IL PRETORE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza nel procedimento penale n.
 1363/1995 contro Giliberto Salvatore  e Caccamo Giorgio, imputati dei
 reati di  furto  aggravato  e  altro;  sulla  richiesta  dell'ufficio
 sanitario  della casa   circondariale di Giarre, trasmessa in data 22
 novembre 1995, avente ad oggetto: "Applicazione legge n. 222  del  14
 luglio  1993  nei confronti del detenuto Giliberto Salvatore, nato ad
 Ispica (Ragusa)  in  data  23  aprile  1959";  viste  le  informative
 richieste  all'ufficio  rogante  in data 24 novembre 1995 e da questo
 rese in data 6 dicembre 1995.
   1. - Va anzitutto ritenuto che la  competenza  a  provvedere  sulla
 richiesta,  attivata,  ai  sensi del richiamato primo comma dell'art.
 286-bis, dal servizio sanitario della casa circondariale  di  Giarre,
 dove  il  Giliberto  in atto trovasi in stato di custodia cautelare a
 seguito della sentenza di condanna pronunciata da questo pretore  nel
 giudizio  direttissimo  tenutosi  all'udienza  del  23  ottobre 1995,
 spetta  al  decidente,  atteso  che,  pur  in  presenza  di  rinuncia
 all'impugnazione da parte dell'imputato (trasmessa in data 5 dicembre
 1995),  non e' ancora decorso il termine di cui al combinato disposto
 degli artt.  585, primo comma, lett. b) e  secondo  comma  lett.  d),
 u.p.,  in  relazione  all'art.  544,  comma  secondo  del  codice  di
 procedura penale per l'appello del procuratore  generale  (avviso  di
 deposito  ed  estratto  della sentenza comunicati in data 17 novembre
 1995).
   2. - Tanto premesso nel rito e per venire al  caso  di  specie,  si
 osserva che l'art. 286-bis del codice di procedura penale, introdotto
 dall'art.  1 del d.-l. 14 maggio 1993, n. 139, convertito in legge 14
 luglio 1993, n. 222, costituisce norma di favore  nei  confronti  dei
 malati  di AIDS in stato di custodia cautelare, i quali si trovino in
 uno stadio di malattia tale da doversi ritenere incompatibile con  lo
 stato di detenzione.
   La  sussistenza  di  tale condizione, che comporta la remissione in
 liberta' dell'imputato ovvero l'applicazione nei suoi confronti della
 misura degli arresti domiciliari, e' dichiarata dal giudice nel  caso
 di  AIDS  conclamata  (c.d.  incompatibilita'  presunta),  ovvero  e'
 ritenuta  dal  giudice,  anche  se  non  ricorre  l'ipotesi  di  AIDS
 conclamata, nel caso di grave deficienza immunitaria.
   Con riguardo alla prima ipotesi cui, atteso il riferimento all'AIDS
 conclamata,  sembra  riferirsi la richiesta in esame, va aggiunto che
 la decisione del giudice  deve  conformarsi  a  criteri  e  parametri
 prefissati  (che  sono  quelli stabiliti, ai sensi del secondo comma,
 u.p. della norma in esame, con decreto  emanato  dal  Ministro  della
 sanita' di concerto con quello di grazia e giustizia).
   3.  -  Poiche' il tenore della richiesta, pur nella sua genericita'
 ("applicazione della legge n. 222 del 14 luglio 1993"), non puo'  che
 riguardare  l'escarcerazione del Giliberto (il cui "caso" si "ritiene
 (...) rientri tra quelli dell'art. 1 del d.-l.  14  maggio  1993,  n.
 139"  - cosi' testualmente la richiesta del sanitario), e' d'uopo, ai
 fini della  presente  pronuncia,  prendere  le  mosse  dalla  recente
 sentenza  n.  439  del  18  ottobre  1995,  con  la  quale  la  Corte
 costituzionale   ha   dichiarato   "l'illegittimita'   costituzionale
 dell'art. 286-bis, primo comma, del codice di procedura penale, nella
 parte  in  cui stabilisce il divieto di custodia cautelare in carcere
 (...) anche quando sussistono le esigenze  cautelari  di  eccezionale
 rilevanza  di  cui  all'art. 275, quarto comma (...) e l'applicazione
 della misura possa avvenire  senza  pregiudizio  per  la  salute  del
 soggetto e di quella degli altri detenuti".
