IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Ha pronuncaito la seguente ordinanza a scioglimento della riserva espressa nell'udienza del 13 luglio 1994 nel corso del procecimento instaurato a norma degli artt. 678, 666 del c.p.p., 176 del c.p. (istanza di liberazione condizionale) nei confronti di Baddar Alaa Eddine nato ad Amman il 2 febbraio 1958, detenuto presso la C.R. Rebibbia Reclusione in espiazione della sentenza 6 giugno 1987 corte appello Roma, anni tredici reclusione di cui anni tre mesi cinque presofferti per associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. D.p. 26 novembre 1988, F.p. 4 ottobre 1996. Il tribunale di Sorveglianza di Roma, riunito in camera di consiglio per deliberare in merito alla istanza di liberazione condizionale avanzata da Baddar Alaa Eddine ex art. 176 del c.p. Verificata la rituale instaurazione del contraddittorio. Ritenuta la propria competenza territoriale. In esito all'udienza ritualmente svoltasi in data 13 luglio 1994 come da verbale in atti, a scioglimento della riserva formulata, ha pronunciato la seguente ordinanza di sospensione del procedimento e di rimessione degli atti alla Corte costituzionale per gli aspetti e le argomentazioni che seguono: Il Baddar e' attualmente ristretto prsso la C.R. Rebibbia in espiazione della sentenza 6 giugno 1987 della corte di appello di Roma, che ha inflitto la condanna ad anni tredici di reclusione, di cui anni dodici mesi sei per il delitto associativo di cui all'art. 75 della legge n. 685/1975, sentenza irrevocabile il 4 dicembre 1986. Decorrenza pena 26 novembre 1988 - Fine pena 22 maggio 1996. Sull'ammissibilita' dei benefici penitenziari incide il nuovo testo dell'art. 4-bis della legge n. 354/1975, come modificato dall'art. 15 del d.l. n. 306/1992, convertito con modificazioni nella legge n. 356/1992, che dispone: " .. l'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo sesto della legge 26 luglio 1975, n. 354, fatta eccezione per la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416- bis del c.p., ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonche' per i delitti di cui agli artt. 416-bis e 630 del c.p. e all'art. 74 del d.P.R. n. 309/1990, solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborano con la giustizia a norma dell'art. 58-ter. Quando si tratta di detenuti o internati per uno dei predetti delitti ai quali sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dagli artt. 62, n. 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, o 114 del c.p., ovvero la disposizione dell'art. 116, secondo comma, dello stesso codice, i benefici suddetti possono essere concessi anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, purche' siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l'attualita' dei collegamenti con la criminalita' organizzata ..". Normativa applicabile, ai sensi del combinato disposto degli artt. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, 2 del d.l. n. 152/1991 (convertito con modificazioni nella legge n. 203/1/991), anche in tema di liberazione condizionale. Il citato art. 2, infatti, cosi' dispone: "I condannati per i delitti indicati nel primo comma dell'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, possono essere ammessi alla liberazione condizionale solo se ricorrono i relativi presupposti previsti dallo stesso comma per la concessione dei benefici indicati". E' indubbia, pertanto, la rilevanza della normativa in discussione in riferimento al tipo di misura cui la istanza dell'interessato tende e che forma oggetto della presente procedura. La Corte costituzionale, investita della questione di legittimita' delle disposizioni introdotte con il citato d.l. n. 306, in relazione al dettato di cui al secondo comma dell'art. 15-bis, ha evidenziato il principio secondo cui, accertata l'assenza di collegamenti con la criminalita' organizzata, le misure alternative non possono essere revocate sul semplice presupposto della mancata collaborazione, pena la trasmodazione in regolamentazione irragionevole della materia. E' ben vero che nell'ipotesi in esame di revoca non e' consentito parlare, ma sotto il profilo pratico nessuna apprezzabile differenza puo' essere individuata tra revoca e mancata concesione ope ligis del beneficio. Nel caso di specie, puo' ritenersi accertata nei confronti del Baddar l'assenza di collegamenti attuali con il crimine organizzato, non potendosi ritenere vincolanti le informazioni fornite al riguardo dal questore e dal C.P.O.S.P., assolutamente apodittiche al riguardo, informazioni che trovano obiettiva smentita nel positivo percorso di distacco del Baddar dalle pregresse scelte delinquenziali. Il detenuto, manifestando fattiva partecipazione all'opera trattamentale intramuraria ed evidenziando un serio processo di rielaborazione critica del proprio passato, ha reiteratamente fruito di riduzioni pena ex art. 54 della legge n. 354/1975 ed in data 16 dicembre 1992 e' stato proposto dal