LA CORTE DEI CONTI
    Uditi nella pubblica udienza dell'11 maggio 1994, con l'assistenza
 del segretario dott. Ermete Francocci, il  presidente  relatore,  gli
 avvocati  Antonio  Fonzi  e Sebastiano Petrucci, procuratori speciali
 della ricorrente e l'avv.  Giuseppe  Stipo  dell'Avvocatura  generale
 dello Stato per l'amministrazione resistente;
    Visto il ricorso iscritto al n. 179259 del registro di segreteria;
    Visti gli atti e i documenti tutti della causa;
    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza sul ricorso prodotto dalla
 signora Mazziotti Maria Rosaria, domiciliata elettivamente  in  Roma,
 via Zara n. 13, presso l'avv. Antonio Fonzi avverso la sentenza n. 16
 del  13  gennaio  1994  della sezione giurisdizionale della Corte dei
 conti per la regione Lazio;
                               F A T T O
    Con la suindicata sentenza la  sezione  giurisdizionale  regionale
 per  il  Lazio  della Corte dei conti ha respinto il ricorso preposto
 dalla signora Mazziotti Maria Rosaria, vedova dell'  ex  portalettere
 Colanero  Nicola,  non  ritenendo sussistente il nesso causale tra la
 morte del dante causa e il servizio dal medesimo prestato.
    La ricorrente, nel  contestare  sinteticamente  le  argomentazioni
 della  decisione, precisa di essere a conoscenza che le recenti norme
 sul decentramento giurisdizionale della Corte dei conti non prevedono
 l'appello avverso le sentenze delle sezioni regionali pronunciate  in
 materia  pensionistica. Ritenendo costituzionalmente illegittima tale
 mancata previsione, la ricorrente solleva questione  di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 1, quinto, settimo e ottavo comma, del d.l.
 15  novembre 1993, n. 453, convertito nella legge 14 gennaio 1994, n.
 19, per violazione degli artt. 3, 36, 38, 111 (ultimo  comma)  e  125
 (secondo comma) della Costituzione.
    Il  quinto  comma dell'art. 1 ammette l'appello solo in materia di
 contabilita' pubblica; il settimo comma riduce  la  composizione  del
 collegio  delle  sezioni  riunite  della  Corte  da  undici  a cinque
 votanti, l'ottavo comma dello  stesso  art.  1,  infine,  prevede  la
 soppressione   delle   sezioni   centrali  competenti  nella  materia
 pensionistica  dalla  data  di   insediamento   dell'ultima   sezione
 regionale e, in ogni caso, dal 1$ gennaio 1995.
    A sostegno del proprio assunto la ricorrente ha svolto le seguenti
 argomentazioni:
      violazione  dell'art.  3  della  Costituzione in relazione anche
 agli artt. 36 e 38 della Costituzione.
    Il  primo  comma  dell'art. 1 del decreto-legge istituisce le c.d.
 sezioni regionali della Corte dei conti, per le quali  sarebbe  stata
 piu' appropriata la denominazione "tribunali regionali pensionistici"
 (o  contabili)  in  quanto  giudicano,  come  i t.a.r. ed i tribunali
 ordinari, con collegi di  tre  magistrati  (art.  5  della  legge  n.
 658/1984  richiamato  dall'art.  1  citato)  ed inoltre, come per gli
 anzidetti tribunali  gia'  esistenti,  i  ricorrenti  possono  essere
 rappresentati  in  giudizio da procuratori legali e non piu' soltanto
 da avvocati cassazionisti (art. 6, quinto comma).
    L'unica differenza tra gli anzidetti tribunali gia' esistenti e le
 sezioni regionali  della  Corte  dei  conti  e'  data  dalla  diversa
 disciplina  per  cui  contro le decisioni dei primi e' ammesso sempre
 l'appello, mentre avverso le decisioni delle seconde, non e' prevista
 alcuna ordinaria impugnativa: sicche' queste ultime decisioni restano
 come  un'irrazionale  eccezione  alla  normale  appellabilita'  delle
 sentenze  emesse  da  tutti  i tribunali periferici costituiti da tre
 giudici, che determina un'ingiusta disparita' di  trattamento  tra  i
 cittadini  titolari di diritti soggettivi di natura privatistica, che
 per la tutela  e  le  loro  ragioni  agiscono  innanzi  ai  tribunali
 ordinari,  ed  i  cittadini che lamentano la lesione del loro diritto
 alla pensione mediante ricorso alle sezioni regionali della Corte dei
 conti.
    Ai primi infatti  e'  data  la  possibilita'  di  adire  la  Corte
 d'appello  in  caso  di  soccombenza  mentre  ai  secondi  e'  negato
 qualsiasi mezzo di impugnativa, pur essendo evidente che anche questi
 ultimi sono titolari di diritti soggettivi  perfetti  come  e'  stato
 piu'  volte affermato dalla stessa Corte costituzionale (v. per tutte
 la sentenza n. 8/1976).
    Ma  piu'  stridente  appare  l'iniquita'  della  nuova  previsione
 normativa,  se  si  considera  il  particolare valore etico e sociale
 delle  pensioni  spettanti   agli   ex   dipendenti   pubblici   come
 "retribuzione  differita", la cui rilevanza costituzionale e' sancita
 dall'art. 36 della Costituzione, e se si considera la  loro  funzione
 "alimentare"  come  strumenti  intesi ad assicurare "i mezzi adeguati
 alle esigenze di vita" dei lavoratori  anziani  o  invalidi,  la  cui
 rilevanza   costituzionale,   e'   affermata   dall'art.   38   della
 Costituzione (v. da ultimo la sentenza della Corte costituzionale  n.
 39/1993),  e  qui  giova  precisare  che  non  si tratta della comune
 funzione alimentare attribuita agli  analoghi  obblighi  del  diritto
 civile,  poiche' qui trattasi di una funzione alimentare di interesse
 pubblico  nascente  dalle  fondamentali  esigenze  di  previdenza   e
 sicurezza sociale, sicche' per l'uno e per l'altro aspetto il diritto
 alla  pensione  dovrebbe  ottenere  una  protezione  piu'  rigorosa e
 puntuale degli altri  crediti  di  natura  civilistica  fatti  valere
 innanzi  ai tribunali ordinari, e tuttavia con la nuova normativa non
 solo non e' data  una  maggiore  tutela  ai  diritti  soggettivi  dei
 pensionati  e  neppure  e'  prevista  una  protezione almeno uguale a
 quella degli altri diritti soggettivi, ma  addirittura  e'  data  una
 tutela  deteriore  con  l'unico  grado di giudizio avanti a un organo
 regionale. Giova anzi  segnalare  come  questa  forma  di  tutela  e'
 assolutamente  inedita  in  quanto, con la recente riforma, e' venuta
 meno anche la garanzia della  piu'  ampia  collegialita'  data  dalle
 soppresse sezioni centrali della Corte dei conti.
    Inoltre,  a  rendere  piu'  vistosa  la  denunziata  disparita' di
 trattamento  sta  la  considerazione  che  innanzi  al   t.a.r.,   il
 ricorrente  si  duole normalmente della lesione di un mero "interesse
 legittimo" e tuttavia puo' fare valere le suo doglianze anche  in  un
 giudizio   di   secondo  grado,  mentre  il  dipendente  pubblico  in
 quiescenza,  pure  essendo  titolare  di   un   "diritto   soggettivo
 perfetto",  non  gode della stessa possibilita': sicche' accadra' nel
 nostro ordinamento che il titolare di  un'agenzia  ippica  o  di  una
 licenza   di   pesca   che  ha  lamentato  innanzi  ad  un  tribunale
 amministrativo regionale la lesione del proprio interesse  legittimo,
 in  caso  di  soccombenza  potra'  agire in appello per far valere le
 proprie ragioni; mentre  lo  stesso  potere  di  impugnativa  non  e'
 concesso al dipendente pubblico invalido o anziano che si dolga della
 lesione  del  suo  diritto alla pensione, e resti soccombente davanti
 all'organo pensionistico regionale, benche' egli sia titolare  di  un
 diritto soggettivo che, come si e' detto, non e' un comune diritto di
 credito  di  natura  privatistica  ma  e'  un  diritto  di  altissima
 rilevanza etico-sociale e costituzionale;
      violazione dell'art. 125, secondo comma, della Costituzione.