   La  sentenza,  la quale utilizza gli stessi parametri argomentativi
 svolti nella sentenza n. 438 resa in pari data (e  con  la  quale  e'
 stata  dichiarata l'incostituzionalita' in parte qua, della parallela
 norma di cui all'art. 146 del codice penale), muove, nella  sostanza,
 da una revisione critica di precedenti pronunce di rigetto (cfr.  per
 tutte,  le  sentenze  n.  70/1994  e  n.  308/1994),  le  quali,  pur
 ammettendo   la   gravita'   dei   rilievi   mossi   dai   remittenti
 (principalmente  in ordine al pericolo per la sicurezza pubblica e la
 incolumita' delle persone, proveniente da soggetti nei confronti  dei
 quali  la norma in questione finirebbe sostanzialmente per introdurre
 una  "clausola  d'immunita'"  che   priva   detti   soggetti   "della
 soggettivita' penale" - cosi' il tribunale di Torino, nelle ordinanze
 di remissione del 15 e 22 dicembre 1992 - e in ordine alla disparita'
 di  trattamento  con  altri soggetti in custodia pur affetti da gravi
 patologie  diverse  dall'AIDS),  tuttavia  non  avevano  ritenuto  di
 ravvisare  alcuna  ipotesi  di  eccesso  normativo.   Nelle ricordate
 pronunce, infatti, la Corte delle leggi aveva escluso,  con  riguardo
 al  primo  profilo,  che  "l'eventuale  lacunosita'  dei  servizi  di
 sicurezza" potesse "costituire, in se' e per se', ragione sufficiente
 per incrinare la tutela dei valori primari che la norma impugnata  ha
 inteso salvaguardare" e, cioe', "il bene della salute nello specifico
 contesto  carcerario" e aveva aggiunto che "qualora la norma in esame
 fosse ritenuta non conforme ai principi costituzionali  per  il  solo
 fatto  che  dalla  sua  applicazione  possano  in concreto scaturirne
 situazioni  di  pericolosita'  per  la   sicurezza   collettiva,   ne
 conseguirebbe  che  all'esecuzione  della pena verrebbe assegnata, in
 via esclusiva, una funzione  di  prevenzione  generale  e  di  difesa
 sociale,   obliterandosi   in  tal  modo  quella  eminente  finalita'
 rieducativa (...) che certo informa anche l'istituto del  rinvio  che
 qui viene in discorso" (cosi' la sentenza n. 70/1994).
   Con  riguardo  al  secondo profilo aveva osservato la Corte che non
 poteva ravvisarsi alcuna "discriminazione (...) tra malati ''comuni''
 e persone affette da  AIDS,  in  quanto  le  caratteristiche  affatto
 peculiari  che contraddistinguono quest'ultima sindrome adeguatamente
 giustificano un trattamento particolare,  che,  giova  ribadirlo,  si
 incentra sulla necessita' di salvaguardare il bene della salute nello
 specifico  contesto  carcerario:  una  finalita',  dunque, eterogenea
 rispetto ad altre gravi malattie" (argomento questo utilizzato  anche
 per  escludere l'ipotizzato contrasto con gli artt. 27, terzo comma e
 32, primo  comma,  della  Costituzione  che  impongono  la  prova  in
 concreto  che  l'applicazione della pena lede il fondamentale diritto
 alla  salute  o  si  risolva  in un trattamento contrario al senso di
 umanita').
   4. - Va da se' che la norma sottoposta a  revisione  costituzionale
 (e,   dunque,   lo   stesso  presupposto  argomentativo  dei  giudici
 remittenti e delle sentenze  di  rigetto  della  Corte)  non  avrebbe
 ragione  di  esistere  se,  come  e' stato osservato e come ha, nelle
 stesse sentenze richiamate, piu' volte auspicato la stessa Corte, gli
 istituti carcerari fossero, anzitutto, dimensionati e adeguati, oltre
 che alle esigenze custodiali, anche alla popolazione carceraria e  ai
 principii  di  civilta'  che  esigono il trattamento umanitario delle
 persone soggette a restrizione della liberta' personale, e, per  cio'
 che  riguarda  il problema che ci occupa, convenientemente attrezzati
 con l'istituzione delle strutture terapeutiche e ricettive  richieste
 dalla  gravita'  e  peculiarita'  della patologia conseguente a gravi
 malattie (compresa, naturalmente, quella derivante dalla infezione da
 HIV) e ai detenuti che ne sono affetti.
   Orbene, la Corte, con la sentenza del  18  ottobre  1995,  partendo
 dalla   constatazione   che   non   e'  stata  attivata  o  e'  stata
 inadeguatamente attivata l'"intera gamma di presidi e provvidenze che
 nei confronti dei malati di AIDS erano stati previsti dalla  legge  5
 giugno  1990,  n.  135  e  dallo  stesso  d.-l. n. 139 del 1993", ha,
 innovando rispetto alle precedenti decisioni, ora  ritenuto  che  "la
 custodia  cautelare  in  carcere  sembra  (...)  adottabile anche nei
 confronti delle persone che versino in condizioni di incompatibilita'
 con la misura carceraria", sia  pure  nella  sola  ipotesi,  prevista
 dall'art.  275,  quarto  comma,  del codice di procedura penale, come
 sostituito dell'art. 5 della legge 8 agosto 1995, n. 332, vale a dire
 "allorche'  esigenze  cautelari  di  eccezionale  rilevanza  facciano
 ritenere  inadeguata  ogni  altra  misura",  non  senza raccomandare,
 "ovviamente,  l'attivazione  (...)    di  tutti  gli   istituti   che
 l'ordinamento  prevede  al  fine  di  assicurare il fondamentale bene
 della salute" nei confronti dei soggetti considerati.
