo Giuseppa, Caffi Augusto, Peres Eustachio, Gabbatore
 Settimo,  La  Penna  Antonio,  Riffero  Mariuccia,  Bedetti Giovanni,
 Ellena Domenica, Di Martino Teresina, Iberti Giuseppe, Rossi  Lucina,
 Tamburrino   Carmine,   Colombero   Oreste,  Gillio  Agostina,  Busso
 Giovanna, Cappiello Francesca, Seio  Francesco,  Tortorici  Giuseppe,
 Cuneo  Giuseppe,  Stevanon  Livio  Cottino  Franco,  Vergnano  Luigi,
 Ghirardello Luciano, Capalbo Rosa, Bilancia  Maria  Carmela,  Giulato
 Rino,  Gilardi  Attilio, Nocella Giovanni, Celestri Giovanni, De Rose
 Rosa; piu' n. 11045/1992 promosso da  Lopez  Luigi  contro  Whirlpool
 Italia S.r.l., divisione Aspera.
    Il pretore di Torino, sciogliendo la riserva formulata all'udienza
 del 20 maggio 1993, premesse le circostanze che seguono:
    1.  -  Con  ricorso depositato in data 6 ottobre 1992 i ricorrenti
 (Arena  +  65)  chiedevano  al  pretore  di  Torino   di   dichiarare
 l'illegittimita'  dei  licenziamenti  impugnati,  previa declaratoria
 dell'invalidita' dell'accordo 19 maggio  1992,  sottoscritto  tra  la
 Whirlpool  S.r.l. e le rappresentanze sindacali aziendali nella parte
 in cui esso prevede criteri di scelta dei  lavoratori  da  licenziare
 alternativi  e  diversi  rispetto  a  quelli individuati dall'art. 5,
 della legge n.  223,  23  luglio  1991,  e  comunque  per  violazione
 dell'art.  3  della Costituzione e dell'art. 9 disc. gen. parte prima
 C.C.N.L. dipendenti  industria  metalmeccanica  privata  14  dicembre
 1990, nonche' di condannare la societa' convenuta alla reintegrazione
 di  tutti  i  ricorrenti  con le conseguenze di cui all'art. 18 della
 legge 20 maggio 1970, n. 300. I ricorrenti chiedevano, altresi',  che
 il   pretore   accertasse   l'invalidita'  di  qualsiasi  rinunzia  o
 transazione sottoscritta  in  relazione  all'intercorso  rapporto  di
 lavoro.
    2.  -  Con  ricorso  depositato  il  3 dicembre 1992 il sig. Lopez
 chiedeva al pretore di Torino di dichiarare  illegittimo  il  proprio
 licenziamento   e  di  condannare  la  societa'  convenuta  alla  sua
 reintegrazione con le conseguenze di cui all'art.  18  dello  Statuto
 dei lavoratori.
    3.  - Le ragioni poste a fondamento delle domande proposte possono
 riassumersi in alcune brevi considerazioni.
    La normativa dettata con la legge  23  luglio  1991,  n.  223,  in
 materia   di   "Cassa   integrazione,   mobilita',   trattamenti   di
 disoccupazione, attuazione delle direttive della  Comunita'  europea,
 avviamento  al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del
 lavoro, prevedendo all'art. 5 i: "Criteri di scelta dei lavoratori ed
 oneri a carico delle imprese", stabilisce che  "L'individuazione  dei
 lavoratori da collocare in mobilita' deve avvenire, in relazione alle
 esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale,
 nel  rispetto  dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati
 con i sindacati di cui all'art. 4, secondo comma, ovvero, in mancanza
 di questi contratti, nel rispetto dei seguenti  criteri  in  concorso
 fra loro:
       a) carichi di famiglia;
       b) anzianita';
       c) esigenze tecnico-produttive ed organizzative.