    L'art. 125, secondo comma, della Costituzione prevede che,  "nella
 regione  sono  istituiti organi regionali di giustizia amministrativa
 di primo grado, secondo l'ordinamento  stabilito  dalla  legge  della
 Repubblica".
    In  questa  norma e', quindi enunciato il principio costituzionale
 secondo  cui  "i  tribunali  regionali  di  giustizia  amministrativa
 possono  essere soltanto tribunali di primo grado che presumono cioe'
 un organo di appello e quindi non possono di regola  pronunziarsi  in
 unico grado".
    A  questo  principio  si  e'  infatti attenuta la legge 6 dicembre
 1971, n.  1034,  che  ha  decentrato  la  giurisdizione  generale  di
 legittimita',  istituendo  i  t.a.r.  senza  sopprimere ovviamente le
 sezioni giurisdizionali centrali del Consiglio  di  Stato  che  hanno
 assunto  invece  le  funzioni  di  giudici  d'appello  rispetto  alle
 decisioni dei tribunali amministrativi regionali.
    Il decreto n. 453/1993 e la legge n. 19/1994, al contrario,  hanno
 disatteso radicalmente il menzionato principio, sancito dall'art. 125
 citato,  istituendo  i  tribunali  pensionistici  regionali  sotto la
 equivoca denominazione di "sezioni regionali della Corte dei conti" e
 sopprimendo contemporaneamente tutte le sezioni centrali della  Corte
 dei  conti  che  avrebbero potuto assumere le funzioni di appello nel
 campo pensionistico.
    Ne' si puo'  dubitare  della  fondamentale  verita'  che  l'intera
 materia  delle pensioni trattata dal decreto legge ed attribuita alla
 giurisdizione della Corte dei conti, rientri senza residui nel  campo
 della   "giustizia   amministrativa"  cui  si  riferisce  l'anzidetto
 principio costituzionale, poiche' e' altrettanto chiaro che  tutti  i
 provvedimenti  di  pensioni  (dei  Ministeri,  del direttore generale
 delle pensioni di guerra o dei direttori provinciali del tesoro) sono
 atti amministrativi esattamente come tutti gli altri atti che vengono
 impugnati e riesaminati dal t.a.r. e dal Consiglio di Stato.
    Va inoltre chiarito e precisato che  le  c.d.  "sezioni  regionali
 della  Corte  dei  conti" non possono in alcun modo considerarsi come
 vere e proprie  sezioni  della  Corte  dei  conti  (simili  a  quelle
 centrali  in via di soppressione) poiche', come si e' detto, esse non
 sono altro che organi periferici  di  grado  inferiore  che,  come  i
 t.a.r.   e  i  tribunali  ordinari,  giudicano  con  collegi  di  tre
 magistrati.
    Chiaro e' quindi la violazione dell'art. 125 citato, in quanto  il
 decreto   legge   ha   istituito   organi   regionali   di  giustizia
 amministrativa (comunque si vogliano  denominare)  di  "unico  grado"
 anziche'  di  "primo  grado"  come espressamente richieste il dettato
 costituzionale.
    Ne' si puo' pensare che l'art. 125, nella disposizione  riportata,
 si  riferisca esclusivamente alla istituzione del t.a.r., poiche' non
 e' sostenibile che la Costituzione nel dettare il principio dell'art.
 125 (che costituisce  senza  dubbio  un  passo  avanti  nel  processo
 storico  di  attuazione dello Stato di diritto) abbia voluto limitare
 il principio ad una parte soltanto della giustizia amministrativa.
    A questa supposta interpretazione  osta  innanzi  tutto  il  testo
 della  norma  costituzionale che si riferisce indistintamente a tutta
 la giustizia amministrativa, sicche' una distinzione fatta in sede di
 applicazione della normativa stessa sarebbe del tutto arbitraria: ubi
 lex non distinguit, nec nos distinguere debemus.
    Ma soprattutto osta all'interpretazione restrittiva dell'art.  125
 lo  stesso art. 3 della Costituzione perche', se si tiene conto, che,
 come si e' visto, innanzi al t.a.r. ed al Consiglio di Stato  vengono
 tutelati normalmente i meri "interessi legittimi" dei ricorrenti (che
 come  e'  noto  sono  posizioni  giuridiche  piu'  labili rispetto ai
 "diritti soggettivi") sarebbe una vera  aberrazione  pensare  che  la
 Costituzione   avrebbe   voluto   assicurare  (col  doppio  grado  di
 giurisdizione) una piu' piena tutela degli "interessi  legittimi"  ed
 invece  avrebbe  negato  la  stessa tutela ai "diritti pensionistici"
 degli ex dipendenti pubblici che, per di piu' (giova ripeterlo)  sono
 diritti di conclamata rilevanza costituzionale.
    E'  opportuno  infine  ricordare che gia' la Corte costituzionale,
 con la sentenza n. 52/1984 dichiaro'  infondata  la  questione  della
 inappellabilita'  delle decisioni della Corte dei conti sollevata dal
 procuratore generale della Corte medesima in relazione all'art.  125,
 secondo  comma, della Costituzione, ma se e' vero che la questione fu
 giudicata infondata in quella occasione,  e'  tuttavia  decisiva,  ai
 fini  dell'attuale questione, la limitazione di riserva che la stessa
 Corte costituzionale pose alla propria pronunzia prevedendo  che  "il
 dispositivo  della sentenza che la Corte sta per pronunziare non puo'
 estendersi  alle  sentenze  rese  in  prima  istanza  dalle   sezioni
 regionali  della  Corte dei conti perche' oggetto dell'incidente sono
 le  sole  decisioni  delle  sezioni  giurisdizionali  centrali  della
 Corte".
    Il   che   (senza   voler   anticipare   l'invocato   giudizio  di
 costituzionalita') significa che la questione  attualmente  sollevata
 e' tutta impregiudicata e meritevole di essere esaminata;
      violazione dell'art. 111, ultimo comma, della Costituzione.
    Ma  il  decreto  legge si pone contro i principi costituzionali in
 maniera piu' ampia e radicale per la violazione dell'art. 111, ultimo
 comma, della Costituzione, il quale dispone che "contro le  decisioni
 del  Consiglio  di  Stato  e  della  Corte  dei  conti  il ricorso in
 Cassazione e' ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione".
    La  recente  riforma  infatti  ha  soppresso  in  buona  sostanza,
 l'organizzazione  centrale che faceva della Corte dei conti un organo
 di giurisdizione superiore collocata sul medesimo piano del Consiglio
 di Stato (in virtu' della tradizione recepita e sancita dal riportato
 art. 111).