   5. - Va qui subito detto che, in ogni caso, siccome  risulta  dallo
 stesso  dato  testuale  offerto dall'art. 286-bis, primo comma, u.p.,
 l'insussistenza dell'"eccezionale rilevanza", non fa venir meno  tout
 court  l'esigenza della custodia fuori dall'ambito carcerario. Ma, se
 questo e'  vero,  e'  altresi'  vero  che  continua  a  rimanere,  in
 concreto,  assai  ardua  l'attuazione di presidi e cautele in tema di
 arresti domiciliari, specie nei confronti di persone che  hanno  gia'
 superato,   a   seguito  dell'accertata  patologia,  ogni  remora  al
 compimento di reati per una  sorta  di  sindrome  da  "non  ritorno",
 tipica  di chi ritiene di aver piu' nulla da perdere, non solo per la
 prognosi infausta, ma anche per la certezza di non  dover  subire  la
 restrizione  della liberta' in carcere (per cui, come la stessa Corte
 rileva, ogni misura alternativa a  quella  carceraria,  nei  casi  in
 esame,  mancando  "la  volonta'  adesiva di chi vi e' sottoposto", ha
 "finito per atteggiarsi alla stregua di  un  provvedimento  meramente
 liberatorio,  senza  alcuna concreta possibilita' di coercizione"). A
 prescindere da cio', resta, in ogni caso,  da  vedere  in  qual  modo
 possa  conciliarsi  il  concetto  (e la finalita') della norma di cui
 all'art. 286-bis, che prescrive l'incompatibilita' tra la patologia e
 la misura carceraria (sul punto non vulnerata da incostituzionalita')
 con il mantenimento della misura
  ... incompatibile.
   In  effetti,  la  sussistenza  dell'eccezionale rilevanza, stando a
 quanto  si  ricava  dal  dictum  della  Corte,  non  fa  venir   meno
 l'incompatibilita',  ma, cio' nonostante, fa si che essa divenga, per
 necessita' di cose e  in  casi  particolari,  compatibile.  In  altri
 termini,  solo  la  presenza  di  esigenze  cautelari  di eccezionale
 rilevanza  sembra  far  si  che  il  giudice  possa  procedere   alla
 comparazione  tra  le  necessita' custodiali e la salute del malato e
 degli altri detenuti.
   Insomma, rimane  da  vedere  in  qual  modo  possa  conciliarsi  il
 concetto  (e  la  finalita')  della  norma  che  introduce  una sorta
 d'incompatibilita'  "a  priori"  tra  la  patologia   e   la   misura
 carceraria,  con  il  mantenimento della carcerazione. Invero, non e'
 chi non veda come il concetto stesso di incompatibilita' implichi  di
 per  se'  un  pregiudizio  per  la salute del soggetto e quella degli
 altri detenuti (essendo, il pregiudizio, presunto dalla  malattia  in
 se')   e   dovrebbe   valere   ad   escludere  ogni  possibilita'  di
 bilanciamento con le ipotizzate "esigenze  cautelari  di  eccezionale
 rilevanza",  le  quali,  peraltro, gia' erano previste dall'art. 275,
 quarto comma, utilizzato dalla sentenza  al  fine  di  emendare    la
 portata  della  norma  soggetta  a  revisione  costituzionale.   Tali
 esigenze devono, infatti, in ogni caso valutarsi fin dal  momento  in
 cui  la misura viene "disposta", in tutti i casi in cui l'imputato si
 trovi "in condizioni di salute   particolarmente gravi  incompatibili
 con  lo  stato  di  detetenzione  e  comunque  tali da non consentire
 adeguate
  cure in caso di detenzione in carcere" (cosi',  l'art.  275,  quarto
 comma,  inizialmente  modificato  dall'art. 1 del  d.-l. n. 292/1991,
 convertito nella legge  n.  356/1991,  come  sostituito,  da  ultimo,
 dall'art.  5, secondo comma, della legge 8 agosto 1995, n. 332).