    Con  siffatta  disposizione il legislatore avrebbe posto in essere
 un meccanismo  in  forza  del  quale  la  scelta  dei  lavoratori  da
 licenziare  sia fatta o in virtu' dei criteri indicati dalla legge (e
 mutuati dalla tradizione quarantennale sui licenziamenti  collettivi)
 o  in  virtu' di un contratto collettivo stipulato dalle associazioni
 interconfederali o di categoria. Solo  cosi',  intendendo  il  rinvio
 all'art.   4,   secondo   comma,   della   legge   n.   223/1991,  si
 salvaguarderebbe da un lato, il principio che rende indisponibile  al
 datore  di  lavoro  l'individuazione  dei  criteri  per la scelta dai
 lavoratori da espellere, e dall'altro, la possibilita' di definire  a
 priori,  rispetto  alla concreta vicenda del licenziamento, i criteri
 per la scelta dei licenziandi. D'altra  parte  neppure  il  contratto
 collettivo  potrebbe prevedere criteri alternativi a quelli di legge,
 potendo, invece,  solo  ulteriormente  specificarli.  Cosi'  andrebbe
 intesa, infatti, la sanzione di annullabilita' di cui al terzo comma,
 dell'art.  5  cit.,  laddove  viene  disciplinata  la  violazione dei
 criteri di cui al primo comma.  Essendo,  pertanto,  l'accordo  stato
 stipulato  con  le  rappresentanze  sindacali  aziendali e prevedendo
 quale unico criterio di scelta quello dell'anzianita'  e/o  dell'eta'
 contributiva,  dovrebbe  pronunciarsene  l'invalidita'  con  tutte le
 conseguenze del caso.
    4.  -  Si  costituiva  la  Whirlpool  divisione  Aspera  nei   due
 procedimenti,   chiedendo   la  reiezione  delle  domande  attoree  e
 proponeva, inoltre, avverso  il  ricorso  iscritto  al  n.  9408/1992
 (Arena  +  65),  domanda riconvenzionale subordinata all'accoglimento
 del ricorso, per la condanna alla restituzione delle somme  percepite
 da  buona  parte dei ricorrenti quale corrispettivo della rinuncia ad
 impugnare il licenziamento.
    5.  -  I  procedimenti,  su  istanza di parte ricorrente, venivano
 riuniti avanti a questo giudice ex artt. 274 del c.p.c.  e  151  att.
 del c.p.c.
    6.  -  All'udienza del 20 maggio 1992, terminata l'istruttoria, il
 pretore  invitava  le  parti  alla  discussione  sulla  questione  di
 legittimita'  costituzionale del primo comma dell'art. 5, della legge
 23 luglio 1991, n.  223,  in  relazione  agli  artt.  3  e  39  della
 Costituzione,  ed al termine assumeva la causa a riserva che scioglie
 con la presente ordinanza, con cui:
                             O S S E R V A
    7. - Appare rilevante  per  la  risoluzione  del  giudizio  e  non
 manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 5, primo comma, della legge n. 223/1991, nella parte in cui
 prevede che  un  accordo  sindacale  possa  derogare  alla  legge  in
 relazione ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, previsti
 alle lettere a), b) e c) della stessa disposizione.
    8.  -  La  questione  e'  sicuramente  rilevante.  La norma che si
 sottopone,  in  parte,  al  giudizio  della   Corte   costituzionale,
 rappresenta,  infatti, proprio la disciplina con cui l'ordinamento ha
 inteso  regolare  le  ipotesi   di   licenziamento   collettivo.   E'
 indispensabile,   dunque,   in   via  preliminare,  prima  ancora  di
 affrontare  l'esame  delle  tesi   proposte   dalle   parti   intorno
 all'interpretazione del rinvio all'art. 4, secondo comma, della legge
 n.  223/1991,  o  all'imperativita'  dei  criteri  di cui all'art. 5,
 lettere a), b) e c), della  legge  n.  223/1991,  comprendere  se  un
 accordo  sindacale possa, alla luce dei precetti costituzionali degli
 artt. 3, 39 e 41 primo comma, derogare a norme di legge in materia di
 risoluzione del contratto di  lavoro  senza  violare  i  diritti  dei
 singoli.  Eliminata  l'alternativita'  fra criteri di legge e criteri
 individuati dall'accordo sindacale, non resterebbe che seguire, nella
 scelta dei lavoratori da licenziare,  le  disposizioni  di  cui  alle
 lettere  a),  b)  e  c) di cui all'art. 5, della legge n. 223/1991. A
 cio' conseguirebbe, ovviamente, l'accoglimento dei  ricorsi.  Nessuna
 operazione  esegetica, che non sia contraria alla lettera della legge
 puo', ovviamente, condurre ad una soluzione su questo punto,  essendo
 prevista  espressamente  l'alternativita'  fra l'accordo ed i criteri
 normativi.