    Bisogna  inoltre  tenere presente che la c.d. riforma si e' voluta
 realizzare  con  singolare  pervicacia   mediante   la   decretazione
 d'urgenza  (ben  quattro  sono stati i decreti che si sono susseguiti
 senza ottenere conversione in legge durante  tutto  il  1993)  e  gli
 autori  del  decreto,  per  non suscitare, evidentemente, prevedibili
 obiezioni in sede di conversione, hanno mascherato  la  gravita'  del
 provvedimento  di  soppressione  lasciando  in  vita due sole sezioni
 centrali (in collegi ridotti a  tre  votanti)  con  una  parvenza  di
 "sezioni  riunite"  (ridotte  da undici a cinque votanti) attribuendo
 inoltre ai nuovi tribunali periferici il falso nome di sezione  della
 Corte  dei conti, che pero', del soppresso istituto hanno soltanto la
 materia da giudicare,  ma  non  hanno  ovviamente  il  prestigio,  la
 composizione  collegiale  e  le  strutture  essenziali  che  facevano
 dell'Istituto stesso un organo di giurisdizione superiore, nel  senso
 rigoroso consacrato dalla Costituzione, quale era nella tradizione.
    Per  valutare  pienamente  la portata delle limitazioni imposte al
 legislatore ordinario  dal  riportato  ultimo  comma  dell'art.  111,
 bisogna  andare  indietro  nel  tempo  e  risalire  alle  circostanze
 storiche  e  tecnico-sistematiche   recepite   dalla   stessa   norma
 costituzionale, di cui si potra' in tale modo evidenziare la ratio.
    In  questo  ordine  di idee bisogna stabilire innanzitutto a quale
 organizzazione si riferisce l'art. 111 quando  sottrae  le  decisioni
 della   Corte  dei  conti  al  riesame  di  diritto  della  Corte  di
 cassazione.
    Questa organizzazione, all'epoca in cui fu varata la  Costituzione
 (nel  1947)  non  poteva  essere  altra  che quella in funzione con i
 connotati descritti dal t.u. 12 luglio 1934, n. 1214, il cui art.  4,
 secondo  comma,  prescrive che il numero dei votanti "non puo' essere
 minore di cinque per ciascuna  delle  sezioni  giurisdizionali  e  di
 undici per le sezioni riunite".
    Questa  e'  la  Corte  dei conti cui si riferisce l'art. 111 della
 Costituzione e la composizione  dei  collegi  che  pronunzieranno  le
 decisioni sottratte al ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111,
 non  puo'  essere  modificata con una legge ordinaria, perche' quella
 commissione collegiale e' un presupposto  indefettibile  della  norma
 costituzionale.
    In  altre  parole si deve dire che in tanto la Costituzione limita
 il potere  del  singolo  che  voglia  sostenere  la  sue  ragioni  in
 Cassazione,  in  quanto  considera  sufficientemente  le  sue ragioni
 attraverso il giudizio elaborato da un collegio di cinque votanti con
 l'eventuale concorso delle sezioni riunite (di undici  votanti)  come
 gia' disposto dal citato art. 4 del t.u. n. 1214.
    Il legislatore ordinario sara' quindi libero di ampliare o ridurre
 gli  organici  della Corte dei conti, come sara' libero di variare il
 numero delle sezioni giurisdizionali, ma nella sue  scelte  politiche
 incontra  un  triplice  limite  perche'  da  una parte non potra' mai
 ridurre il numero dei votanti nelle singole sezioni (numero stabilito
 dal riportato art. 4 del t.u. n. 1214 e cristallizzato con  rilevanza
 costituzionale  per  l'art. 111 cit.) da altro lato potra' ridurre il
 numero delle sezioni stesse ma non potra'  mai  sopprimere  in  toto,
 perche'  cosi'  sopprime  addirittura  la  Corte dei conti (nella sua
 funzione giurisdizionale) riducendo il campo di applicabilita'  dello
 stesso art. 111, che verrebbe cosi' tacitamente abrogato per tutta la
 parte che si riferisce alla Corte dei conti (³³³).
    Ne',   in   terzo  luogo,  la  legge  ordinaria  puo'  variare  la
 composizione collegiale della sezioni riunite, perche' la presenza di
 questo  organo  e'  un  altro  presupposto  essenziale  del  precetto
 costituzionale,  posto  che  l'amplissima collegialita' delle sezioni
 riunite costituiva  una  ulteriore  garanzia  di  obiettivita'  e  di
 giustizia  (analoga  a  quella  offerta  dall'adunanza  plenaria  del
 Consiglio  di  Stato  composta  da  tredici  votanti)  sia   per   la
 possibilita'  di  un  maggiore  approfondimento  delle  questioni  di
 massima    sia    per    assicurare     l'unicita'     dell'indirizzo
 giurisprudenziale  ai  fini  della  certezza del diritto, bilanciando
 cosi' la rilevante limitazione del ricorso per cassazione.
    Questi tre limiti, pero', sono stati tutti travalicati dal decreto
 convertito in legge, perche' delle nove sezioni centrali della  Corte
 dei  conti,  sette  sono  state soppresse, due sono state lasciate in
 vita ma ridotte a collegi di tre votanti, e le sezioni  riunite  sono
 state ridotte da undici a cinque votanti.
    E'   chiara   quindi   l'inconfessata   volonta'  distruttiva  del
 legislatore ordinario nei confronti della Corte  dei  conti,  la  cui
 rilevanza   costituzionale   e'   stata  tenuta  in  evidente  totale
 dispregio.
    Concludendo sulla questione  della  violazione  dell'art.  111  in
 esame,   si   pone   un   ferreo   dilemma   perche'  o  si  sostiene
 l'applicabilita'  di  tale  norma  alle  nuove  sezioni  centrali   e
 periferiche   della   Corte   dei   conti,  oppure  se  ne  riconosce
 l'inapplicabilita'.
    Nel  primo  caso  si  partirebbe   dall'assunto   che   definiremo
 "nominalistico"  nel  senso  che il legislatore ordinario non avrebbe
 violato   la   norma   costituzionale    stravolgendo    radicalmente
 l'organizzazione  della  Corte  dei  conti,  in  quanto tale norma ha
 riguardo soltanto all'istituto che viene comunque designato con  quel
 nome  senza  alcun  riferimento  alla  sua  organizzazione effettiva,
 sicche' non avrebbe alcun rilievo, (ai  fini  della  limitazione  del
 ricorso  per  cassazione)  che  le  sezioni decidessero con un numero
 minore di votanti, ne' avrebbe rilievo  l'evento  della  soppressione
 stessa  dell'istituto,  purche'  la  legge  ordinaria  vi sostituisse
 comunque un organo giudicante che conservasse quel nome ..³
    La chiara erroneita'  di  questa  tesi  emerge  dalla  sua  stessa
 enunciazione,   perche'   in   estrema  ipotesi,  se  questa  venisse
 accettata,  il  legislatore  ordinario  potrebbe   anche   sostituire
 all'Istituto  soppresso un giudice monocratico senza violare in alcun
 modo l'art.  111  e  senza  alcun  riguardo  alla  proporzione  delle
 garanzie  giurisdizionali  offerte  finora al ricorrente nel giudizio
 pensionistico, rispetto alla  pesante  limitazione  del  ricorso  per
 cassazione.
    Significativo  e'  inoltre  il  raffronto  che si puo' fare tra il
 nuovo ridotto assetto organizzativo della Corte dei conti e quello di
 tutti gli altri organi di "giurisprudenza superiori".
    Non vi e' alcun dubbio infatti che la soppressa  Corte  dei  conti
 (quella del t.u. del 1934 e dell'art. 111 della Costituzione) era nel
 novero delle "giurisdizioni superiori".
    A tal proposito bisogna tener presente che l'art. 4 del r.d.l. 27
 novembre  1933,  n.  1578 (convertito nella legge 22 gennaio 1934, n.