   Per la verita', la norma predetta, nella sua ultima stesura (che, a
 quanto  pare,  risente  degli  indirizzi  e  delle  istanze che hanno
 portato all'emanazione dell'art. 286-bis), contiene gia'  in  se'  il
 germe  dell'equivoco,  laddove,  a  differenza  di quanto avveniva in
 precedenza, ammette il mantenimento della custodia in  carcere  anche
 quando  questa  sia  "incompatibile" con le condizioni di salute: una
 cosa  e',  infatti,  prevedere  (come  avveniva  in  precedenza)  una
 situazione  che,  in  concreto,  non  consente la cura in carcere, e,
 quindi,   implica   l'escarcerazione,   a   seguito    dell'accertata
 incompatibilita',  ai  soli  fini della cura e un'altra e' ipotizzare
 una situazione che presuppone una dicotomia per cosi' dire ontologica
 tra  due  soluzioni:  e,  cioe',   da   una   parte   la   necessita'
 dell'escarcerazione  per  l'assoluta incompatibilita' con la custodia
 in  carcere  comunque  attuata  e,  dall'altra,  la  necessita'   del
 mantenimento ultra vires del trattamento custodiale carcerario.
   Cio' che, comunque, continua a distinguere la norma di cui all'art.
 275,  quarto  comma  da  quella dell'art. 286-bis, e' il fatto che, a
 prescindere dalla dicotomia  supra  rilevata  (comune  ad  entrambe),
 mentre  nella  prima  l'escarcerazione  viene  prevista  a seguito di
 un'incompatibilita' accertata "in concreto" e "a posteriori", nonche'
 al solo fine della cura (e per il  periodo  imposto  dalla  terapia),
 ragione  per  cui  si  tratterebbe  di un'incompatibilita' pur sempre
 relativa e provvisoria,  nella  seconda  l'escarcerazione  -  esclusa
 (oggi)  la deroga costituita dalle "esigenze cautelari di eccezionale
 rilevanza" - viene imposta "a priori"  per  il  fatto  in  se'  della
 malattia,  a  prescindere  dalle  esigenze  terapeutiche e dalla loro
 attuabilita' in carcere. Corrispondentemente, il  mantenimento  della
 custodia in carcere, nel primo caso non si pone in termini antinomici
 con  l'incompatibilita'  (relativa), essendo escluso solo nel momento
 in cui l'emergenza terapeutica sia  talmente  impellente  da  rendere
 attuabili   e  relativamente  agevoli  (anche  per  la  temporaneita'
 dell'intervento e per l'obiettiva gravita' del male) le misure atte a
 tutelare le esigenze di tutela della  collettivita'  per  il  periodo
 strettamente  riservato  alla  cura,  mentre  nel  secondo  caso  non
 potrebbe  mai  conciliarsi  con  la  situazione  di  incompatibilita'
 costituita  dal  fatto  in  se' della malattia. Il che vale a maggior
 ragione nel caso in cui la malattia non e' soggetta (allo stato delle
 conoscenze scientifiche) a remissione, regressione o guarigione,  ma,
 viceversa,  e'  destinata ad aggravarsi sempre piu', come avviene nel
 caso dell'AIDS conclamata  (questa  che,  tuttavia,  finche'  non  si
 perviene allo stadio terminale, nonche' attenuare l'aggressivita' del
 malato,  ne  accentua  spesso,  come  s'e'  visto,  la  potenzialita'
 offensiva nei confronti del contesto sociale).
   6. - In definitiva, l'art. 286-bis, cosi' come  risulta  a  seguito
 della  sentenza  n.  439/1995,  assegna  al giudice di' merito il non
 agevole e, a sommesso parere del decidente, (allo  stato)  insolubile
 compito  di  risolvere,  sul  piano attuativo, un'anfibologia che non
 sembra offrire spazi di manovra, quanto meno sotto  l'aspetto  logico
 e,  quel che piu' conta, nell'ipotesi in cui non si ravvisi l'ipotesi
 di deroga all'escarcerazione, gli impone la  responsabilita'  di  una
 decisione  che, escludendo la tutela custodiale, esclude anche, nella
 sostanza la possibilita' di controllo su imputati ad alto rischio con
 prevedibili  conseguenze  estremamente  dannose,  non  solo  per   la
 societa', ma anche per gl'imputati medesimi.
   Inoltre,  superato  tale  primo  ostacolo, e' pur sempre necessario
 stabilire  se  ricorrano  le  "esigenze  cautelari   di   eccezionale
 rilevanza" che (costituendo il primo corno del dilemma) imporrebbero,
 sulla  scorta  della  decisione  della  Corte,  il mantenimento della
 custodia  altrimenti   vietata   dalla   conclamata   e   riaffermata
 incompatibilita'  "a priori", nonche', ulteriormente se non sussista,
 all'interno dell'istituzione carceraria, "pregiudizio per  la  salute
 del  soggetto  e  degli  altri  detenuti" (che costituisce il secondo
 corno del dilemma).