    Ma la rilevanza di una  pronuncia  sulla  costituzionalita'  della
 norma,  ai  fini  della  decisione  della  lite,  emerge con maggiore
 evidenza sotto un ulteriore profilo. Occorre, infatti, osservare  che
 la  dizione  dell'art.  5 cit. non differenzia affatto fra lavoratori
 iscritti alle associazioni sindacali stipulanti ed i non  iscritti  o
 gli  iscritti  ad  altri sindacati. Cio' corrisponde senz'altro ad un
 criterio di ragionevolezza. Va da se', invero, che  il  licenziamento
 collettivo  debba  essere  regolato  come  una  vicenda unitaria, non
 essendo neppure configurabile la possibilita' che fra i lavoratori da
 licenziare, alcuni siano scelti in forza dei criteri stabiliti da  un
 accordo  ed altri in forza dei criteri stabiliti dalla legge. Se cio'
 fosse  possibile  si   creerebbe   un'inaccettabile   disparita'   di
 trattamento fra i lavoratori. Che la volonta' del legislatore non sia
 in  questo  senso  si  ricava dalla semplice lettura della norma che,
 ponendo l'alternativa fra l'accordo e la legge, non prevede, in alcun
 modo, la loro eventuale concorrenza. Resta, nondimeno,  da  valutare,
 anche  laddove si concluda che un accordo sindacale possa intervenire
 in materia di risoluzione del rapporto di lavoro, se ed in  che  modo
 la  regolamentazione  pattizia  possa  estendere  i proprii effetti a
 soggetti non iscritti alle associazioni stipulanti. Ora, nell'ipotesi
 di specie, buona parte dei  ricorrenti  non  e'  iscritta  ad  alcuna
 associazione  sindacale, ne' a quelle le cui rappresentanze aziendali
 hanno sottoscritto gli accordi, ne' ad altre.
    9. - Ma la questione e' anche  non  manifestamente  infondata.  E'
 norma  cardine dell'ordinamento che ciascuno sia titolare dei proprii
 diritti (salva, ovviamente l'ipotesi di rappresentanza legale). Privo
 di specifica enunciazione costituzionale  il  principio  traspare  da
 numerose  disposizioni  della  Carta  fondamentale.  Prima  fra tutte
 quella che  provvede  a  "riconoscere  e  garantire  i  c.d.  diritti
 inviolabili"  (art.  2).  E',  a  dir  il  vero, discusso se la posta
 dall'art.  2  possa  estendersi  fino  a  comprendere  i  diritti  di
 autonomia  privata  dei  singoli  ed  in  particolare quelli relativi
 all'esercizio dell'autonomia contrattuale.  Non  importa,  nondimeno,
 qui, cercare soluzioni essendo sufficiente, invece, sottolineare, che
 al  di la' del carattere di inviolabilita', esiste una norma di rango
 costituzionale che  riconosce  a  ciascun  privato  la  "liberta'  di
 iniziativa  economica" (art. 41 della Costituzione). Il precetto pone
 in luce il carattere funzionale dell'attivita'  economica  privata  e
 conduce  a  configurarla  in  termini di discrezionalita'. Per essere
 tale  essa  deve  cioe'  "consentire  al  suo  titolare  margini   di
 autodecisione,  affinche'  possa  operare delle scelte che offrano un
 minimo di appagamento dell'interesse che le alimenta".  Unico  limite
 posto   all'autonomia  privata  ed  all'iniziativa  economica  e'  il
 "contrasto con l'utilita' sociale", solo  in  questo  caso  la  legge
 potra' comprimerla funzionalmente, ponendovi dei limiti.