 36) elenca gli organi di "Giurisdizione superiore" (davanti ai  quali
 possono patrocinare soltanto gli avvocati iscritti all'albo speciale)
 comprendendovi  oltre la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato e
 la  Corte  dei  conti,  anche  il  tribunale  superiore  della  acque
 pubbliche,  che  giudica,  secondo i casi, con cinque o sette votanti
 (art. 142 del t.u. 11 dicembre 1993, n. 1775)  il  tribunale  supremo
 militare  che  giudica  sempre  con sette votanti (art. 44 del r.d. 9
 aprile 1941, n. 1022)  e  la  commissione  tributaria  centrale,  che
 giudica  in  sezioni composte di cinque membri (art. 32 del r.d.l. 7
 agosto 1936, n. 1639).
    Tra tutti questi organi un posizione di evidente preminenza  (dopo
 la  Corte  suprema) era attribuita al Consiglio di Stato e alla Corte
 dei conti in quanto anche prima della Costituzione le loro  decisioni
 erano  le  uniche  sottratte al ricorso per Cassazione, benche' i due
 istituti si pronunciassero in unico grado in evidente  considerazione
 della loro particolare organizzazione interna.
    Ma  l'esclusione  del riesame della Corte suprema non e' stata mai
 (almeno  fino  alla  conversione  in  legge  del  decreto  impugnato)
 sottovalutata  in  dottrina  o  nel  diritto positivo, e i giudizi in
 materia di giustizia  amministrativa  sono  stati  sempre  circondati
 dalle  necessarie  garanzie,  specialmente  con l'ampia collegialita'
 degli organi giudicanti.
    Oggi pero' la Corte dei conti  non  solo  ha  perduto  quella  sua
 tradizionale  posizione  di  preminenza  (condivisa  col Consiglio di
 Stato) rispetto agli altri organi di giurisdizione superiore,  ma  ha
 perduto  anche  i  connotati  che  la  facevano annoverare tra questi
 organi.
    E la perdita di questi connotati non e' un fatto irrilevante nella
 logica del sistema, perche', come gia' si e' accennato,  ancor  prima
 della Costituzione repubblicana le caratteristiche che conferivano ai
 due  organi  di  giustizia  amministrativa il rango di "giurisdizione
 superiore" erano anche la garanzia con cui veniva compensata in  modo
 soddisfacente la grave limitazione del ricorso per cassazione.
    Inoltre  se  si  volesse, per assurdo, ritenere legittima la nuova
 ridotta organizzazione centrale della Corte dei conti (rifiutando  la
 tesi  veridica  secondo  cui  l'art.  111  presuppone  essenzialmente
 l'organizzazione dell'Istituto delineata  dall'art.  4  del  t.u.  n.
 1214/1934)   si   dovrebbe   spiegare   in   base  a  quele  criterio
 (irreperibile)  si  troverebbero  collocati  sullo  stesso  piano  il
 Cosiglio  di  Stato ed i tre sparuti collegi centrali della Corte dei
 conti consistenti (come si e' detto) nelle due sezioni che  giudicano
 in  appello con soli tre votanti (e che percio' potrebbero al massimo
 essere equiparate a sezioni di Corte d'appello)  e  le  c.d.  sezioni
 riunite  (di cinque votanti) la cui composizione collegiale raggiunge
 appena quella di una  sezione  separata  della  soppressa  Corte  dei
 conti.
    Appare  quindi  evidente  che  tra  i due istituti non esiste piu'
 alcun punto di equiparabilita' (nella composizione  collegiale  delle
 sezioni  giurisdizionali  o  del  massimo  organo  di  adunanza delle
 sezioni stesse) ai fini dell'applicabilita' del riportato art. 111.
    E  piu'  paradossale  diventa  il  raffronto,  se, in coerenza con
 l'erronea tesi "nominalistica"  si  assume  come  decisiva  la  falsa
 denominazione  data  ai  nuovi  tribunali  periferici,  come "sezioni
 regionali della  Corte  dei  conti",  per  cui  l'art.  111  andrebbe
 applicato  anche  alle decisioni di questi tribunali (³³³) davanti ai
 quali  sono  ammessi  a  patrocinare  non  solo  gli   avvocati   non
 cassazionisti  ma  anche  i procuratori legali (art. 6, quinto comma,
 del decreto impugnato).
    Se invece si considera l'altro corno del dilemma  e  si  riconosce
 che  l'art. 111 in esame non puo' riferirsi alle decisioni delle c.d.
 sezioni della Corte  dei  conti  (per  tutte  le  considerazioni  che
 precedono)  allora  deve  ammettersi  che  il riferimento fatto dallo
 stesso art. 111 all'istituto anzidetto non ha piu' alcun  significato
 reale,  ne'  alcuna ulteriore efficacia per la parte che si riferisce
 alla  medesima  Corte  dei  conti  e  che  quindi  la  citata   norma
 costituzionale si dovrebbe ritenere parzialmente abrogata per effetto
 della  legge  ordinaria  ..  (³³³);  cosicche'  non  sarebbe  piu' la
 Costituzione  a  regolare  l'operato  del  legislatore  ordinario  ma
 sarebbe   quest'ultimo   a   regolare   gli   effetti   del   dettato
 costituzionale³³³
    Questo e' il dilemma che si presenta con le norme impugnate e  che
 ne  impone  la declaratoria di illegittimita' costituzionale: tertium
 non datur.
    In conclusione la questione della legittimita' costituzionale  che
 si solleva, riguarda le norme seguenti:
       a) l'art. 1, quinto comma, del d.P.R. 12 novembre 1993, n. 453,
 e  della  relativa  legge  di  conversione 14 gennaio 1994, n. 19, in
 quanto  ammette  l'appello  per  la  sola  "materia  di  contabilita'
 pubblica"  e  non anche per quella delle "pensioni" (artt. 3, 36, 38,
 125, secondo comma, della Costituzione);
       b) lo stesso art. 1 (quinto, settimo e ottavo comma) in  quanto
 tale  norma  da  una  parte  sopprime tutte le sette sezioni centrali
 della Corte dei conti  competenti  in  materia  di  pensione  (ottavo
 comma)  e  dall'altra  parte  riduce  (da cinque a tre) il numero dei
 votanti delle residue  due  sezioni  centrali  (quinto  comma)  senza
 prevedere la sopravvivenza di alcune sezioni (di cinque votanti) come
 giudici   di   appello   nella   materia   delle   pensioni  e  della
 responsabilita':  sezioni  di  numero  adeguato  per  consentire   la
 legittima  composizione  collegiale  delle  sezioni riunite che, come
 piu' volte e' stato detto, con il  comma  settimo  citato,  e'  stato
 ridotto  da  undici  a  cinque votanti (art. 111, ultimo comma, della
 Costituzione, in relazione all'art. 4 del t.u.  12  luglio  1934,  n.
 1214).
    Sulla  rilevanza  della  proposta  questione  si  osserva che essa
 risulta evidente per quanto riguarda  il  quinto  comma  dell'art.  1
 citato,  nella  parte  in  cui  ammette l'appello "limitatamente alla
 materia di contabilita' pubblica" e non anche per  la  materia  delle
 pensioni.  Infatti  il  riconoscimento  dell'illegittimita' di questa
 limitazione renderebbe senz'altro ammissibile l'appello.
    Rilevante  e'  inoltre  la  questione  dell'illegittimita'   della
 ridotta  composizione  collegiale  delle  due  sezioni centrali della
 Corte dei conti sopravvissute alla legge di soppressione,  in  quanto
 se  tale  illegittimita'  viene  riconosciuta,  si rende evidente che
 l'appello non era proponibile a una di quelle sezioni (stante la loro
 illegittima composizione) mentre  la  contemporanea  declaratoria  di
 illegittimita'  dell'ottavo  comma  che  ha  soppresso tutte le altre
 sezioni centrali dell'istituto (competenti in materia  pensionistica)
 comporterebbe  la  necessaria  sopravvivenza  delle  sezioni stesse e
 quindi la piena ammissibilita'  dell'appello  proposto  davanti  alla
 terza sezione centrale legittimamente costituita e tuttora competente
 in materia di pensioni civili.