   Solo una volta esclusa la sussistenza di tali esigenze,  occorrera'
 ulteriormente  stabilire  se  escarcerare  puramente  e semplicemente
 l'imputato,  ovvero  disporre  nei  suoi   confronti   altre   misure
 coercitive, sia pure piu' attenuate rispetto a quella in carcere.
   7.  -  Tanto  premesso  sul  piano  metodologico, si osserva che le
 informative  assunte  presso  la  casa   circondariale   di   Giarre,
 consentono di ritenere che, tale istituto (cosi' come, a quanto pare,
 altre strutture carcerarie che, come quella di Giarre, dovrebbero pur
 essere  destinate  ai malati di AIDS), non e' dotato (stando a quanto
 riferisce il sanitario dott.  Sisali), di reparti ospedalieri tali da
 consentire la compatibilita' tra le condizioni di salute dei detenuti
 affetti da AIDS con le esigenze di custodia in carcere.
   Cio', tuttavia, alla luce della ricordata sentenza n. 439/1995, non
 e' piu' sufficiente a imporre l'escarcerazione.
   Invero,  l'emergenza  provocata  dalla  cronica  e costante mancata
 attuazione della legge, seppure non puo' giustificare  l'inosservanza
 della  legge  stessa,  non  puo'  neppure  giustificare il disinvolto
 superamento della  pronuncia  d'incostituzionalita'.  La  quale,  sul
 piano  logico,  non puo' che intendersi nel senso del venir meno - in
 presenza delle ricordate esigenze cautelari di eccezionale  rilevanza
 -  dell'incompatibilita'  assoluta  e "a priori" siccome inizialmente
 configurata dall'art.   286-bis del codice  di  procedura  penale  (e
 siccome,  del  resto, gia' presa in considerazione prima del d.-l. n.
 139/1993, come dimostra  la  circolare  del  Ministero  di  grazia  e
 giustizia  n.  3267/5717  in  data  3  giugno 1989, dove l'AIDS viene
 ritenuta una patologia tale da risultare "assolutamente incompatibile
 con il permanere del soggetto in stato carcerario").
   Comunque sia, la Corte, affermando  la  possibilita'  (rectius:  la
 necessita')  del  mantenimento  della  custodia  in carcere, sia pure
 nell'ipotesi  di  cui  all'art.  275,  quarto  comma,  ha,  in  buona
 sostanza,   ritenuto  che  non  sussista  piu'  una  incompatibilita'
 assoluta,  neppure  nelle  ipotesi  di  AIDS  conclamata  o  ad  esse
 assimilate.
   Tale incompatibilita' tuttavia permane, come s'e' visto, in assenza
 delle     condizioni     che,     a     seguito    della    pronuncia
 d'incostituzionalita', giustificano la deroga, visto che lo stato  di
 AIDS  conclamata  o  di  grave  deficienza  immunitaria  ritenuta dal
 giudice, continuano a costituire, in tal caso,  un  elemento  in  se'
 sufficiente   a  imporre  l'escarcerazione,  a  prescindere  da  ogni
 valutazione  in  concreto  circa  l'effettivo  stato  di  salute  del
 detenuto  e  la stessa potenzialita' diffusiva della malattia (che, a
 tutto ammettere, anche a non considerare le note questioni in  ordine
 alla  trasmissibilita'  del  virus,  andrebbe  anche valutata tenendo
 conto, se non altro, della personalita' del malato  e  del  grado  di
 promiscuita'   e   di   sovraffollamento  esistente  nella  struttura
 carceraria).
   La questione, in effetti, assume  precipua  rilevanza  considerando
 che,  viceversa,  con  la  sentenza n. 438/1995, la Corte sembra aver
 tout court eliminato, con riguardo all'art. 146, primo comma, n.    3
 del cod. pen., siccome aggiunto dall'art. 2 del d.-l. 14 maggio 1993,
 n. 139, proprio tale incompatibilita' "a priori", laddove esclude che
 il  differimento  dell'esecuzione  della  pena,  nei  confronti della
 persona affetta da AIDS, anche nei casi  d'incompatibilita'  previsti
 dall'art.  286-bis,  possa aver luogo a prescindere dalla valutazione
 "in concreto delle effettive condizioni di salute del  condannato"  e
 dalla loro "compatibilita' con lo stato detentivo". Non si comprende,
 peraltro, perche' mai tale incompatibilita' per cosi' dire "a priori"
 -  ammesso  che  sia  giustificata  (ma,  per  le  considerazioni che
 precedono, non pare lo sia) - debba valere solo per l'AIDS e non  per
 altre  malattie  gravissime  e  perfino  piu' contagiose e virulente.
