ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 213 del codice
 di procedura penale, promosso con ordinanza emessa  il  16  settembre
 1993  dal  Giudice  per  le indagini preliminari presso la Pretura di
 Macerata nel procedimento penale a carico di Greco Daniele,  iscritta
 al  n.  698  del  registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 48,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1993;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 Ministri;
    Udito nella camera di  consiglio  del  9  marzo  1994  il  Giudice
 relatore Ugo Spagnoli;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  In  una  udienza fissata per la trattazione di un incidente
 probatorio richiesto dal pubblico ministero per l'assunzione  di  una
 ricognizione  di  persona  imputata  di  furto  da  parte  di persona
 imputata,  nel  medesimo  procedimento,   del   connesso   reato   di
 ricettazione,  il  Giudice  per  le  indagini  preliminari  presso la
 Pretura di Macerata, con ordinanza in  data  16  settembre  1993,  ha
 sollevato  d'ufficio  questione  di  legittimita'  costituzionale, in
 riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dell'art.  213  del
 codice  di  procedura  penale,  nella parte in cui consente che siano
 assunti come autori  della  ricognizione  anche  i  coimputati  dello
 stesso  reato  o  gli  imputati  in  un procedimento connesso a norma
 dell'art. 12 del codice di procedura penale.
   Premesso che la ricognizione di persona o di cosa  deve  ritenersi,
 anche   sulla   scorta   della  prevalente  dottrina,  una  forma  di
 testimonianza,  atteso  che,  nel  momento   in   cui   effettua   la
 ricognizione  il suo autore riferisce al giudice, e cioe' testimonia,
 in ordine alla presenza, alla identita', alle caratteristiche di  una
 certa  persona  e a quanto altro valga ad attribuire alla medesima la
 paternita' di un fatto rilevante nel processo penale,  il  giudice  a
 quo  osserva  che  la  disciplina  relativa a tale atto non prende in
 considerazione le ipotesi di incompatibilita' previste dall'art.  197
 del  codice  relativamente  alla testimonianza e, in particolare, non
 prevede il divieto di assumere come "ricognitori"  i  coimputati  del
 medesimo reato o le persone imputate in un procedimento connesso. Ne'
 tale  silenzio normativo puo' essere riempito, secondo il remittente,
 da una interpretazione  estensiva  o  analogica,  sia  per  la  netta
 distinzione  dei  regimi  relativi  ai due mezzi di prova, sia per la
 natura  eccezionale  della  disciplina  sulla  incompatibilita'  alla
 testimonianza.
    A  parere del giudice a quo, la disciplina sulle ricognizioni, non
 consentendo, diversamente dalla testimonianza,  al  coimputato  dello
 stesso  reato o, come nella specie, alla persona imputata di un reato
 connesso di rifiutare l'"ufficio  di  ricognitore",  ed  anzi,  ancor
 prima,  non  prevedendo  il  divieto  di assumere detti soggetti come
 autori della ricognizione, si porrebbe in contrasto con il  principio
 di uguaglianza.
    Il  costringere  un coimputato dello stesso reato o un imputato di
 reato connesso a rendere dichiarazioni tali da poter pregiudicare  la
 sua posizione processuale senza assicurargli il diritto di rifiutarsi
 di  rispondere  o  comunque  di prestare l'ufficio di ricognitore del
 coimputato  sarebbe  inoltre,  secondo il remittente, non conforme al
 dettato dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione.
    2. - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, che si e' limitata a chiedere che la questione sia  dichiarata
 inammissibile  o, in subordine, infondata, riservandosi di illustrare
 le proprie ragioni.