    L'unica    questione    non   direttamente   rilevante   ai   fini
 dell'ammissibilita' dell'appello e' quella che concerne l'illegittima
 riduzione del collegio delle sezioni riunite (settimo comma cit.)  ma
 tale  questione  si  impone  inevitabilmente nel presente giudizio di
 costituzionalita', sia perche'  nel  verificare  l'annientamento  dei
 presupposti   dell'art.   111   non   puo'  essere  ignorato  che  la
 tradizionale ampia collegialita' delle  sezioni  riunite,  unitamente
 alla  tradizionale  consistente composizione collegiale delle sezioni
 centrali,  costituiva  il  complesso  delle  garanzie   destinate   a
 compensare la grave limitazione del ricorso in cassazione, sia per un
 evidente  corollario  in  quanto una volta affermata l'illegittimita'
 della  soppressione  e  della  riduzione  collegiale  delle   sezioni
 centrali (che tornerebbero quindi a giudicare con cinque votanti) non
 e'  piu'  concepibile  di "conseguenza" (art. 27 della legge 11 marzo
 1953, n. 87) che il massimo collegio dell'istituto  abbia  la  stessa
 composizione collegiale di una solo sezione.
    Tanto  premesso,  la ricorrente ha chiesto: in via preliminare che
 siano trasmessi gli atti alla Corte costituzionale per  la  decisione
 sulla  proposta  questione  di  costituzionalita' e, subordinatamente
 all'accoglimento     dell'eccezione     sollevata,     l'accoglimento
 dell'appello  col  riconoscimento  del  diritto alla chiesta pensione
 privilegiata indiretta oltre interessi, e rivalutazione.
    L'Ente Poste si e' costituito  in  giudizio  tramite  l'Avvocatura
 generale  dello  Stato,  che  con  memoria  ha  chiesto  pronuncia di
 inammissibilita'  del  ricorso,  previa  dichiarazione  di  manifesta
 infondatezza    della    sollevata    questione    di    legittimita'
 costituzionale,   con   richiamo   delle   decisioni   della    Corte
 costituzionale nn. 52/1984, 69/1982, 62/1981, 117/1973 e 1/1970.
    All'odierna pubblica udienza gli avvocati Petrucci e Fonzi, per la
 ricorrente,   hanno  ribadito  le  considerazioni  e  richieste  gia'
 esposte, non senza riferirle anche all'art. 3  del  d.l.  29  aprile
 1994, n. 262.
    La   difesa  dell'Ente  Poste  ha  insistito  nella  richiesta  di
 inammissibilita'del gravame.
                             D I R I T T O
    1. - La signora Mazziotti  Maria  ha  proposto  appello  a  questa
 sezione  giurisdizionale della Corte dei conti avverso la sentenza 13
 gennaio 1994, n. 16, emessa in  materia  pensionistica  civile  dalla
 sezione   giurisdizionale   per   la   regione  Lazio,  istituita  in
 applicazione del d.l. 15 novembre 1993,  n.  453,  convertito  nella
 legge 14 gennaio 1994, n. 19.
    L'appello in questione e' certamente inammissibile alla luce della
 attuale  normativa,  la  quale non prevede, avverso le sentenze delle
 neo  istituite   sezioni   giurisdizionali   regionali   in   materia
 pensionistica,   la   esperibilita'  di  alcun  mezzo  di  gravame  e
 segnatamente dell'appello alla Corte dei Conti in sede centrale.
    2. - Di cio' consapevole, la ricorrente ha sollevato questione  di
 legittimita'  costituzionale della normativa introdotta con il citato
 d.l. e con la relativa legge di conversione, nella parte in cui  non
 e'  stata  prevista  la  esperibilita'  del suddetto mezzo di gravame
 contro le pronunce aventi ad oggetto  pretese  pensionistiche  di  ex
 pubblici  dipendenti civili gia' di competenza, in unico grado, prima
 della novella legislativa, di  questa  sezione  adita,  la  quale  e'
 ancora  operante in sede centrale in via transitoria, e lo sara' fino
 a quando non saranno entrate in funzione tutte le sezioni  decentrate
 a livello regionale.
    Dall'esame  della dedotta questione di legittimita' costituzionale
 deve tuttavia essere escluso,  ad  avviso  della  sezione,  il  punto
 riguardante  la riduzione del collegio delle sezioni riunite (art. 1,
 settimo comma, della legge) che non appare direttamente rilevante  ai
 fini dell'eventuale prosecuzione dell'instaurato giudizio d'appello.
   3.  -  Ai fini della disamina, nei limiti indicati, della questione
 di legittimita' costituzionale,  ci  si  deve,  preliminarmente,  dar
 carico,  ex  officio,  del  problema attinente alla legittimazione di
 questa sezione a procedere all'esame della prospettata  questione  ed
 alla sua eventuale remissione alla Corte verificatrice.
    Cio'  in  quanto  potrebbe  dubitarsi  della  sussistenza  di  una
 situazione legittimamente la sezione adita a procedere alla  suddetta
 disamina, in considerazione della circostanza che funzioni di giudice
 di  appello  avverso pronunce, ancorche' in materia diversa da quella
 pensionistica, emesse  dalle  nuove  sezioni  regionali,  sono  state
 affidate  esclusivamente alle sezioni prima e seconda della Corte dei
 conti in  sede  centrale;  sicche'  soltanto  una  di  dette  sezioni
 potrebbe  essere  considerata  legittimata  all'esame della sollevata
 questione.
    Questo problema, a ben riflettere, in definitiva si traduce in una
 valutazione  afferente  al  giudizio  di rilevanza della questione di
 costituzionalita'  davanti  al  giudice   a   quo,   sicche'   appare
 indispensabile  la  sua soluzione in via preliminare rispetto ad ogni
 altra questione.
    Al riguardo, sembra potersi ragionevolmente  ritenere  che  questa
 sezione  adita  abbia  piena legittimazione a procedere alla suddetta
 disamina per le ragioni che seguono.
    La considerazione di fondo dalla quale occorre partire  e'  quella
 secondo  la quale, nell'ordinamento precedente alla istituzione delle
 sezioni giurisdizionali regionali, questa  sezione  della  Corte  dei
 conti   rivestiva  la  qualifica,  ed  esercitava  la  corrispondente
 funzione, di giudice unico del contenzioso pensionistico pubblico dei
 dipendenti civili dello Stato e di  quelli  iscritti  alle  casse  di
 previdenza  amministrate  dalla  direzione generale degli istituti di
 previdenza del Ministero del tesoro; funzione  giustiziale  che,  sia
 pure  in modo limitato, la sezione medesima nella attualita' continua
 a svolgere e svolgera' fino al 1$ gennaio 1995, o, comunque,  fino  a
 quando non sara' entrata in funzione l'ultima sezione giurisdizionale
 periferica,  con la conseguenza che questa sezione sara', solo allora
 e da quel momento, soppressa.