 Tali, ad esempio, le epatiti di tipo B e C, che, avendo, capacita' di
 veicolazione  certamente  superiore  all'AIDS,  risultano  ben   piu'
 pericolose  per  la  salute  della stessa popolazione carceraria, pur
 dichiarata prevalente rispetto a quella indifferenziata (e, forse per
 cio', assai meno protetta) della popolazione extracarceraria. Non  si
 comprende,  in  buona  sostanza,  il trattamento differenziato voluto
 dall'art. 286-bis per gli ammalati di AIDS e  riaffermato  (sia  pure
 limitatamente  ai  casi  in  cui  non  ricorra  l'ipotesi  di  deroga
 all'escarcerazione), anche con  la  pronuncia  d'incostituzionalita',
 dalla Corte, la quale, mantenendo solo per essi l'incompatibilita' "a
 priori",  sembra ancora privilegiare, almeno per cio' che riguarda la
 norma in esame,  la  differenza  tra  "malati  ''comuni''  e  persone
 affette  da  AIDS"  (cfr.    la sentenza n. 70/1994) accolta da larga
 parte dell'opinione pubblica sulla spinta dell'allarme  suscitato  da
 quella  che con linguaggio massmediale terroristico viene definita la
 "peste del secolo".
   E', infatti, facile rilevare al riguardo, che non si sono mai posti
 problemi di sorta con riguardo alla custodia carceraria  di  ammalati
 di  epatite  B  o C, i quali, per quanto consta, vengono regolarmente
 ricoverati nei centri clinici carcerari.
   8. - Non v'e' dubbio, comunque,  che  la  lettura  "costituzionale"
 della  norma imponga oggi di verificare prioritariamente non tanto il
 requisito della incompatibilita'" e, tanto meno, il  requisito  della
 sussistenza di idonee strutture carcerarie, le quali, se non altro, a
 seguito  della  sentenza  della  Corte  e  del pesante monito in essa
 contenuto, dovrebbero comunque essere sollecitamente apprestate  (ma,
 more   solito  non  lo  saranno),  quanto,  viceversa,  quello  delle
 "esigenze cautelari di particolare rilevanza". Ond'e' che,  solo  ove
 queste  non sussistano, torna ad assumere rilevanza preminente quella
 tale "incompatibilita' a  priori"  che  osta  al  mantenimento  della
 custodia in carcere.
   Invero,  l'assenza  di pregiudizio per la salute dell'imputato e di
 quella degli altri detenuti,  che  la  Corte  aveva,  in  precedenza,
 assunto  come prevalente parametro di costituzionalita' meritevole di
 tutela, ha finito, con le sentenze nn. 438  e  439/1995,  per  essere
 affiancata  dalla  necessita'  di  tutela  della  collettivita', che,
 seppure nella sola ipotesi delle esigenze  cautelari  di  eccezionale
 rilevanza, torna a essere prevalente rispetto alla prima.
   Inoltre,  poiche'  l'assenza  di  pregiudizio, come ha osservato la
 stessa Corte puo'  e  deve  essere  esclusa  con  l'attuazione  delle
 strutture  ospedaliere  intracarcerarie  (ma,  per vero, le comunita'
 terapeutiche e rieducative piu' avanzate - vedasi la comunita' di San
 Patrignano - hanno gia' realizzato  strutture  del  genere,  come  al
 solito precedendo lo Stato), non e' chi non veda come essa, ove fosse
 ritenuta  alla stregua di requisito condizionante per il mantenimento
 della misura di custodia in carcere, finirebbe per risolversi in  una
 inammissibile petizione di principio che renderebbe le pronunce della
 Corte  prive  di senso e, di fatto, inattuabili. Invero, nell'ipotesi
 in cui non siano state istituite e non  venissero  mai  istituite  le
 anzidette strutture (il che, anche se non auspicabile, e', purtroppo,
 prevedibile),  si  finirebbe per subordinare (come, mutatis mutandis,
 ha gia' rilevato la Corte), alla "eventuale lacunosita'  dei  servizi
 di  sicurezza"  (e sanitari) carcerari, "la tutela dei valori primari
 che la norma impugnata ha inteso  salvaguardare",  valori  che,  alla
 luce  delle  sentenze  in  esame  sono (finalmente ora) rappresentati
 anche dalla sicurezza sociale, oltre che dal "bene della salute nello
 specifico contesto carcerario".
   In tale ottica va, dunque, vista  l'ultima  parte  del  dispositivo
 della sentenza n. 439/1995, atteso, peraltro, che, in seno alla parte
 motiva,  il  riferimento all'"attivazione (...) di tutti gli istituti
 che l'ordinamento prevede al fine di assicurare il fondamentale  bene
 della  salute",  non puo' che intendersi alla stregua di un auspicio,
 non certo di una condicio sine qua non per mantenere la  carcerazione
 nell'ipotesi  di deroga considerata (il che equivarrebbe a una deroga
 alla deroga).