                        Considerato in diritto
    1. - Il Giudice per le  indagini  preliminari  presso  la  Pretura
 circondariale  di  Macerata,  muovendo dal presupposto interpretativo
 che l'art. 213 cod. proc. pen. non assicura all'imputato  chiamato  a
 riconoscere  la  persona di un coimputato il diritto di rifiutarsi di
 rispondere o,  comunque,  di  prestare  l'"ufficio  di  ricognitore",
 dubita che tale disposizione, in parte qua, sia in contrasto:
       a)   con   l'art.   3   Cost.,  in  quanto  determinerebbe  una
 ingiustificata disparita' di  trattamento  rispetto  alla  disciplina
 della  testimonianza,  che,  per il coimputato e per l'imputato in un
 procedimento  connesso,  prevede  una  incompatibilita'  all'atto  e,
 quindi, un divieto di assumere le relative dichiarazioni;
       b)   con   l'art.   24,   secondo   comma,   Cost.,  in  quanto
 costringerebbe detti soggetti a rendere dichiarazioni tali  da  poter
 pregiudicare la loro posizione processuale.
    2.  - Va preliminarmente rigettata l'eccezione di inammissibilita'
 dell'Avvocatura generale dello Stato, in quanto del tutto immotivata.
    3. - La questione non e' fondata.
    Il rimettente, da un lato, assume che la ricognizione di persona o
 cosa costituisce "sempre una forma di testimonianza"  e,  dall'altro,
 deduce  che,  non  contemplando  la disciplina sulla ricognizione "le
 ipotesi di incompatibilita'  previste  dall'art.  197  c.p.p.",  tale
 "lacuna   normativa"   non   potrebbe   essere   "coperta   con   una
 interpretazione o estensione analogica".
    Ma  comunque  si  voglia  definire  la   natura   del   mezzo   di
 prova-ricognizione,   problema   non   univocamente   risolto   dalla
 elaborazione dottrinale, e'  arbitrario  equiparare  la  ricognizione
 alla  testimonianza  prescindendo dalla considerazione della qualita'
 del  soggetto  attivo  dell'atto.  E  cio'  proprio  perche',  mentre
 chiamato  alla  testimonianza non puo' essere altri che un testimone,
 vale a dire una persona per definizione disinteressata ai  fatti  per
 cui  si  procede,  soggetto attivo della seconda puo' essere tanto un
 testimone,  quanto  il  coimputato  (o  l'imputato  in  un   separato
 procedimento  connesso).  In  tale ultimo caso, evidentemente, l'atto
 dichiarativo di ricognizione, provenendo da un  soggetto  interessato
 ai  fatti,  e'  assimilabile  semmai  all'esame  (a seconda dei casi,
 dell'imputato o dell'imputato  in  un  procedimento  connesso:  artt.
 208-210 cod. proc. pen.).
    Sebbene  non  esplicitato  dalla  norma, in dottrina non si e' mai
 dubitato che, se il ricognitore e' il coimputato (o l'imputato in  un
 procedimento  connesso)  egli  sia assistito dal diritto al silenzio,
 che e' un principio cardine del nostro sistema processuale.
    Tale impostazione trova conferma anche in  una  recente  decisione
 della  Corte  di  cassazione  (Sez.  VI  pen., u.p. 18 febbraio 1994,
 Goddi),  secondo  cui  dalla   natura   dichiarativa   dell'atto   di
 ricognizione  discende che, nel caso in cui chiamato ad effettuare la
 ricognizione  sia  una  persona  imputata in un separato procedimento
 connesso,  si  rende  applicabile  la  regola  posta,  per   l'esame,
 dall'art.  210,  quarto comma, cod. proc. pen. (avviso della facolta'
 di non rispondere).
    Piu' in generale, nella medesima  decisione  si  afferma  che  dal
 principio nemo tenetur se detegere deriva il diritto del coimputato o
 dell'imputato  in  un separato procedimento connesso di non prestarsi
 alla ricognizione attiva.
    4. - In conclusione, sia l'imputato intraneus o extraneus rispetto
 al procedimento nell'ambito del quale e' chiamato  a  effettuare  una
 ricognizione,  l'esercizio  del  suo diritto al silenzio impedisce di
 fatto l'espletamento dell'atto. Di qui l'infondatezza  delle  censure
 prospettate dal giudice a quo.