consiglio di disciplina per il beneficio della liberazione condizionale. Non puo' in proposito dubitarsi che l'istituto della liberazione condizionale integra una concreta modalita' del trattamento penitenziario, necessariamente individualizzato ex art. 13 della legge n. 354/1975, inserendosi quale momento terminale di una scala progressiva di strumenti di reinserimento sociale. L'ancorare in via pregiudiziale la concedibilita' del beneficio nei confronti dei condannati per determinati tipi di reato all'esclusivo presupposto della condotta collaborativa determina, ad avviso di questo tribunale, un evidente contrasto con il dettato dell'art. 27 della Carta costituzionale, venendosi sostanzialmente in tali casi ad eludere il procetto relativo alla finalita' rieducativa della pena. Piu' volte la Corte costituzionale (sentenze nn. 204/1974, 343/1987, 282/1989, 125/1992, 306/1993), facendo riferimento al precetto dell'art. 27 della Corte costituzionale, ha ribadito che nel corso dell'espiazione della condanna "sorge il diritto per il condannato a che, verificandosi le consizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantita' di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo ..". Diritto, questo, che deve trovare nella legge "una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale". Non si vede infatti come possa ritenersi sussistente una correlazione necessaria tra scelta collaborativa ed evoluzione comportamentale del soggetto nel corso dell'espiazione della condanna, tale cioe' da ravvisare la seconda proposizione solo ed eslcusivamente in presenza della prima. Non solo, infatti, la collaborazione puo' prescindere da un valido processo di distacco delle pregresse scelte delinquenziali, potendo essere dettata eslcusivamente da motivazioni utilitaristiche, ma anche ammesso che alla scelta collaborativa corrisponda una volonta' di emenda, non altrettanto valida puo' ritenersi la proposizione contraria. "E' ben vero che la collaborazione consente di presumere che chi la presta si sia dissociato dalla criminalita' e che ne sia percio' piu' agevole il reinserimento sociale. Ma dalla mancata collaborazione non puo' trarsi una valida presunzione di segno contrario, e cioe' che essa sia indice univoco di mantenimento dei legami di solidarieta' con l'organizzazione criminale: tanto piu', quando l'esistenza di collegamenti con quest'ultima sia altrimenti esclusa" (sentenza n. 306/1993 della Consulta). L'eguaglianza dinanzi ala pena significa innanzitutto proporzione della pena rispetto alle personali responsabilita' ed alle esigenze che ne conseguono (sentenza n. 299/1992 della Corte costituzionale), ed il trattamento penitenziario deve, per espresso dettato normativo, essere improntato ai criteri di proporzionalita' ed individualizzazione nel corso di tutta l'esecuzione della condanna, criteri che discendono direttamente dagli artt. 27, primo e terzo comma (sentenze nn. 50/1980 e 203/1991) e 3 della Costituzione. La tipizzazione per titoli di reato determina evidente violazione di detti criteri e suscita legittime perplessita' la preoccupante tendenza alla configurazione normativa di "tipi di autore", per i quali la rieducazione si presume ope legis non possibile o non perseguibile in difetto del presupposto della collaborazione. La mancata collaborazione con la giustizia puo', ad avviso di questo tribunale, essere valutata come mero elemento indiziante ai fini dell'accertamento della perdurante esistenza di contatti con il crimine organizzato. Ma quando, ulteriori accertamenti, ancorati in particolare alla partecipazione del condannato al percorso rieducativo-riabilitativo proprio della condanna a pena detentiva, elementi che trovano riscontro all'esito dell'osservazione scientifica della personalita' e/o sulla scorta di dati obiettivi, diano esito univocamente negativo, non puo' ritenersi rilevante in senso ostativo tale dato. Pena, la violazione del dettato dell'art. 27 e la trasmodazione della normativa in regolamentazione assolutamente irragionevole della materia. Ne' in proposito possono ritenersi venute meno le perplessita' evidenziate a seguito dell'introduzione, in sede di conversione del decreto legge, dell'ipotesi della collaborazione oggettivamente irrilevante, che, in quanto tale, puo' essere prestata in qualunque momento, anche successivamente alla definizione del processo; collaborazione configurabile pur in assenza di un procedimento di revisione del giudizio o dell'apertura di un nuovo procedimento nei confronti di terzi. Invero, rispetto alle fattispecie di reato elencate nela seconda parte del primo comma dell'art. 4-bis della legge n. 354/1975 le attenuanti di cui agli artt. 62, n. 6 (risarcimento del danno) e 116 del c.p. (reato diverso da quello voluto da taluni dei concorrenti) possono riguardare solo le prime due ipotesi, (reati commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis o il delitto di cui all'art. 630 del c.p.), non certo i reati