    E'  appena  il  caso  di  sottolineare che se il principio, di cui
 all'art. 41, primo comma, regola l'attivita' dell'imprenditore  e  la
 destinazione, da parte di questi, di capitali al processo produttivo,
 esso  disciplina anche la liberta' di ciascun singolo di stipulare un
 contratto  di  lavoro  subordinato  con  l'imprenditore,  nonche'  di
 risolverlo secondo le norme vigenti.
    Rientra,  inoltre,  nell'autonomia  contrattuale  di  ciascuno  la
 facolta' di trasferire  ad  altro  soggetto  frazioni  della  propria
 autonomia, delegando a questi il potere di compiere, in nome proprio,
 atti  e  negozi  giuridici. E cio' che accade, naturalmente, nel caso
 dei  lavoratori  subordinati  che  attraverso  il  mandato  sindacale
 conferiscono  all'associazone  sindacale di appartenenza il potere di
 stipulare   contratti   con   le   corrispondenti   associazioni   di
 imprenditori, al fine di dare regolamentazione al contratto di lavoro
 individuale.
    Che,   nondimeno,  il  potere  di  conferire  il  mandato  per  la
 regolamentazione di proprii interessi nell'ambito  del  contratto  di
 lavoro  costituisca  una  facolta'  e non un obbligo per i singoli e'
 confermato dal primo comma dell'art. 39 della Carta fondamentale, che
 sancisce il principio della liberta'  dell'organizzazione  sindacale.
 E'  pacifico,  infatti,  che  la  norma,  in antitesi con l'ideologia
 corporativa,  abbia  opposto  non  solo   il   pluralismo   sindacale
 all'unicita'   del   sindacato,   ma  anche  la  piena  autonomia  di
 determinazione in ordine all'iscrizione o alla  non  iscrizione  alle
 associazioni sindacali, all'obbligo di appartenenza al sindacato.
    Solo  nell'ipotesi  di  attuazione  del  terzo e del quarto comma,
 dell'art.  39  della  Costituzione,  il  legislatore  costituente  ha
 disposto  il  superamento  dello  schema  del  mandato,  subordinando
 l'autonomia negoziale ai risultati della  contrattazione  collettiva,
 anche  al di fuori di qualunque negozio di rappresentanza fra singolo
 e sindacato stipulante.
    La validita' erga  omnes  della  contrattazione  collettiva  viene
 fatta  discendere  da  due requisiti fondamentali: la costituzione di
 una rappresentanza unitaria in proporzione dei soggetti iscritti e la
 registrazione  dei  sindacati  condizionata  alla  formazione  di  un
 ordinamento interno a base democratica.
    Fatte queste precisazioni ovvie ma necessarie, sorgono due quesiti
 ai quali occorre dare risposta.
    Il  primo  riguarda  i  limiti  della  contrattazione  collettiva.
 Bisogna cioe' chiedersi se il complesso  delle  norme  costituzionali
 dettate  in  materia  di  autonomia negoziale e di liberta' sindacale
 autorizzi a ritenere  che  attraverso  il  conferimento  del  mandato
 sindacale  il  lavoratore  attribusca  all'associazione  sindacale di
 appartenenza tutti i poteri e le facolta' inerenti  il  contratto  di
 lavoro.
    Va  detto  subito  che  la  risposta  deve  essere di segno almeno
 parzialmente negativo.