    La    suindicata     competenza     funzionale,     riconosciutale
 dall'ordinamento  generale  ed  ancora  operante,  sia  pure  in fase
 transitoria, legittima l'adita sezione alla  valutazione,  nella  sua
 perdurante  qualita' di giudice del contenzioso pensionistico civile,
 della prospettata questione di legittimita' costituzionale. Che  anzi
 e'  a  dirsi  che  difficilmente  potrebbe  ravvisarsi una competenza
 funzionale delle  sezioni  prima  e  seconda  ad  occuparsi  di  tale
 problematica,  non potendosi ravvisare in nessuna delle due un valido
 titolo di legittimazione nella sola circostanza d'essere  giudice  di
 secondo  grado  rispetto  alle  neo  istituite  sezioni  periferiche,
 giacche' la materia rientrante nel relativo contenzioso e' del  tutto
 avulsa  da  quella attinente al rapporto pensionistico dei dipendenti
 civili da pubbliche  amministrazioni.  E,  sotto  altro  aspetto,  la
 conferma  della suddetta legittimazione della adita sezione si ha, ex
 adverso, considerando che l'eventuale risoluzione in  senso  positivo
 della  dedotta  eccezione  di  legittimita' costituzionale porterebbe
 alla  inevitabile  conclusione  della  sopravvivenza  della   sezione
 medesima  a livello centrale come naturale giudice di appello avverso
 le sentenze emesse dagli organi giurisdizionali periferici in materia
 di pensioni civili.
    E neanche puo' ritenersi validamente prospettabile la tesi secondo
 cui questa sezione sarebbe carente di legittimazione,  in  quanto  le
 pronunce  da sottoporre al regime dell'appello, e dunque anche quella
 ora  appellata,  promanerebbero  da  sezioni   giurisdizionali   che,
 ancorche'   operanti   in  sede  decentrata,  sarebbero  equiordinate
 rispetto alla terza  sezione  o,  piu'  in  generale,  rispetto  alle
 sezioni   giurisdizionali   centrali   della   Corte.   Di   qui   la
 impossibilita' di configurare, nella posizione della  terza  sezione,
 quel livello funzionale superiore rispetto alle neo istituite sezioni
 regionali,  che  solo  potrebbe  giustificare il rimedio appellatorio
 avveso le pronunce dei primi giudici.
    Tale tesi non appare condivisibile.
    Essa  e',  in  primo luogo, contraddetta dal dato formale, secondo
 cui il legislatore ha gia' previsto  la  proponibilita'  dell'appello
 davanti  a  sezioni centrali della Corte (prima e seconda) in materia
 di "contabilita' pubblica" e, tra l'altro, in una  composizione  (tre
 componenti  del  collegio)  identica  a  quella  dei  nuovi organismi
 periferici.
    Ma indipendentemente da tale considerazione, che pure  e'  di  per
 se'  risolutiva  ed  assorbente, deve osservarsi che nell'ordinamento
 processuale generale, di qualsiasi tipo di processo (civile,  penale,
 amministrativo,  tributario),  il  rapporto  tra giudici periferici a
 competenza territorialmente limitata e giudici centrali a  competenza
 sull'intero  territorio  nazionale  e' sempre di carattere funzionale
 attinente ad un rapporto  di  sovraordinazione  del  secondo  livello
 (quello centrale) sul primo (quello periferico). Ne' sono ravvisabili
 motivi  che  facciano dubitare della validita' di detto principio per
 quanto concerne il contenzioso pensionistico pubblico. E neppure  as-
 sume  rilievo  alcuno  la  circostanza  che la sentenza ora appellata
 davanti a  questa  sezione  provenga  dalla  sezione  giurisdizionale
 operante  a  Roma,  attesa  la  competenza di questa territorialmente
 limitata alla regione Lazio,  con  la  conseguenza  della  esistenza,
 nella  specie,  di  quel  rapporto  di  sovra-sotto  ordinazione  che
 giustifica la  eventuale  proponibilita'  del  mezzo  di  gravame  in
 questione.
    In conclusione, pertanto, sembra potersi affermare con sufficiente
 attendibilita'  che  la  sezione  abbia  legittimazione  e titolo per
 procedere alla disamina della prospettata questione  di  legittimita'
 costituzionale  della  normativa  introdotta  dalle  citate fonti, in
 rapporto  alla   complessa   problematica   del   doppio   grado   di
 giurisdizione nella materia pensionistica.
    4. - Le considerazioni innanzi svolte inducono, dunque, a ritenere
 sussistente  la  rilevanza  della  dedotta  questione di legittimita'
 costituzionale agli effetti della  eventuale  ulteriore  prosecuzione
 dell'instaurato giudizio di appello.
    L'esame   deve,  pertanto,  essere  portato  sulla  non  manifesta
 infondatezza della questione stessa. La quale va esaminata, in  primo
 luogo,  in  rapporto  alla  problematica  rappresentata dal dubbio se
 esista, come principio di rango costituzionale, desumibile  dall'art.
 125,  secondo  comma  della  Costituzione,  quello  secondo  il quale
 sussisterebbe un vincolo per il legislatore ordinario  ad  assicurare
 in ogni caso il doppio grado di giurisdizione a tutte le controversie
 di  competenza  di  un  giudice amministrativo, comune o speciale che
 esso sia.
    Tale dubbio e' stato risolto in sede dottrinaria  e  dalla  stessa
 Corte  verificatrice  nel  senso  che  non  puo' ritenersi sussunto a
 livello costituzionale il suddetto  principio  del  doppio  grado  di
 giurisdizione.   L'art.   125,  secondo  comma,  della  Costituzione,
 infatti, nel prevedere che il legislatore dovesse istituire organi di
 giustizia amministrativa in ciascuna regione, non ha cristallizzato a
 livello costituzionale il principio del doppio grado,  non  potendosi
 neanche  ritenere,  a  questo riguardo, sufficiente la esplicitazione
 contenuta nel testo del citato articolo  della  locuzione  "di  primo
 grado",  che,  per  implicito, farebbe supporre necessario un secondo
 grado  di  giudizio.  La  piu'  corretta  interpretazione  del  testo
 costituzionale   e'   generalmente   nel  senso  che  il  legislatore
 costituente  non  avrebbe  inteso  vincolare  in modo assoluto quello
 ordinario alla introduzione del doppio grado di giurisdizione, ma  lo
 avrebbe  lasciato  arbitro  di  scegliere  la soluzione ritenuta piu'
 opportuna, pur in presenza della istituzione di organi decentrati  di
 giustizia  amministrativa  in  ciascuna  regione.  Ne' un particolare
 rilievo  significativo,   a   questo   proposito,   potrebbe   essere
 attribuito,  in  questa  ottica,  al fatto che il legislatore, con la
 legge 6 dicembre l971, n. l034, abbia optato per la  generalizzazione
 del criterio del doppio grado per tutte le controversie affidate alla
 cognizione dei tribunali amministrativi regionali.
    Peraltro   la   Corte   costituzionale,  con  sentenza  n.52/l984,
 dichiaro' infondata la questione della  inappellabilita'  in  materia
 pensionistica,  sollevata  anche  in  relazione all'art. 125, secondo
 comma, della Costituzione, non mancando, tuttavia, di  osservare  che
 "il  dispositivo della sentenza che la Corte sta per pronunciare, non
 puo' estendersi alle sentenze rese in prima istanza  dalle  istituite
 sezioni  regionali  giurisdizionali  della  Corte  dei  conti perche'
 oggetto  dell'incidente  sono  solo  le   decisioni   delle   sezioni
 giurisdizionali centrali della Corte". Cio' significa che la presente
 questione  di  legittimita costituzionale e' tuttora impregiudicata e
 meritevole di essere esaminata.
    5. - A tale fine la sezione ritiene di dover porre in rapporto  di
 stretta   connessione   logico-giuridica  la  disposizione  contenuta
 nell'art.  125,  secondo  comma,  della  Costituzione,   con   quelle
 contenute  negli  artt. 3, 111, 97 della Costituzione e di procedere,
 quindi, ad un esame congiunto dei principi da esse  desumibili,  agli
 effetti   della   deliberazione   della  non  manifesta  infondatezza
 dell'eccezione di costituzionalia'.