   9. - Cio' posto, e per venire all'indagine sulla sussistenza  delle
 esigenze  cautaleri  di  eccezionale  rilevanza,  la scarna relazione
 dell'educatore dell'istituto carcerario non offre  certo  consistenti
 spunti  argomentativi, limitandosi a notiziare genericamente circa la
 ("condotta  regolare"  del  Giliberto,  nel  quale,  si  ha  cura  di
 aggiungere,  tuttavia,  si nota la presenza di "uno stato di notevole
 prostrazione e scoramento".
   Che tale sindrome sia dovuta allo stato di detenzione  in  se'  (e,
 quindi  da  considerare  in  qualche modo "fisiologica" e connaturata
 alla situazione, certamente frustrante, del recluso), ovvero discenda
 dallo stato di malattia (e, quindi,  suscettiva  di  ingravescenza  a
 causa  della detenzione), non e' dato ricavare, mancando ogni accenno
 al riguardo  e  mancando,  altresi',  la  richiesta  relazione  dello
 psicologo (evidentemente non presente nell'istituto).
   Appare,  nondimeno,  sintomatico che il Giliberto non abbia chiesto
 di   essere   autorizzato   a   esercitare   attivita'    lavorativa.
 L'atteggiamento del Giliberto, invero, sembra conformarsi a uno stato
 di  apatia  caratteriale  tipico  di  molte devianze giovanili, nelle
 quali, al difetto di interazione sociale, si  affianca  l'assenza  di
 ogni  interesse  a  impegnarsi  in attivita' utili ed emendative e di
 parametri etici minimi atti a distinguere il valore  e  il  disvalore
 delle  azioni.  In  tale contesto, il fatto che il Giliberto mantenga
 ("buoni (...) rapporti (...) sia con gli operatori  penitenziari  che
 con gli altri compagni di detenzione" appare, a tutto dire, anodi'no,
 posto  che  la ("normalita'") della condotta non e' indice univoco di
 resipisciente atteggiamento in favore della legalita' e  di  volonta'
 di  inserimento  nel  contesto  sociale.  Essa, viceversa, e', per lo
 piu', indice del modo di manifestarsi una impotenza reattiva  indotta
 dalla  coscienza  dello  stato  di  carcerazione, o, viceversa, della
 preordinata attuazione di una apparente ("buona condotta" al fine  di
 lucrare  i  benefici  previsti  dall'ordinamento  carcerario,  ma  e'
 soggetta a venir meno allorche', per il  mutamento  delle  condizioni
 umorali, vengano meno le remore attivate da freni inibitori in genere
 assai  deboli in soggetti del genere, ovvero allorche' non si ritenga
 piu' utile e fruttuoso l'atteggiamento di  apparente  assoggettamento
 alle regole.
   Viceversa,   l'indole   violenta  e  anomica  del  Giliberto  viene
 evidenziata, al di la' di ogni epidermica valutazione (e  in  assenza
 di   approfonditi   e   prolungati   periodi  di  osservazione  e  di
 approfondite  relazioni  da  parte  dei   servizi   carcerari),   dal
 certificato  del  casellario  giudiziale,  dal  quale  si  ricava che
 l'imputato ha commesso, nel giro di  appena  pochi  anni,  una  serie
 quasi ininterrotta di reati (tra i quali appaiono assai significativi
 quelli  in  tema  di porto di armi e di spaccio di stupefacenti) e ha
 continuato con i reati a  seguito  dei  quali  e'  stato  di  recente
 giudicato e condannato.
   Come  si  vede,  il  Giliberto, non solo dimostra una proclivita' a
 delinquere estremamente accentuata, ma dimostra  anche  che  egli  si
 trova in una condizione di salute tale da consentirgli, a prescindere
 dalle  patologie certamente esistenti, una costante e quasi frenetica
 attivita'  delittuosa,  la  quale  verosimilmente  e'  destinata   ad
 accentuarsi   proprio   in   funzione  del  venir  meno  dell'effetto
 deterrente  della pena (al quale la stessa Corte fa cenno). Del resto
 e' ormai noto (e le ultime scoperte l'hanno confermato) che in  molti
 casi,  la  presenza  di  enzimi  antagonisti,  pur non consentendo la
 regressione o la guarigione dall'AIDS (ma uguale discorso vale per le
 epatopatie), consente la protrazione per molti anni  (anche  decenni)
 di una condizione di vita attiva.
   10.  - La prognosi decisamente sfavorevole sul futuro comportamento
 dell'imputato che si trae  dalle  considerazioni  che  precedono  non
 vale,  tuttavia,  a parere del decidente, a far ritenere, da sola, la
 sussistenza  di  esigenze   cautelari   di   eccezionale   rilevanza,
 evidentemente   riconducibili   a   una   situazione   di  accentuata
 pericolosita'   sociale   dell'imputato   e   desumibili   solo    da
 comportamenti  delinquenziali  che denotano una capacita' criminale e
 una pericolosita' sociale fuori dal comune.