    Non vi e' dubbio, infatti, che il potere di stipulare il contratto
 di lavoro, cosi' come quello di risolverlo con le  dimissioni,  o  di
 impugnare  l'eventuale  licenziamento  non  rientrino nell'ambito dei
 poteri esercitabili dal  sindacato,  in  forza  del  mandato  che  lo
 autorizza  a  contrattare  collettivamente. Si tratta di liberta' che
 appartengono  al   singolo   e   che   non   sono   astrattamente   e
 preventivamente  trasferibili ad un soggetto che le eserciti in luogo
 del titolare.
    D'altra parte, le associazioni sindacali, nei  limiti  di  cui  al
 quarto  comma  dell'art.  39,  sono  chiamate  dalla  Costituzione, a
 stipulare  collettivamente  contratti  di  lavoro  e,  quindi,  esula
 strutturalmente  e  funzionalmente dai loro compiti qualsiasi negozio
 destinato a produrre effetti nei confronti di un singolo rapporto  di
 lavoro.
    L'ambito  nel  quale  la  norma  costituzionale  attribuisce  alle
 associazioni sindacali il potere di contrattazione  dei  diritti  dei
 singoli  riguarda,  quindi,  esclusivamente  la  regolamentazione dei
 contratti  di  lavoro.  Cio'  significa,  in  altre  parole,  che  la
 contrattazione  collettiva  potra'  involgere  clausole relative alla
 misura della prestazione lavorativa, alle sue  caratteristiche,  alla
 controprestazione  retributiva,  ad altre eventuali controprestazioni
 e,   se   posto   in   contrattazione    al    potere    disciplinare
 dell'imprenditore,  nonche'  a tutto quant'altro attenga al contenuto
 del contratto di lavoro ed alla sua esecuzione.
   Non e',  ovviamente,  impossibile  per  le  associazioni  sindacali
 (cosi'  come  per  qualunque  terzo  mandatario)  stipulare  patti su
 oggetti differenti, tuttavia, perche' accordi in materie  diverse  da
 quelle relative alla regolamentazione del contratto di lavoro possano
 esplicare  efficacia  nei  confronti  dei  soggetti  cui sono rivolte
 occorre un mandato ad hoc da  parte  di  questi  o  una  loro  valida
 ratifica successiva.
    Esclusa,    pertanto,    la   possibilita'   di   regolamentazione
 contrattuale a livello collettivo delle vicende di  formazione  e  di
 risoluzione  del  contratto  individuale, va valutata la possibilita'
 per la contrattazione collettiva  di  creare  regole  in  materia  di
 risoluzione  del  contratto di lavoro, come sono quelle relative agli
 accordi sui licenziamenti collettivi, idonee ad incidere su posizioni
 soggettive dei singoli al di la' dell'esistenza di un mandato ad hoc.
    Vanno introdotte, a questo punto, alcune precisazioni.
    Il  potere  di  risolvere  il  contratto  di   lavoro   da   parte
 dell'imprenditore  rientra  fra  le  liberta' di iniziativa economica
 garantite dall'art. 41 primo comma della Costituzione.  In  relazione
 ad  esso,  tuttavia, ed in considerazione degli interessi su cui tale
 potere e' destinato ad operare, il legislatore ha posto dei limiti di
 utilita'  sociale,   imponendo   all'imprenditore   di   condizionare
 l'esercizio  del  proprio  diritto alla risoluzione del rapporto alla
 sussistenza  di  particolari  presupposti  sia   in   condizioni   di
 normalita'  (giusta  causa giustificato motivo), che in condizioni di
 crisi dell'impresa.  In  particolare,  in  questo  secondo  caso,  ha
 previsto con la legge n. 223/1991 l'onere di attivare una particolare
 procedura al fine di esercitare il recesso collettivo ed ha stabilito
 dei  limiti  entro  i quali il potere di recesso dell'imprenditore e'
 legittimo ed oltre i quali il suo esercizio  puo'  venire  sanzionato
 con  la  comminatoria  dell'invalidita' degli atti di licenziamento e
 con la reintegrazione dei lavoratori.
    Detti limiti riguardano, com'e' noto,  i  criteri  di  scelta  dei
 lavoratori da licenziare.