    Al riguardo, appare dunque necessario procedere  alla  valutazione
 della  conformita  ai principi costituzionali cui si e' innanzi fatto
 riferimento della nuova normativa sopra citata, sotto vari profili.
    5. a) Il primo profilo attiene al dubbio in  ordine  al  possibile
 contrasto che e' dato ravvisare tra le disposizioni che non prevedono
 l'esperibili'ta dell'appello avverso le sentenze emesse dalle sezioni
 giurisdizionali  regionali  della Corte in materia di pensioni civili
 (ed anche militari e di guerra, ovviamente, ma il problema  trascende
 l'ambito  del giudizio instaurato dalla ricorrente) e il principio di
 parita' di trattamento di cui all'art. 3  della  Costituzione,  avuto
 riguardo,   oltre  che  ai  profili  prospettati  nel  ricorso,  alla
 diversita' di disciplina normativa ordinaria tra le varie  situazioni
 soggettive  proprie  della  sfera  giuridica  dei pubblici dipendenti
 sottoposti alla giurisdizione amministrativa in senso  lato.  Mentre,
 infatti,  in  tutta  l'area  della  possibile  tutela giurisdizionale
 assicurata ai pubblici dipendenti e' garantito sempre il doppio grado
 di giurisdizione, soltanto  il  contenzioso  pensionistico  viene  ad
 essere   caratterizzato   da   una   scelta  legislativa  (sulla  cui
 ragionevolezza si dira' piu' oltre)  ancorata  all'opposto  principio
 dell'unicita'   di   grado   del   giudizio.  E,  si  badi,  non  con
 l'affidamento  delle  relative  controversie  ad  un  unico   giudice
 centralizzato,  che  avrebbe  potuto giustificare l'unicita' di grado
 della giurisdizione, bensi' con l'introduzione di un sistema in cui i
 giudizi sono stati affidati a sezioni periferiche, cioe' ad organi di
 giustizia   decentrata;   organi   cioe'   le   cui   pronunce   sono
 tradizionalmente,  e  del tutto logicamente, sottoposte al regime del
 riesame in un ulteriore grado di giudizio, secondo una secolare e mai
 smentita tradizione storico-giuridica. Desta, dunque, forti e fondate
 perplessita',  attinenti  al  possibile  contrasto  con il richiamato
 principio di parita' di trattamento,  una  normazione  ordinaria,  la
 quale  opera una discriminazione di mezzi di tutela giustiziale cosi'
 vistosa in  ordine  a  situazioni  soggettive  che,  pur  nella  loro
 differente  qualificazione in termini di diritti ed interessi e nella
 loro diversa rilevanza durante o dopo il servizio  attivo,  sono  pur
 sempre unificate dall'essere parti coessenziali di una unitaria sfera
 giuridica  protetta, non fosse altro per la radicata affermazione che
 qualifica la pensione come  la  naturale  proiezione,  per  il  tempo
 successivo  al  collocamento  a  riposo,  del  diritto soggettivo del
 pubblico dipendente alla retribuzione per il lavoro svolto.
    In altre parole  puo'  apparire  in  contrasto  con  il  principio
 costituzionale  di parita', ex art. 3 della Costituzione, in rapporto
 a quanto  disposto  dal  successivo  art.  125,  l'aver  previsto  un
 generalizzato doppio grado di giurisdizione per tutte le controversie
 tra   dipendenti   e   p.a,   con   esclusione   soltanto  di  quelle
 pensionistiche.   L'eliminazione,   attraverso   il   controllo    di
 costituzionalita',   di   tale  esclusione,  porrebbe  in  equilibrio
 giustiziale tutte le situazioni soggettive comunque riconducibili  al
 rapporto  di  impiego pubblico, tanto nella fase del servizio attivo,
 quanto in quella di quiescenza.
    5. b) Un secondo profilo di  possibile  incostituzionalita'  delle
 norme  limitative in esame, attiene alla ingiustificata disparita' di
 trattamento tra posizioni soggettive proprie dei pubblici  dipendenti
 ed   ex   dipendenti   nell'ambito   della   speciale   giurisdizione
 istituzionalmente affidata alla Corte dei conti.
    Mentre per le controversie di  competenza  della  Corte,  affidate
 alle  neo  istituite  sezioni  periferiche,  attinenti  ai giudizi in
 materia  di  contabilita'  pubblica  e  quindi   di   responsabilita'
 amministrativa  o  contabile, e' garantito ai soggetti interessati il
 doppio grado di giurisdizione, alle sole controversie  pensionistiche
 tale  garanzia  non e' assicurata; e cio' senza alcuna valida ragione
 concernente il tipo di giudizio o di organizzazione dell'apparato  di
 giustizia  cui appartiene lo stesso giudice, che giustifichi, sul pi-
 ano dell'equilibrio e della razionalita'  delle  scelte  legislative,
 quella  in concreto adottata dal legislatore con la legge n. 19/1994.
 Di qui  una  possibile  valutazione  in  termini  di  violazione  del
 principio  di parita' anche in rapporto al suindicato profilo interno
 all'area della giurisdizione della Corte dei conti.
    5. c) Un terzo non meno rilevante profilo di  possibile  contrasto
 tra   la   normativa   in  esame  e  il  sopra  richiamato  principio
 costituzionale di parita' di trattamento  e  di  divieto  di  operare
 ingiustificate  discriminazioni a livello legislativo, e' ravvisabile
 alla  luce  di  considerazioni  piu'  specificamente  attinenti  alla
 materia pensionistica.
    Se  si pone mente, sul piano generale, alla tutela giustiziale che
 l'ordinamento doverosamente assicura al lavoratore quando sia  venuto
 a  cessare il servizio attivo e subentri la situazione di quiescenza,
 si deve constatare che l'affidamento al giudice,  sia  ordinario  che
 amministrativo   comune,   nell'ambito   delle   rispettive  aree  di
 giurisdizione, e' oggi caratterizzato  dalla  costante  garanzia  del
 doppio grado di giurisdizione per il lavoratore collocato a riposo.
    Il  lavoratore  privato,  infatti,  gode istituzionalmente di tale
 garanzia per i principi propri che governano il processo civile,  sia
 ordinario  che del lavoro. Ma anche per quei pubblici dipendenti che,
 in virtu' della loro appartenenza a enti pubblici per i quali non op-
 era il meccanismo di devoluzione  della  giurisdizione  pensionistica
 alla  Corte dei conti, ricevono, anche sotto tale aspetto, tutela dal
 complesso organizzatorio t.a.r. - consiglio di Stato,  e'  assicurata
 dall'ordinamento     generale     del     processo     amministrativo
 l'esperibili'ta' dei mezzi di gravame  di  tipo  impugnatorio  e  tra
 questi,  fondamentalmente,  dell'appello  al giudice di secondo grado
 centralizzato.  Soltanto  nell'ambito  della  speciale  giurisdizione
 pensionistica  della Corte dei conti, e per la categoria dei pubblici
 dipendenti ad essa sottoposti, tale garanzia  non  c'e'.  Di  qui  il
 legittimo dubbio che, anche sotto l'indicato profilo, sia ravvisabile
 un contrasto tra la normativa vigente ed il fondamentale principio di
 parita'  di  trattamento,  questa  volta  riferito  al  confronto tra
 identiche posizioni soggettive sostanziali (il diritto al trattamento
 di quiescenza al  termine  del  servizio  attivo)  spettanti  a  piu'
 categorie  di  lavoratori,  per  i quali non e' dato ravvisare, sotto
 l'indicato  aspetto,  ragionevoli  differenziazioni  sostanziali   di
 situazioni  soggettive  protette,  atte a giustificare una diversita'
 cosi' profonda di garanzie di giustizia.
