IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento di sorveglianza relativo a Gernone Angelo, nato a Bari il 21 luglio 1970, ivi res., via De Crescenzo, 25, avente ad oggetto: affidamento ss./semiliberta'. Osserva Gernone Angelo, condannato con sent. trib. Bari 27 ottobre 1994 a un anno e sei mesi di reclusione per lesioni personali aggravate e violazione della legge sulle armi, ha presentato istanza a questo T.S. per essere affidato in prova al servizio sociale o, in alternativa, per essere ammesso al regime di semiliberta'. Il Gernone annovera due precedenti penali, (per entrambi ha ottenuto la pena sospesa), uno per fatto analogo a quello per cui ha riportato la condanna in discorso, oltre che per ricettazione, risalente al 1989 (condanna del 10 dicembre 1993), l'altro, per furto aggravato in concorso, commesso nel 1992 (sentenza 7 gennaio 1993). Allo stato egli non risulta avere procedimenti pendenti iscritti presso la proc. pret. Bari (non e' pervenuta la corrispondente certificazione della proc. trib.) ma i carabinieri di Bari lo descrivono come persona, sia pure non collegata con la criminalita' organizzata, socialmente pericolosa. L'indagine sociale descrive li soggetto come proveniente da un nucleo estraneo al mondo della devianza, che fin dall'epoca della scolarita' dell'obbligo, disattendendo quest'ultimo, si e' dedicato alla vendita di fiori, collaborando con uno zio, al fine di contribuire al modesto bilancio domestico. Il suo coinvolgimento nella devianza sarebbe stato occasionale e successivo ai matrimonio, essendosi avvicinato a congiunti pregiudicati della moglie. Dopo un periodo "turbolento" in cui e' stato allontanato anche dai propri familiari, il Gernone ha ripreso la consueta attivita' di fiorista, con un nuovo datore di lavoro, tale sig.ra Filomena Ricciardi con la quale collabora ormai da circa un anno. In questa situazione il tribunale ritiene che, pur avendo l'istante dimostrato volonta' di reinserimento sociale, la circostanza che si sia avvicinato ad ambienti malavitosi dai quali e' stato indotto alla commissione di reati, nonostante la crescita avvenuta in ambiente estraneo a logiche devianti - anzi, dedito al lavoro - non consenta di ammetterlo all'affidamento in prova, misura che non contempla un rigoroso controllo della condotta del condannato prevedendo l'intervento solo sussidiario da parte delle forze dell'ordine (la vigilanza compete di norma al centro di servizio sociale del Ministero di grazia e giustizia). Il Gernone peraltro, avendo gia' usufruito di misure clemenziali, dalle quali non ha tratto sufficienti insegnamenti, dovrebbe ora subire il peso di una maggiore limitazione della liberta', che lo determini positivamente per il futuro. D'altro canto, non puo' trascurarsi che il soggetto ha trovato un inserimento lavorativo stabile che, essendo perfettamente corrispondente alla attivita' gia' esercitata, non appare meramente strumentale all'ottenimento della misura alternativa. E' piu' che evidente, dunque, che l'unica risposta idonea alla situazione prospettata sarebbe quella di ammettere il soggetto, alla semiliberta', la cui previsione, pero', cosi' come stabilita nell'art. 50, commi primo e secondo, legge n. 354/1975, rende inapplicabile la misura per lui, che ha da espiare per intero la sua pena di durata pari a un anno e mezzo. Per tali ragioni ritenuta la rilevanza dell'applicazione della norma nel procedimento de quo, questo giudice reputa non manifestamente infondate le questioni di legittimita' costituzionale proposte dal difensore dell'istante all'udienza, sotto i profili che, di seguito, si vanno ad elencare. a) Contrasto dell'art. 50, comma secondo, terzo periodo, legge n. 354/1975, con il principio di uguaglianza e ragionevolezza sancito dall'art. 3 della Costituzione. La norma sospettata di incostituzionalita' riserva un trattamento difforme e irragionevole a