IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Sul ricorso n. 1627/1993 propoto da Tarragoni Massimo, rappresentato e difeso dall'avv. Antonio Funari, nel cui studio e' elettivamente domiciliato in Roma, piazza Acilia n. 4; contro l'U.S.L. RM 12, e la U.S.L. RM 2, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro-tempore per l'annullamento del provvedimento in data 13 gennaio 1993 con il quale la U.S.L. RM 12 ha diffidato il dott. Tarragoni a cessare dallo stato di incompatibilita' di cui all'art. 4, settimo comma, della legge 30 dicembre 1941, n. 412. Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio delle amministrazioni in- timate; Viste le memorie prodotte dalle parti e tutti gli atti del giudizio; Uditi nella pubblica udienza del 31 maggio 1993 il relatore consigliere Dedi Rulli, l'avv. Funari per il ricorrente e l'avv. Pietrantuono e Davoli per le U.S.L. intimate. Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue: FA T T O Con provvedimento in data 13 gennaio 1993 l'unita' sanitaria lo- cale RM12 ha intimato il dott. Massimo Tarragoni, assistente medico a tempo definito e contemporaneamente convenzionato per la medicina generale, di cessare dalla situazione di incompatibilita' derivante dal disposto dell'art. 4, settimo comma, della legge 30 dicembre 1993, n. 412, a norma del quale "con il servizio sanitario nazionale puo' intercorrere un unico rapporto di lavoro". Avverso tale provvedimento e' stato proposto il ricorso in epigrafe con il quale si deduce una articolata censura di illegittimita' derivata, sostenendosi il contrasto dell'art. 4 settimo comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, con diversi principi costituzionali. Si denuncia in primo luogo la violazione dell'art. 3, 4 e 35 della costituzione in quanto il citato art. 4, settimo comma, determinerebbe una ingiustificata disparita' di trattamento tra i medici che esercitano l'opzione per la conservazione del rapporto di impiego e quelli che scelgono il rapporto convenzionale, posto che ai primi viene riservato un trattamento di gran lunga piu' favorevole rispetto ai secondi, ai quali si impone una drastica riduzione del proprio reddito. In tal modo, la facolta' di scelta tra i due rapporti sarebbe soltanto apparente con la conseguenza che al medico che collabora con il servizio sanitario nazionale viene sostanzialmente impedita una modalita' di esercizio della professione. La violazione dell'art. 3 viene prospettata anche in collegamento con l'art. 97 della costituzione sotto il profilo del difetto della ragionevolezza della norma impugnata, poiche' la regola della incompatibilita' non sarebbe in grado di garantire un maggior grado di efficienza del servizio sanitario nazionale. Il difetto di ragionevolezza sarebbe altresi' ravvisabile in relazione al d.l. 19 settembre 1992, n. 384 convertito nella legge 199 n. 438, che ha sospeso per tutto il 1993 il diritto dei pubblici dipendenti di chiedere il collocamento in quiescenza. Ove infatti il medico avesse inteso optare per il rapporto convenzionale avrebbe dovuto farlo entro il 31 dicembre 1992, ma a tale data non poteva conseguire la pensione per effetto delle norme sopra ricordate. Anche per tale ragione la pretesa "opzione" non poteva considerarsi una reale facolta' di scelta. Si rileva poi che alla data del 31 dicembre 1992 con la quale entrava in vigore il regime di incompatibilita', non era stato ancora stabilito l'obbligo per le scritture sanitarie pubbliche di reperire gli spazi per l'esercizio della professione libera intramuraria, obbligo imposto solo con il d.-lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 entrato in vigore dopo la scadenza del termine per opzione. La scelta del medico non poteva dunque considerarsi effettuabile sulla base di dati certi e completi. Si denuncia infine la violazione dell'art. 81 della costituzione atteso che la disposizione impugnata non reca alcuna copertura finanziaria pur comportando sicuramente un aggravio di spesa dovuto al passaggio del personale medico dal servizo a tempo definito al rapporto a tempo pieno. L'Amministrazione intimata si e' costituita in giudizio chiedendo il rigetto del gravame. D I R I T T O Nell'esame del ricorso appare rilevante l'insieme delle questioni di legittimita' costituzionale sollevate nei confronti dell'art. 4 settimo comma della legge 30 dicembre 1991, n. 412, del quale il provvedimento impugnato costituisce diretta applicazione. Nel disporre che "con il servizio sanitario nazionale puo' intercorrere un unico rapporto di lavoro", la norma di legge in oggetto impone ai medici che abbiano piu' di un rapporto, anche di natura convenzionale, con il servizio sanitario di far cessare tale situazione (definita di "incompatibilita'") entro il 31 dicembre 1992. In particolare i medici che abbiano con il servizio sia un rapporto di dipendenza a tempo definito ex art. 47 della