    6. La mancata previsione dell'appello in materia pensionistica  si
 pone altresi' in contrasto, ad avviso della sezione, con il secondo e
 terzo comma dell'art. 111 della Costituzione.
    La  prima  delle  indicate  disposizioni  ammette  il  ricorso  in
 cassazione per violazione di legge  avverso  tutte  le  sentenze  dei
 giudici  ordinari  o  speciali;  essa  e',  quindi, attributiva della
 funzione di "nomofilachia" alla Corte di cassazione, con  conseguente
 costituzionalizaazione  del  ruolo  ad  essa  assegnato  dall'art. 65
 dell'ordinamento giudiziario del 1941 (compito di assicurare l'esatta
 osservanza e l'uniforme interpretazione della legge).
    L'esclusione,  sancita  dal  terzo  comma  dell'art.  111,   della
 ricorribilita'  in  cassazione,  per  motivi  di  legittimita', delle
 decisioni  della  Corte  dei   conti,   costituisce,   peraltro,   il
 riconoscimento,  a livello costituzionale, della funzione anche della
 Corte dei conti come del Consiglio di Stato, di  difesa  del  diritto
 obiettivo   nel   proprio   ordine   di   competenze  giurisdizionali
 (contenzioso contabile e pensionistico).
    Ma tale finalita', commessa dal Costituente alla  Corte,  inerisce
 essenzialmente,  nel  sistema,  alla  collocazione costituzionale del
 giudice: al suo essere, cioe', giudice supremo nel proprio ordine  di
 giurisdizione.
    Questo    assetto,    regolato    costituzionalmente,   e'   stato
 completamente stravolto dalla novella del 1994, in quanto:
       a) la funzione di nomofilachia  attribuita  dalla  Costituzione
 alla  Corte  dei  conti  non  e' piu' configurabile con riguardo alle
 decisioni delle istituite sezione regionali, onde e' da ritenere  che
 la   prevista   soppressione  delle  sezioni  centrali  a  competenza
 pensionistica violerebbe l'art. 111, terzo comma, della Costituzione;
 orbene, la previsione del doppio grado eviterebbe il sorgere di  tale
 contrasto, in quanto continuerebbe a riservare alle sezioni centrali,
 quali  giudici  d'appello anche in materia pensionistica, la funzione
 di nomofilachia gia' attribuita dal Costituente alla Corte nella  sua
 configurazione centralizzata;
       b)  contro i provvedimenti decisori dichiarati inappellabili e'
 ammessa la ricorribilita' in cassazione per violazione di legge. Tale
 contemperamento (introdotto dalla Costituzione)  dell'esclusione  del
 doppio  grado  non  puo'  trovare  applicazione  nei  confronti delle
 sentenze rese dalle  istituite  sezioni  regionali  della  Corte  dei
 conti,  ostandovi  il  disposto  dell'art.  111,  terzo  comma, della
 Costituzione, con la  conseguenza  che  tali  organi  giurisdizionali
 vengono  a configurarsi, nel nostro sistema processuale, come l'unico
 giudice (per cio' che concerne la materia delle pensioni)  periferico
 di primo e di ultimo grado.
    I   delineati   contrasti   con   l'art.  111  della  Costituzione
 (istituzione di un giudice periferico di ultimo  grado;  eliminazione
 della  funzione  di nomofilachia, costituzionalmente garantita, anche
 in materia pensionistica,  alla  Corte  dei  conti  come  configurata
 dall'ordinamento  nel  suo precedente assetto centralizzato: v. disp.
 VI trans. della Costituzione) derivano dalla mancata  previsione,  da
 parte   del   legislatore   deI   1994,   dell'appello,   in  materia
 pensionistica, dalle sezioni  regionali  alle  sezioni  centrali  con
 competenza funzionale nella stessa materia.
    L'ammissione  di questo mezzo impugnatorio consentirebbe, infatti,
 di salvaguardare  l'opzione  costituzionale  (altrimenti  compromessa
 dalla novella del 1994) risultante dal combinato disposto del secondo
 e  terzo  comma  dell'art.  111  (ricorribilita'  in  cassazione  per
 violazione di legge derogabile solo con  riguardo  a  pronunce  rese,
 nell'ambito  delle  proprie  competenze  giudiziarie, da un organo di
 vertice).
    7. L'eccezione  di  illegittimita'  costituzionale  in  esame,  da
 ultimo,  deve  essere  esaminata  sotto  l'ulteriore  angolazione del
 possibile contrasto tra la normativa limitativa de qua e  i  principi
 costituzionali di ragionevolezza e di buon andamento della p.a., che,
 nella specie, devono essere congiuntamente presi in considerazione.
    La  domanda che ci si deve porre e' se risponda ad un qualsivoglia
 criterio di ragionevolezza e di logica giuridica,  collegata  ad  una
 razionale  organizzazione degli apparati pubblici anche di giustizia,
 prevedere l'affidamento di un determinato tipo di controversie ad  un
 giudice  periferico, decentrato a livello regionale, e non prevedere,
 contestualmente, la possibilita' di  appellare  le  sue  sentenze  al
 giudice  di  secondo  grado  che,  si  badi, non deve essere all'uopo
 istituito, ma gia'  esiste;  anzi  esiste  perche'  ha  esercitato  e
 continua  nell'attualita'  ancora ad esercitare, sia pure in funzione
 di giudice di unico grado a  livello  centralizzato,  proprio  quella
 determinata  funzione di giustizia, ora decentrata ai nuovi organismi
 periferici.
    In  altri  termini:  poiche'  nel  nostro  pur   cosi'   variegato
 ordinamento processuale non esiste un solo caso in cui le pronunce di
 un  giudice  periferico, vale a dire decentrato, rispetto al quale vi
 sia un livello superiore di organizzazione  funzionale  di  apparato,
 siano  sottratte  ad  ogni  mezzo  di  impugnativa (eccettuato quello
 esperibile in presenza del c.d. "straripamento di  potere"),  non  si
 vede  proprio  per  quale  ragione  una  simile stortura debba essere
 introdotta  per  il  contenzioso   pensionistico   di   istituzionale
 competenza della Corte dei conti.
    Cio'  premesso,  passando  alla  valutazione  della  questione  di
 legittimita' costituzionale in termini  piu'  strettamente  giuridici
 sotto il profilo suindicato, e' a dirsi che la scelta di riservare il
 regime  dell'unico  grado  di  giurisdizione  alle  sole controversie
 pensionistiche  appare  del  tutto  priva  di  ragionevolezza  ed  in
 contrasto  sicuro  con  il  principio  del  buon  andamento, che deve
 governare il regime  organizzatorio  degli  apparati  della  pubblica
 amministrazione intesa in senso lato.
    La  giurisprudenza  costituzionale ha piu' volte fatto riferimento
 al criterio di ragionevolezza delle scelte legislative come  criterio
 cardine  che  deve  muovere  ed  orientare  l'agire  del  legislatore
 ordinario. Siffatta ragionevolezza e' del tutto assente nella  scelta
 dell'affidamento  ad  un  giudice  periferico  di competenze di cosi'
 grande rilievo istituzionale, senza la contestuale previsione  di  un
 rimedio di tipo appellatorio avverso le sue pronunce, pur in presenza
 di  un  livello superiore di apparato giustiziale gia' specificamente
 competente nella medesima materia.
    La  irrazionalita'  della  scelta  effettuata  con  la   censurata
 normazione   ordinaria  fa  ritenere,  pertanto,  non  manifestamente
 infondata, anche sotto il profilo ora indicato, la relativa questione
 di costituzionalita', riconducibile, conclusivamente, alla violazione
 dei principi desumibili, congiuntamente,  dagli  artt.  3,  97,  111,
 secondo e terzo comma, e 125, secondo comma, della Costituzione.