situazioni analoghe laddove non stabilisce che possono essere espiate in semiliberta' ab initio, cioe' a dire senza necessita' di preventiva osservazione della personalita' in carcere, le pene comportanti reclusione comprese tra sei mesi e tre anni, quando il condannato abbia goduto un periodo di liberta', serbando un comportamento che dimostri la sussistenza di condizioni per un suo graduale reinserimento sociale, ove il T.S. non ravvisi la possibilita' di ammetterlo all'affidamento in prova al s.s. ai sensi del terzo comma dell'art. 47 legge n. 354/1975 (recita il citato capoverso dell'art. 50 che "... nei casi previsti dall'att. 47, se i risultati dell'osservazione di cui al secondo comma dello stesso articolo - cioe' ''osservazione della personalita', condotta collegialmente per almeno un mese in Istituto'' - non legittimano l'affidamento in prova al sevizio sociale ma possono essere valutati favorevolmente in base ai criteri indicati nel quarto comma del presente articolo, il condannato ... puo' essere ammesso al regime di semiliberta' anche prima dell'espiazione di meta' della pena". In caso contrario, de iure condito possono essere espiate in semiliberta' sin dall'inizio solo "la pena dell'arresto e la pena della reclusione non superiore a sei mesi", ai sensi del primo comma dell'art. 50 cit.). Non v'e' chi non veda, infatti come la normativa in argomento, che prevede trattamento analogo a quella dell'affidamento in prova quando il condannato abbia trascorso almeno un mese di osservazione nell'istituto penitenziario (art. 47 cit. secondo comma), realizzi sulle pene detentive di media durata, fino a tre anni, un trattamento diverso e peggiore nei confronti del condannato libero (e pertanto non sottoposto alla preventiva osservazione in istituto), inidoneo all'affidamento ma che ben potrebbe espiare la sua pena in semiliberta'. Venuta meno, per vicissitudini giurisprudenziali e legislative, la ratio primigenia dell'affidamento al s.s. - quella di evitare l'impatto con il carcere alle persone condannate a pene brevi - e realizzando tale misura un risultato decarceratorio (sempre che ne sussistano le condizioni) anche per detenuti con pene lunghissime, allorche' la pena residua non ecceda i termini suddetti, la concedibilita' della semiliberta' ai condannati, in liberta', a pena non superiore a sei mesi induce i T.S. da un lato a piu' ampie e inadeguate concessioni dell'affidamento, dall'altro al rigetto della relativa istanza per soggetti tuttavia meritevoli della semiliberta', misura parzialmente restrittiva, ma idonea a riavviare i condannati nel mondo libero con la possibilita' di osservarne il comportamento e verificarne le reali potenzialita' riabilitative. Per comprendere la sostanziale grave disparita' di trattamento tra le diverse previsioni e la irragionevolezza della norma de qua, basti pensare, da un lato, ad un soggetto condannato a due anni di reclusione per rapina aggravata, che vanti un precedente analogo, magari risalente ad un paio d'anni addietro, che puo' aspirare tranquillanmente (sempre che sussistano le condizioni di cui all'art. 4-bis. l.p.) all'affidamento al s.s. senza necessita' di fare ingresso in carcere, e, dall'altro, a chi abbia commesso un fatto di ricettazione il quale, nonostante la piu' mite condanna a otto mesi di reclusione e la successiva intrapresa, per esempio, di una onesta attivita' lavorativa, dovra' invece sottoporsi al prescritto periodo di osservazione in carcere, in quanto in ipotesi giudicato inidoneo all'affidamento (per i precedenti specifici, ovvero per la stessa natura di questi, che rendono inadeguato il tipo di controllo che puo' svolgere il servizio sociale) per poter aspirare alla semiliberta', misura che, tra l'altro, non e' neppure totalmente liberatoria. Seppure si voglia, infatti, attribuire un maggiore valore ai risultati della osservazione cosiddetta scientifica - che a norma di legge deve svolgersi continuativamente negli istituti penitenziari e porsi a base dell'elaborazione dei programmi di trattamento dei detenuti - rispetto ai dati desumibili dalla empirica osservazione del comportamento del condannato nell'ambiente libero, non puo' accreditarsi quest'ultima ai fini della concessione di un beneficio piu' ampio, qual'e' l'affidamento, e ritenerla ad un tempo inadeguata a valutare l'idoneita' del soggetto alla semiliberta', ferma restando la gravita' dell'identico reato commesso, punito con pena (residua da scontare) non superiore a tre anni. Il legislatore sembra aver ragionato in questi termini: se l'interessato, considerata (empiricamente) la sua condotta in liberta', non si ritiene idoneo all'affidamento, allora neppure questa osservazione empirica e' piu' sufficiente, dovendo sottoporsi alla osservazione scientifica, in carcere, per poter aspirare a qualsiasi regime alternativo (salvo che la pena da scontare non rientri nei sei mesi). Procedimento logico che appare viziato, giacche' l'unica valutazione compiuta dal giudice della condotta in liberta', se sufficiente a far concedere l'affidamento, dovrebbe consentire in via gradata anche la concessione di un beneficio meno ampio. Per l'opposto verso incongrua appare la normativa ove si pensi che "un mese" di osservazione in carcere ripristina l'uguaglianza di trattamento in punto di accesso all'affidamento e alla semiliberta' tra tutti i condannati a pena detentiva non superiore a tre anni, non discriminando affatto tra coloro che espiano le pene piu' ridotte, delinquenti spesso di modesta pericolosita' sociale che abbisognano si' di una misura che ne contenga l'attivita' criminale, ma il cui nocumento sociale e' certo piu' tollerabile, e coloro che, sia pure una tantum, sono incorsi in reati piu' gravi. C'e' da chiedersi, ove realmente fosse possibile procedere dopo un solo mese di carcerazione dell'interessato all'applicazione della m.a. (di fatto, i tempi dell'istruttoria delle pratiche ed il carico di lavoro dei tribunali di sorveglianza rende questa evenienza teorica) quale risultato l'osservazione della personalita' possa conseguire in un lasso di tempo tanto ridotto, essendo del tutto irragionevole ipotizzare una valenza risocializzante del mero, primo contatto con l'educatore penitenziario: qualora piu' realisticamente si reputi, invece, che di mera attivita' osservativa si tratti, per approfondimento delle problematiche esistenziali del detenuto, della sua storia familiare, delle condizioni criminogenetiche, ecc., ecc., il legislatore mostra di ignorare la realta' nota a chiunque operi nel settore penitenziario, e cioe' che in un mese e' possibile, nella piu' rosea delle ipotesi, solo un brevissimo e superficiale approccio dell'educatore col detenuto. Resta ingiustificato, quindi, anche in punto di fatto, perche', per coloro che ambiscano all'affidamento, condannati a pena che non superi i tre anni, il giudice possa accontentarsi di acquisire elementi aliunde, senza la cesura dell'osservazione in carcere, mentre per i potenziali semiliberi con pene contenute negli stessi limiti, debba esservi quell'indispensabile "passaggio in ombra". E' stato ragionevolmente sostenuto che la semiliberta' non sia una misura alternativa, per la ineliminabile componente carceraria del suo contenuto, per cui, a parte le ore diurne da dedicarsi allo svolgimento di attivita' lavorative o risocializzanti, il detenuto deve comunque accedere giornalmente alla detenzione: impostata la questione in questo modo sembra ancora piu' incongrua la formulazione del secondo comma dell'art. 50 l.p., laddove stabilisce la necessita' di preventiva osservazione per accedere ... al carcere, contrariamente a cio' che accade per chi abbia la possibilita' di espiare la pena in completa liberta'| Da un punto di vista sistematico, dunque, la funzione svolta dalle