    La norma di cui all'art. 5, della legge n. 223/1991 stabilisce che
 tali  criteri  possono  essere  stabiliti  dai  contratti collettivi.
 Qualora  siffatti  accordi   dovessero   mancare   interverebbero   a
 condizionare   il  potere  di  recesso  dell'imprenditore  i  criteri
 previsti dalle lettere a), b) e c) della stessa norma.
    Il meccanismo in questo modo predisposto dal legislatore consente,
 dunque, che un soggetto sostituisca  pattiziamente  il  limite  posto
 dalla  legge  all'esercizio di un suo diritto, con un altro e diverso
 limite. Il diritto di recesso, compresso, anziche' nel senso indicato
 dalla  legge,  nel  senso  indicato  dal  contratto,   verra'   cosi'
 esercitato  nei  confronti dei soggetti da licenziare (anche, ed anzi
 probabilmente,  diversi  da  quelli  che  avrebbero   sopportato   il
 licenziamento secondo i criteri normativi).
    Ora,   cio'  che  occorre  chiedersi  e'  proprio  se  una  simile
 pattuizione rientri fra le attivita' di contrattazione collettiva nel
 senso voluto dall'art. 39 della Costituzione  e  nei  limiti  di  cui
 all'art. 41, primo comma.
    Al  di  la'  della mancata attuazione del terzo e del quarto comma
 dell'art. 39, condizione  indispensabile  all'estensione  erga  omnes
 degli  effetti  della  contrattazione  collettiva, su cui si tornera'
 piu' tardi, deve ritenersi che siffatto tipo di pattuizione esuli del
 tutto  dalle  materie  che  possono  formare  oggetto  della   stessa
 contrattazione collettiva.
    Ci  si  potrebbe  fermare alla semplicistica considerazione che un
 accordo, avente ad oggetto la definizione dei criteri di recesso  dai
 singoli  rapporti  di  lavoro, non puo' essere considerato "contratto
 collettivo di lavoro" ai sensi del quarto comma cit., riguardando  la
 risoluzione  e  non  la  regolamentazione  dei  rapporti  di  lavoro,
 sostenendo che la contrattazione collettiva  puo'  avere  ad  oggetto
 solo il come del contratto di lavoro e non anche il se.
    Ma e' bene andare oltre.
    Per  ammettere  che  le  associazioni  sindacali possano stipulare
 accordi modificativi delle condizioni  di  esercizio  del  potere  di
 recesso dell'imprenditore occorrerebbero due condizioni.
    Da   un   lato,  sarebbe  necessario  immaginare  che,  attraverso
 l'iscrizione all'associazione sindacale, ogni singolo  conferisca  ad
 essa  non solo il potere di stipulare accordi per la regolamentazione
 del proprio contratto di lavoro,  ma  anche  il  potere  astratto  di
 sacrificare  in  futuro  la  propria  posizione soggettiva in favore,
 della posizione soggettiva altrui, fino all'estrema conseguenza della
 risoluzione del proprio contratto di lavoro in  luogo  di  quello  di
 altro  soggetto,  sulla base di una semplice valutazione compiuta dal
 mandatario, o nel migliore dei casi da un'assemblea di altri iscritti
 al sindacato con interessi confliggenti rispetto al soggetto  il  cui
 diritto viene sacrificato.
    L'associazione  sindacale,  in tal modo, diverrebbe titolare anche
 dei diritti del singolo  inerenti  la  risoluzione  del  rapporto  di
 lavoro,  potendo  addirittura rinunciare al diritto alla prosecuzione
 del rapporto in luogo del lavoratore.
    Benche', infatti, sia l'imprenditore ad operare  concretamente  il
 recesso,  e'  il  sindacato a poter offrire, in sede di accordi, come
 controprestazione quella particolare  posizione  soggettiva  (o  quel
 tipo  di  posizioni),  in  cambio  di un'altra che appaia allo stesso
 sindacato piu' degna di tutela.