legge n. 833/1978, che, contestualmente, un rapporto convenzionale ex art. 48 della stessa legge, entro il 31 dicembre 1992 devono optare o per il primo oppure per il secondo di essi. Senonche' lo status giuridico-economico del medico che esprime l'opzione in favore del rapporto di dipendenza appare molto diverso, e migliore, rispetto a quello del professionista che invece intenda optare per il rapporto convenzionale. Dal momento che coloro che sono chiamati ad effettuare la scelta tra le due possibilita' sono nella identica condizione lavorativa di partenza, la marcata differenza sopra evidenziata sembra verosimilmente tradursi in irragionevole, e quindi sospetta disparita' di trattamento, e questa vistosa disparita' costituisce a sua volta fonte di "coercizione" nella scelta, di talche' non appare rispettato il disposto degli artt. 4 e 35 della Costituzione, a proposito, oltretutto, di una professione che incida su un altro bene costituzionalmente protetto (art. 32 della Costituzione). Infatti: A) Il medico che esprime l'opzione in favore del rapporto di dipendenza gode della garanzia accordata dallo stesso art. 4, settimo comma, della legge n. 412/1991. Quest'ultimo reca "A decorrere dal primo gennaio 1993, al personale medico con rapporto di lavoro a tempo definito, in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge, e' garantito il passaggio, a domanda, anche in soprannumero, al rapporto di lavoro a tempo pieno". Tale garanzia, (pur essendo affievolita dal fatto che la legge non impone un termine entro il quale il servizio sanitario debba attuarla in favore del medico dipendente, ma si potrebbe sostenere che quod sine die debetur statim debetur) comporta inevitabilmente dei riflessi sul piano del trattamento economico. Comparando infatti, sotto quest'ultimo aspetto, la situazione del medico titolare del rapporto di dipendenza a tempo definito nonche' del rapporto convenzionale con un massimo di cinquecento assistiti, con la situazione del medico titolare soltanto del rapporto di dipendenza a tempo pieno, non si riscontrano delle differenze retributive di spessore tanto marcato da poter essere ritenuto rilevante ai fini qui in esame. Anche l'aspetto previdenziale, ad una analisi approfondita, non sembra raggiungere - nel passaggio dalla duplicita' dei rapporti, alla unicita' di dipendenza a tempo pieno - livelli di differenza tali da introdurre legittimamente l'esame del sospetto di incostituzionalita' della norma. I medici che optino per il tempo pieno, infatti, godrebbero dell'identico trattamento previdenziale previsto per i colleghi gia' collocati in precedenza in tale rapporto di dipendenza, sol che essi permangano in tale posizione per almeno cinque anni precedenti alla futura cessazione dal servizio (artt. 7 e 8 del d.l. 30 giugno 1972, n. 267). In piu', l'opzione in esame non inficierebbe il diritto, quali medici (ex) convenzionati, o di ottenere la restituzione dei contributi versati, maggiorati degli interessi legali (primo comma dell'art. 8 del d.-m. 4 aprile 1985), oppure di rimanere iscritti al fondo Enpam e fruire del trattamento pensionistico relativo, al maturare dei relativi requisiti (secondo comma del citato art. 8). Per quanto riguarda poi gli aspetti di progressione in carriera, e' ben vero che nel sistema concorsuale disegnato dagli artt. 28 e 32 del d.-m. 30 gennaio 1982, i medici a tempo pieno beneficiano di una maggiorazione, riferita ai titoli di carriera, che incide per il 35% sul punteggio attribuibile in un concorso rispetto ai colleghi a tempo definito. E pertanto e' ben vero che i medici che transitano dal tempo definito a quello pieno si trovano in una situazione di vantaggio. Ma oltre a potersi affermare che la diversita' di punteggio corrisponde ad una differente continuita' di collaborazione negli enti ospedalieri e' da rilevare che il recentissimo decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 ha completamente disegnato la "carriera" del medico ospedaliero ed ha anche previsto (art. 8 primo comma) la modifica dell'attuale normativa concorsuale di talche' e' ragionevole ipotizzare che eventuali disparita' possano trovare la sede opportuna per i necessari correttivi. B) Se questo e', per linee essenziali, lo status di cui godrebbe il medico che scelga il rapporto di dipendenza a tempo pieno, molto diversa e ben deteriore, e' la condizione del professionista che intenda, invece esprimere l'opzione in favore del solo rapporto di medico convenzionato. Questi subirebbe un'immediata decurtazione di piu' del cinquanta per cento del trattamento retributivo complessivo fino ad oggi ricevuto, di talche' l'invito fatto dal legislatore, alla scelta tra due opportunita', appare in realta' una sorta di "costrizione" di fatto a transitare dai rapporti a tempo definito e convenzionale, al rapporto a tempo pieno. Tutto questo e' conseguenza del fatto che mentre si