misure previste dagli artt. 47 e 48 l.p., riconosciuta come omogenea e alternativa nella pratica giuridica nonche' la componente piu' rigorosa della semiliberta' rispetto all'affidamento, sembra rendere naturale e perfettamente comprensibile la possibilita' di applicare anche la semiliberta', sin dall'inizio, quando il condannato non appaia "meritevole del beneficio maggiore". Se si ingenerano problemi di autentica disuguaglianza a tutto vantaggio di condannati per pene piu' gravi, non v'e' da trascurare che la corrente di pensiero che ha sostenuto il vigente sistema delle m.a. e' partita dal concetto della valenza negativa, desocializzante delle pene brevi, concretatosi sul piano politico, oltre che nella disciplina esaminata, anche nella legge n. 689/1981, che com'e' noto ha attribuito gia' al giudice della cognizione il potere di applicare sanzioni sostitutive della detenzione, per pene anche superiori a sei mesi. Ove si pensi all'istituto piu' simile alla semiliberta', la semidetenzione, appare evidente la sperequazione tra detta misura, che puo' ab initio durare un anno con minore verifica delle opportunita' di reinserimento del condannato e la semiliberta' che, assistita da presupposti piu' rigorosi e strumenti di sostegno (valutazione sulle condizioni per un graduale reinserimento in societa' del condannato, tra cui la sussistenza di una sua occupazione lavorativa, istruttiva o comunque utile alla sua reintegrazione sociale; sostegno assicurato dal CSSA, ecc.) e' condizionata, quando l'istanza sia proposta dallo status libertatis, degli indicati limiti di durata massima della pena. Ulteriore aspetto che non puo' trascurarsi, con riguardo alla violazione della ragionevolezza della previsione, e' quello che la semiliberta', sulla base della norma dell'art. 50 l.p., primo comma, viene accordato a soggetti che abbiano una pena da espiare pari a sei mesi, quand'anche questo residuo da maggior pena, in parte (anche maggioritaria) trascorsa in custodia cautelare. Quest'ultimo istituto, "eccezionale" nell'ordinamento e per tal ragione, estremamente "tormentato", si applica tra l'altro, come ognuno sa, a soggetti che abbiano un grado di pericolosita' elevata: e' quindi paradossale e contrario al comune buon senso che chi, per avventura, debba espiare la pena per l'intero perche', a suo tempo, il giudice della cognizione non ha ritenuto di sottoporlo a misura cautelare per l'evidente ragione che trattavasi di soggetto di scarsa o irrilevante pericolosita', debba, una volta che la pena sia divenuta definitiva, necessariamente "attraversare" le sbarre prima di poter accedere alla semiliberta'. Cosi' come, in prospettiva piu' generale, non si giustifica la disparita' di trattamento tra coloro che siano stati condannati a pena piu' elevata, dunque per fatto piu' grave, ma con pena residua (anche in virtu' di cause di estinzione) ricompresa nei sei mesi (i quali possono accedere alla misura senza necessita' di preventiva osservazione "scientifica") e coloro che abbiano riportato piu' lieve condanna, ma (anche per pochi giorni) superiore ai sei mesi (questi non possono evitare il prescritto periodo di osservazione). Tale argomento, del resto, rappresento' la ragione a fondamento della decisione della Corte costituzionale, nella sentenza n. 569 del 22 dicembre 1989, dichiarativa della illegittimita' del terzo comma dell'art. 47 della legge n. 354/1975. b) Contrasto dell'art. 50, secondo comma, terzo periodo, legge n. 354/1975 con il principio per cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, previsto nell'art. 27 della Costituzione. La previsione dell'art. 50, secondo comma, terzo periodo, quando stabilisce che la semiliberta' per pene superiori a sei mesi puo' essere concessa solo ove il condannato sia stato sottoposto per almeno un mese a osservazione in istituto intacca il principio di tensione della pena verso la rieducazione