    D'altro lato, per rendere operativo un simile meccanismo in cui le
 associazioni sindacali (pur rimanendo associazioni non  riconosciute)
 pattuiscano liberamente il sacrificio di posizioni soggettive singole
 o,   nel   migliore  dei  casi,  di  tipi  di  posizioni  soggettive,
 occorrerebbe anche una piena disponibilita' dei diritti  inerenti  al
 rapporto di lavoro quantomeno in capo ai singoli lavoratori.
    Ma   e'   dubbio  che  l'ordinamento  permetta  al  lavoratore  di
 rinunciare aprioristicamente, e cioe' al momento del conferimento del
 mandato sindacale, al suo diritto alla prosecuzione del  rapporto  di
 lavoro,  consentendo  un  futuro  sacrificio  della propria posizione
 soggettiva in favore di altro soggetto-lavoratore, cosi' come non gli
 e' consentito rinunciare, a priori, al momento della stipulazione del
 contratto di lavoro individuale, ed a favore del datore di lavoro, al
 futuro esercizio  del  diritto  alle  dimissioni  o  all'impugnazione
 dell'eventuale licenziamento.
    Se  cosi'  stanno  le  cose,  tuttavia, solo difficilmente si puo'
 immaginare che l'associazione sindacale possa abdicare  in  ordine  a
 diritti   cui   neanche   al   titolare  e'  consentito  di  disporre
 liberamente.
    Ora, non solo  un  simile  mandato  non  e'  di  fatto  attribuito
 attraverso  la  delega  sindacale,  ma  neppure in regime di completa
 attuazione dell'art.  39  della  Costituzione  (qualora  i  sindacati
 avessero provveduto alla registrazione, ottenendola in forza del loro
 ordinamento   democratico,   e   avessero,   altresi'  formato  delle
 rappresentanze unitarie) cio' sembrerebbe possibile.
    D'altra parte, un siffatto assetto del rapporto  fra  associazioni
 sindacali  e lavoratori iscritti sembra del tutto incompatibile anche
 con una lettura dell'art. 41 della Costituzione come quella cui si e'
 fatto riferimento piu' sopra.  Nessun  margine  di  autodecisione  (e
 quindi  di  autonomia), al fine di ottenere l'appagamento dei proprii
 interessi, puo' riconoscersi in capo al lavoratore il quale,  laddove
 scelga  di  essere  tutelato dal sindacato nella contrattazione delle
 clausole del proprio contratto di lavoro, sia costretto a delegare al
 sindacato anche le eventuali decisioni in ordine alla  rinuncia  alla
 prosecuzione  del  rapporto  di  lavoro, con sacrificio della propria
 posizione soggettiva in favore di quella altrui.
    Questo ordine di idee, tuttavia, rappresenta il presupposto logico
 in forza del quale il legislatore deve aver dettato la norma  di  cui
 all'art. 5, primo comma, della legge n. 223/1991.
    Ma,   quando   anche  si  ritenesse  compatibile  con  i  precetti
 costituzionali la  possibilita'  per  le  associazioni  sindacali  di
 stipulare  accordi  con effetto sostanzialmente dismissivo di diritti
 dei lavoratori iscritti, occorrerebbe poi spiegare, alla  luce  della
 lettera  dell'art.  39  della  Costituzione, in quale modo accordi di
 siffatto contenuto possano spiegare effetti anche  nei  confronti  di
 soggetti non iscritti all'associazione sindacale stipulante, o peggio
 ancora, di soggetti iscritti ad altra associazione sindacale.
    Ed e' questo il secondo quesito.
    Vale   la  pena  di  ripetere  che  il  licenziamento  collettivo,
 nell'ottica del legislatore, ed anche in quella della ragionevolezza,
 e' una vicenda sostanzialmente unitaria.
    Va da se', allora, che la disposizione di  cui  all'art.  5  della
 legge   n.   223/1991  ha  inteso  estendere  a  tutti  i  lavoratori
 interessati gli effetti  del  contratto,  indipendentemente  da  ogni
 valutazione  circa l'esistenza di un mandato fra loro ed il sindacato
 con cui e' perfezionato l'accordo.