   Senonche', non e' dato determinare i  casi  in  cui  si  possa  con
 certezza  e  univocamente  ritenere  sussistente l'eccezionalita' e i
 casi in  cui  questa  possa  in  modo  altrettanto  certo  e  univoco
 ritenersi  insussistente.    Trattasi, invero, di un giudizio che, in
 mancanza di' parametri normativi  certi,  e'  soggetto  a  differenti
 valutazioni  e, quindi, anche a differenti soluzioni, pur in presenza
 di identici presupposti. E' appena il caso, al riguardo, di osservare
 che non puo' essere solo  la  "notorieta'"  dell'imputato  o  la  sua
 consacrazione massmediale nel gotha, della criminalita', o, sia pure,
 la  sola eclatanza dei delitti da lui gia' compiuti, a farne ritenere
 l'eccezionale pericolosita' sociale, la  quale,  com'e'  noto,  molte
 volte e' latente e sussiste anche in soggetti con trascorsi criminali
 di non eccezionale rilievo.
   Ma   e'   proprio   tale   ultima  constatazione  che  comporta  la
 possibilita' di soluzioni  diverse  in  casi  simili  e,  quindi,  di
 trattamenti  differenziati, anche in presenza di uguali situazioni di
 fatto.
   11. -  Cosi'  le  cose,  avuto  riguardo  alle  considerazioni  che
 precedono,  sembra  al decidente che l'art. 286-bis, primo comma, del
 codice di procedura  penale  debba  nuovamente  essere  sottoposto  a
 giudizio   di   legittimita'   costituzionale,  essendo  indubbia  la
 rilevanza della questione, dalla quale  dipende  la  decisione  sulla
 richiesta di scarcerazione del Giliberto.
   In  particolare,  alla luce delle sentenze nn. 438 e 439/1995 della
 Corte costituzionale (e, principalmente della prima) appare ormai non
 piu'  giustificabile  l'incompatibilita'  assoluta   e   "a   priori"
 mantenuta, in via residuale, dalla norma de qua, per i malati di AIDS
 nei  confronti  dei  quali  non  sussistano  le esigenza cautelari di
 eccezionale rilevanza:
     a) per violazione dell'art. 2 della Costituzione,  laddove  detta
 norma,  prevedendo l'operativita' automatica dell'incompatibilita', a
 prescindere dall'effettivo  stato  di  salute  del  malato,  comporta
 l'esposizione  a  pericolo della salute e sicurezza collettiva, anche
 in assenza di un  effettivo  corrispondente  (e  uguale  o  maggiore)
 pericolo per la salute dell'imputato e degli altri detenuti;
     b)  per  violazione dell'art. 3 della Costituzione, laddove detta
 norma, pur essendo prevista per ammalati di AIDS che  si  trovino  in
 identiche  situazioni,  e'  soggetta a essere derogata, per alcuni di
 essi, sulla  scorta  di  un  elemento  differenziatore  che,  essendo
 sostanzialmente  lasciato  a  un  giudizio  non collegato a parametri
 normativi   univoci,   comporta   la   possibilita'   di  trattamenti
 differenziati in presenza di situazioni uguali;
     c) per violazione degli  artt.  13  e  25,  secondo  comma  della
 Costituzione, laddove detta norma, per la ricordata impossibilita' di
 adottare    criteri    di    giudizio   univoci   nell'individuazione
 dell'elemento  (l'eccezionalita')  che   determina   il   trattamento
 differenziato e, quindi, la restrizione della liberta' personale, non
 appare rispondente al principio di tassativita';
     d)  per violazione dell'art. 32 della Costituzione, laddove detta
 norma,  comportando  l'escarcerazione  automatica  e  sine   die,   a
 prescindere   da   una   accertata,   effettiva,   concreta  esigenza
 terapeutica, di soggetti nei  cui  confronti  e'  stata  ritenuta  la
 necessita'  della  custodia  cautelare  in  carcere, espone a elevato
 rischio la salute e la sicurezza sociale,  le  quali,  in  tal  modo,
 vengono  a  essere  lese  perfino  in  mancanza  di  pari  o, sia pur
 prevalente valore costituzionalmente protetto;
     e) per violazione degli artt. 2 e 32 della Costituzione,  laddove
 detta norma subordina le esigenze di tutela della collettivita' a una
 situazione   di   emergenza   custodiale  determinata  dalla  mancata
 attuazione della  legge  in  tema  di  presidi  e  strutture  atti  a
 salvaguardare  la  salute dei soggetti affetti da AIDS e dei detenuti
 con  essi  conviventi  cosi'  ingiustificatamente   sacrificando   la
 sicurezza e la salute dei cittadini alla inerzia della p.a.