del condannato laddove, allorche' costui abbia intrapreso un'attivita' lavorativa, istruttiva o comunque risocializzante in liberta', l'obbligatorio ingresso in carcere, propedeutico all'ammissione alla m.a., di fatto, spezza la continuita' di tale esperienza, con effetti che possono rilevarsi estremamente deleteri sulla sua situazione economico-lavorativa, e rieducativa, tanto piu' perche', mentre per l'affidamento al s.s. non e' richiesta espressamente la possibilita' di svolgere un'attivita' "risocializzante", per l'art. 48 legge n. 354/1975, primo comma, la sussistenza di questa e' presupposto indispensabile per l'ammissione alla m.a. Evidentemente irragionevole e', a riguardo, e contrario allo spirito dell'art. 27 della Costituzione, la differenza di valutazione imposta al giudice allorche' debba verificare la concedibilita' di semiliberta' succedanee dell'affidamento ab initio, rispetto a quelle relative alle pene piu' lunghe di sei mesi, che pero' non superino tre anni: mentre per le prime il sesto comma dell'art. 50 l.p. impone, ovviamente, la verifica della volonta' di reinserimento nella vita sociale - verfica che puo' effettuarsi prevalentemente controllando che il candannato, in liberta' si stia reintegrando nella societa', dedicandosi ad attivita' risocializzanti -, nel caso di condanne comprese tra sei mesi e tre anni, assurdamente, dopo solo un mese di carcerazione, la condotta precedente alla carcerazione viene obliterata, per far posto alla valutazione dei progressi compiuti nel corso di questo (risibile) trattamento. Si puo' certamente escludere, come sopra evidenziato, che la cesura imposta dalla legge, proprio per la sua brevita', abbia un qualsiasi contenuto rieducativo per il detenuto, soprattutto quando costui, in esternato abbia realmente avviato, tramite l'esercizio di una di quelle attivita' previste come risocializzanti dall'art. 48 l.p., un processo di revisione critica del proprio vissuto. Si e' gia' evidenziato, in proposito, quale sia la realta' (di organizzazione) carceraria alla quale, con l'obbligatorio internamento il soggetto va incontro. Appare quindi irragionevole, alla luce della previsione cotituzionale dell'art. 27 che intravede nella pena una opportunita' di rieducazione del reo, l'imporre, a chi debba scontare pelle comprese tra sei mesi e tre anni e chieda di accedere alla semiliberta', un'osservazione carceraria che, lungi dal portare, a sua volta, benefici rieducativi, si risolve in qualcosa di opposto, a volte compromettendo l'equilibrio (anche economico) di persone che con grandi sacrifici cercavano di emergere da situazioni di marginalita' sociale. E' facile, di contro, che la cesura imposta alla liberta' sortisca effetti contrarsi alla rieducazione: p. es., perduta l'attivita' lavorativa (reale), per la sopraggiunta carcerazione, difficilmente il soggetto potra' reperirne un'altra, sin da prospettare al tribunale impieghi fittizi per ottenere la misura alternativa (com'e' esperienza di tutti i giorni). In pratica, per una previsione incongrua si induce il detenuto a ricadere nell'illegalita', nella menzogna, cosi' violando proprio lo spirito che la legislazione stessa intende, nel rispetto dell'art. 27 della Costituzione, incentivare. Del resto, quali che siano state le motivazioni che portarono a tale pronuncia, la Corte costituzionale dichiaro' illegittima analoga norma stabilita in tema di affidamento, con sentenza n. 569/1989 cit., salvaguardando dall'ingresso in carcere chi, per il titolo venuto in esecuzione, non vi aveva fatto ingresso. Per tutti i motivi individuati, dunque, si sottolinea ancora una volta la necessita' giuridica, sul piano della legittimita' costituzionale, che le due misure funzionalmente omogenee per tutto quanto riguarda le altre previsioni, gia' con le istanze avanzate dallo stato di liberta' presentino i medesimi requisiti di ammissibilita'.