assicura al medico il "passaggio anche in soprannumero al rapporto di lavoro a tempo pieno" la legge non esprime alcuna garanzia di mantenimento del rapporto convenzionale e ancor meno assicura - a chi opti per il mantenimento del solo rapporto convenzionale - l'attribuzione di un numero di assistiti tale da compensare quel notevole minor introito retributivo, che sarebbe sicura conseguenza della cessazione del rapporto dipendente del rapporto a tempo definito. L'incremento della loro retribuzione sarebbe condizionata unicamente all'incremento del numero di cittadini assistiti che decidessero di avvalersi delle loro prestazioni; senonche' i fattori contingenti notoriamente sussistenti rendono tale incremento puramente teorico, e, comunque, possibile soltanto in tempi medio- lunghi (e' nota la tendenza dell'assistito a continuare nel rapporto di fiducia gia' stabilito con un altro medico, altresi' noto che il numero di professionisti che lavorano nel settore medico e' esorbitante rispetto alla domanda). A parte ogni altra considerazione sotto i profili previdenziali, ritiene il collegio che l'aspetto strettamente economico della nuova situazione nella quale repentinamente il ricorrente si troverebbe, conduce da sola a rimettere la questione alla Corte costituzionale, posto che l'unico accenno a possibili variazioni del quadro retributivo appena evidenziato si rinviene in termini generici nell'ultima parte dell'art. 4, settimo comma, della legge n. 412/1991. "In sede di definizione degli accordi convenzionali di cui all'art. 48 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, e definito il campo di applicazione del principio di unicita' del rapporto di lavoro a valere tra i diversi accordi convenzionali". In sostanza, mentre viene rinviata alla contrattazione collettiva la definizione del nuovo rapporto convenzionale, la legge non impone che tale definizione avvenga entro il 31 dicembre 1992, ne' stabilisce un collegamento temporale tra l'avvenuta contrattazione collettiva e la scadenza del termine per effettuare la scelta, ed in tal modo non rendendo possibile alcuna valutazione sugli effetti concreti che conseguirebbero all'opzione espressa in favore del rapporto convenzionale. C) Le considerazioni che precedono consentono di ritenere in termini conclusivi e sintetici che non e' manifestamente infondato il sospetto che l'art. 4, settimo comma, della citata legge 30 dicembre 1991, n. 412, I. sia in contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione perche' - non prevedendo garanzia di sorta per il rapporto "convenzionato" - riserva trattamenti irragionevolmente differenziati ad esercenti la professione sanitaria che essendo nella pari condizione di titolari degli stessi due rapporti di collaborazione lavorativa con il servizio sanitario nazionale, optino in forza della medesima legge, gli uni per il rapporto dipendente e gli altri per il rapporto "convenzionato" II. sia in contrasto con gli artt. 4 e 35 della Costituzione perche' generando di fatto una grave e repentina disarmonia di trattamento normativo e retributivo tra le due categorie di medici di cui al precedente punto I. toglie in concreto - pur formalmente attribuendola - ogni possibilita' di scelta ai medici che in forza della legge 23 dicembre 1978, n. 833, sono titolari dei citati due rapporti di collaborazione lavorativa con il servizo sanitario nazionale. Del pari non manifestamente infondato appare il denunciato difetto di ragionevolezza della norma impugnata in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione. Infatti, il 19 settembre 1992 e' stato emanato il d.l. n. 384/1992, (poi convertito nella legge n. 438/1992) che ha sospeso fino a tutto il 31 dicembre 1993 la possibilita' per i pubblici dipendenti di chiedere il collocamento in quiescenza. Con la conseguenza che il medico in condizioni di incompatibilita' avrebbe dovuto operare la sua scelta senza avere in concreto la possibilita' di accedere alla pensione. Ancora peggiore e' la situazione dei medici che, non avendo maturato al 31 dicembre 1992 il diritto a pensione, ma potendo maturarlo entro il 1993, sono stati ugualmente posti nella necessita' di esercitare entro il 31 dicembre 1992 una opzione che, se si fosse orientata per il rapporto convenzionale, avrebbe comportato la perdita delle contribuzioni pensionistiche gia' versate. La norma ha, quindi, creato discriminazioni ricadenti nell'ambito delle violazioni degli artt. 3 e 97 della Costituzione ed ha accentuato i profili di irrazionalita' della legge. Tali discriminazioni e tale irrazionalita' sono state poi aggravate dall'art. 1, punto 9, del d.l. n. 510 del 30 dicembre 1992, che ha avuto l'intento - inadeguato e, comunque, fallito - di ovviare alle incongruenze determinate dal divieto di collocamento in quiescenza introdotto in prossimita' della scadenza del termine per l'opzione. Il d.l. n. 510/1992 