associativi. Quanto poi all'attenuante di cui all'art. 114 del c.p. (minima partecipazione), precisato che ricorre solo in casi eccezionali, anche se il ruolo del compartecipe sia subalterno, deve comunque escludersi ove, come nel caso di specie, ricorra l'aggravante di cui all'art. 112, n. 1, del c.p. (concorso nel reato di cinque o piu' persone). Senza poi dimenticare che per consolidata giurisprudenza della s.C. (sezione sesta, sentenza n. 5349 dell'11 aprile 1990), in ordine al reato di associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti non puo' essere concessa la circostanza attenuante di cui all'art. 114, primo comma, del c.p. per due ragioni: perche' tale circostanza si riferisce, per espressa previsione, ai soli artt. 110 e 113 del c.p. che prevedono, rispettivamente, il concorso eventuale nel reato e la cooperazione nel delitto colposo (mentre il reato di cui all'art. 75 della legge n. 685/1975 e' di natura plurisoggettiva o a concorso necessario); perche' nella valutazione legislativa della illiceita' penale non e' l'azione del singolo imputato del resto associativo a venire in considerazione, bensi' l'attivita' dell'organizzazione criminosa nel suo complesso, qualunque sia stato il ruolo svolto dal singolo associato, necessariamente partecipe, insieme con gli altri, di quella attivita' (Cass., sezione sesta, sentenza n. 5349 dell'11 aprile 1990). La stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 306/1993 ha condiviso le doglianze sollevate dai tribunali rimettenti circa l'eccezionalita' delle fattispecie normative considerate dal legislatore. " .. Ora e' ben vero" - si legge in sentenza - "che queste ultime sono fattispecie normativamente assai ristrette e che possono darsi ipotesi ad esse cosi' prossime sul piano fattuale, da poterne sostenere ragionevolmente l'assimilazione. Ma nessuna delle ordinanze in esame ha mosso specifiche censure in questa prospettiva, ne' ha, soprattutto, dato conto, ai fini della rilevanza, di aver accertato l'ulteriore requisito posto dalla norma in esame, costituito dalla prova certa, nel caso oggetto del giudizio principale, dell'inesistenza di "collegamenti con la criminalita' organizzata". Ma la normativa citata appare incostituzionale anche sotto altro profilo. Costituisce ormai principio consolidato che l'irretroattivita' della legge penale sancita dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione si estende a tutte le norme che si riferiscono al quadro sanzionatorio, ivi comprese le norme che disciplinano il trattamento penitenziario. Le disposizioni di natura sostanziale relative alla modalita' di esecuzione della pena, infatti, in quanto incidenti sulla "qualita' e quantita' in concreto" della pena inflitta, rivestono indubbiamente natura penale. Il divieto di introdurre innovazioni in pejus deve farsi risalire, ad avviso di questo tribunale, se non al momento del passaggio in giudicato della sentenza o al momento dell'inizio dell'esecuzione, teorie entrambe sostenute da autorevole dottrina, senz'altro al momento della maturazione dei presupposti di legge. Nel caso di specie il Baddar al momento dell'entrata in vigore della normativa di cui si sospetta l'illegittimita' costituzionale aveva gia' ampiamente maturato i termini di legge previsti per la concessione del beneficio de quo. Solo in seguito al d.l. n. 306 e successiva legge di conversione il Baddar e' venuta a determinarsi un'ipotesi di inammissibilita' dell'istanza di liberazione condizionale, e cio' per la mancanza di collaborazione, presupposto mai richiesto in precedenza. Le modifiche apportate dalla normativa del 1992 ad avviso del tribunale, hanno sostanzialmente determianto una nuova ed ulteriore valutazione del comportamento tenuto dal Baddar, sulla scorta di parametri valutativi estranei al processo rieducativo o comunque non necessariamente a questo correlati, cosi' di fatto modificando nei suoi aspetti fondamentali l'entita' della pena inflitta nella forma delle sue modalita' esecutive. Ritenuta pertanto di dubbia costituzionalita' in relazione agli artt. 3, secondo comma, 25, secondo comma, 27, terzo comma, della Costituzione l'art. 4-bis, primo comma, della legge n. 354/1975, cosi' come successivamente modificato dal d.l. n. 306/1992, convertito, con modificazioni, nella legge n. 356/1992; ritenuta rilevante la questione nel caso di specie, poiche' la norma che si sottopone al vaglio di costituzionalita' impedisce di esaminare nel merito l'istanza; deve sospendersi il giudizio in corso, con remissione degli atti alla Corte costituzionale per la valutazione delle censure sollevate. Ne' la questione che si intende oggi sollevare puo' ritenersi mera riproposizione di analoga ordinanza di rimessione pronunciata da questo tribunale in relazione ad un procedimento di reclamo proposto ex art. 30-bis del o.p. dal Baddar avverso la declaratoria di inammissibilita' di domanda di permesso premio, atteso il diverso oggetto dei procedimenti.