    Accade, tuttavia, in questo modo, curiosamente, che un  patto  fra
 due  soggetti  esplichi i suoi effetti non soltanto nei confronti dei
 mandanti dei soggetti stipulanti, ma anche nei confronti di terzi che
 nessun rapporto giuridico lega a coloro  che  hanno  perfezionato  il
 contratto.
    Si  tratta  di situazione del tutto anomala e che non puo' non de-
 stare perplessita' ove si consideri anche che i terzi  subiscono  (in
 quanto  rientrino fra i licenziandi secondo i criteri del contratto),
 dall'accordo stipulato fra altri soggetti, solo effetti nocivi.  Cio'
 in   piena   contraddizione   con   il  principio  della  relativita'
 contrattuale e dell'intangibilita' della sfera giuridica individuale,
 che non puo' essere modificata da atti negoziali  altrui  siano  essi
 vantaggiosi  o svantaggiosi. E, dunque, in aperta violazione non solo
 dell'art. 39 della Costituzione, ma altresi' dell'art. 41 primo comma
 e dell'art. 3 della Costituzione.
    Non puo'  sfuggire,  infatti,  da  un  lato  la  violazione  della
 liberta'  di  iniziativa economica del singolo costretto a subire gli
 effetti di un negozio altrui e, dall'altro, la diseguaglianza  insita
 in  una  norma  che imponga ad un soggetto di sopportare una siffatta
 compressione dei proprii diritti a tutto vantaggio del  soggetto  che
 stipula l'accordo, o meglio, del suo mandante.
    Ma le perplessita' possono diventare inquietudini nelle ipotesi in
 cui  a  subire  gli  effetti  di  un  accordo stipulato con una certa
 organizzazione sindacale sia il soggetto che ha  conferito  ad  altra
 associazione il proprio mandato sindacale. Non si vede proprio in che
 modo,  in  un  caso simile, divenga possibile estendere al lavoratore
 che  ha  conferito  mandato  ad  un  soggetto  per la regolazione dei
 proprii  interessi,  gli  effetti  di  un  contratto  stipulato   dal
 mandatario di un terzo.
    Occorre,  inoltre, sottolineare che fino ad oggi la giurisprudenza
 di legittimita', e' andata in  senso  opposto  a  quello  voluto  dal
 legislatore  della  legge n. 223/1991, escludendo espressamente che i
 contratti collettivi si  applichino  a  soggetti  non  iscritti  alle
 organizzazioni  stipulanti,  in  particolare in tema di licenziamenti
 collettivi (sotto il regime previgente: Cass. sez.  lav.  2  febbraio
 1983, n. 885; Cass. sez. lav. 12 gennaio 1983 n. 211; Cass. sez. lav.
 3  maggio  1984,  n.  2710;  Cass. sez. lav. 11 agosto 1977, n. 3724;
 Cass. sez. lav. 15 giugno 1977, n. 2492).
    Le sole ipotesi  di  pacifica  estensione  giurisprudenziale,  del
 contenuto  di  contratti  collettivi  a  soggetti  non  iscritti alle
 organizzazioni stipulanti, riguardano, infatti, i casi determinazione
 quantitativa delle retribuzioni ed avvengono in forza della immediata
 precettivita' dell'art. 36 della  Costituzione,  sulla  base  di  una
 presunzione   di   sufficienza   ed   adeguatezza   della  previsione
 collettiva.
    D'altro  canto,  la  mancata   attuazione   dell'art.   39   della
 Costituzione  non  lascia  spazio ad operazioni esegetiche di diverso
 contenuto.
    Occorre, allora, definitivamente concludere per la  necessita'  di
 sollevare  d'ufficio  la questione di legittimita' costituzionale, in
 relazione agli artt. 3, 39 e 41 della Costituzione dell'art. 5, primo
 comma, della legge 23 luglio 1991, n. 223.