ha, infatti, consentito la conservazione del regime di compatibilita' per il solo anno 1993 per coloro che avessero esercitato entro il 31 dicembre 1992 l'opzione a favore del rapporto convenzionale. Il d.l. n. 510/1992 fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 306 recante la data del 31 dicembre 1992 che era la stessa data in cui scadeva il termine per esercitare il diritto di opzione. Non e' stato convertito ed e' stato riprodotto nel recentissimo d.l. n. 128 del 28 aprile 1993. Ma il difetto di ragionevolezza e' ravvisabile anche sotto un diverso profilo. L'art. 4, settimo comma, della legge n. 412/1991 ha infatti sancito per i medici dipendenti dal servizio sanitario nazionale la possibilita' della sola attivita' libero professionale fuori dell'orario di lavoro all'interno o all'esterno delle strutture sanitarie della U.S.L. con il divieto pero' di esercitare presso le strutture private convenzionate. L'art. 4, punto 10, del decreto legislativo n. 502/1992, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 30 dicembre 1992: ha sancito l'obbligo dei "presidi ospedalieri" e delle "aziende" (secondo la nuova denominazione data alle UU.SS.LL.) di riservare spazi adeguati all'esercizio professionale intramurario da reperire entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore di quel decreto e cioe' dal 1 gennaio 1993: ha demandato alle regioni l'adozione dei provvedimenti sostitutivi in caso di inosservanza; ha altresi' previsto che, in caso di impossibilita' del reperimento degli spazi necessari alla libera professione all'interno delle strutture pubbliche, tali spazi debbono essere reperiti anche mediante convenzioni in case di cura o in altre strutture sanitarie pubbliche o private. Questa norma e' entrata in vigore dal 1 gennaio 1993 e cioe' dopo la scadenza del termine che era stato assegnato ai medici per esercitare la loro opzione ed e' questo un primo profilo di discriminazione e irrazionalita' legislativa. E' da aggiungere che dal 1 gennaio 1993 l'entrata in vigore dell'art. 4, punto 10, del decreto legislativo n. 502/1992 ha dettato disposizioni destinate ad operare nell'avvenire in quanto si tratta di reperire spazi, di creare o di convenzionare strutture; il tutto mentre e' in atto la trasformazione delle UU.SS.LL. in aziende e lo scorporo dei principali ospedali dalle UU.SS.LL. In concreto, l'art. 4, punto 10, del decreto legislativo n. 502/1992 non ha trovato ancora concreta applicazione. I medici si sono, quindi, visti imporre l'esercizio della opzione entro il 31 dicembre 1992 laddove il Legislatore ha introdotto con effetto dal 1 gennaio 1993 norme che erano imprescindibili per il corretto orientamento della opzione del medico. E cio' nella base dei principi che la Corte costituzionale ebbe ad enunciare nella sentenza n. 103 del 2 giugno 1977 che trova la sua origine dalle perplessita' che allora erano insorte sulle incompatibilita' connese ai rapporti di lavoro ospedalieri a tempo pieno e a tempo definito. Ed invero il giudice della legge pur dichiarando infondate le questioni di legittimita' costituzionale allora prospettate, ebbe espressamente a rilevare che la preclusione all'esercizio professionale all'esterno dell'ospedale e, in particolare, nelle case di cura private poteva applicarsi solo allorche' l'amministrazione avesse "adempiuto all'obbligo di apprestare i prescritti ambienti" e aggiunse che a quel momento ciascun sanitario in ragione della propria specializzazione avrebbe operato la sua concreta scelta. Nel contesto di quella sentenza la Corte costituzionale rilevo' che la norma di legge aveva stabilito il principio della incompatibilita' ed aveva fissato un termine perentorio per la sua applicazione non subordinandolo alla disponibilita' degli ambienti entro cui esercitare l'attivita' professionale intramurale, ma aggiunse che tutto cio' non stava "certo a significare che per le amministrazioni ospedaliere non sussistesse puntale e cogente, l'obbligo di apprestare gli ambienti medesimi entro lo stesso termine" e cioe' entro il termine nel quale i medici dovevano esercitare la propria opzione. Invece, con la legge n. 412/1991 il legislatore ha fissato la data terminale per l'esercizio della incompatibilita' e solo successivamente con effetto dal 1 gennaio 1993, ha introdotto la normativa che rende possibile l'esercizio professionale intramurale e obbliga le UU.SS.LL. a creare, reperire e convenzionare le strutture. Il contesto normativo dell'art. 4, settimo comma, della legge n. 412/1991 e dell'art. 4, punto 10, del decreto legislativo n. 502/1992 appare di dubbia legittimita' costituzionale quanto meno in relazione al termine del 31 dicembre 1992 che avrebbe dovuto coincidere con il termine previsto per le aziende ospedaliere o, in loro sostituzione, per le regioni, con il termine previsto per la creazione, reperimento e convenzionamento delle strutture.