IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Ha pronunciato la seguente ordinanza di rimessione di atti alla Corte costituzionale nel procedimento penale contro Sigmund Josef nato a Varna il 14 marzo 1944, ivi res. in via Richard Voss 36, Uberbacher Wilhelm, nato a Naz Sciaves il 2 settembre 1951, res. a Varna, frz. Novacella, Seiserleite 33, Huber Franz, nato a Varna il 7 aprile 1929, ivi res. in frz. Novacella, vicolo Pacher 59, Mutschlechner Maria, nata a Brunico il 15 agosto 1942, res. a Varna, frz. Novacella, vicolo Pacher 59, indagati per il reato di cui all'art. 323 c.p. (abuso d'ufficio) commesso in Varna (Bolzano) dal 22 ottobre 1996 in poi. Difensore di fiducia: avv. Alberto Valenti e Christina Jochler del foro di Bolzano. Parte offesa: Huber Josef nato 1929 e Huber Josef nato 1933, con gli avvocati Sergio Dragogna e Lofoco Enrico, con domicilio presso l'avv. Lofoco in Bolzano Corso Liberta' 36. Il caso concreto in esame, nelle sue linee generali, e' il seguente: nel comune di Varna l'amministrazione comunale, prendendo lo spunto od il pretesto da alcuni lavori da eseguirsi su di una strada comunale di un quartiere, ha deliberato di deviare il traffico su di una strada privata affermando che comunque essa doveva intendersi come pubblica in forza di accordi (molto mal documentati e non risultanti dai libri tavolari) di alcuni decenni orsono con i proprietari. Pare che il sindaco e ben quattro consiglieri comunali, abitando nel quartiere ben servito dalla nuova strada, agissero anche pro domo sua e quindi non fossero proprio indifferenti alla soluzione della vicenda. Il proprietario della strada ricorreva al TAR che gli dava pienamente ragione, annullando gli atti del comune e quindi riconoscendo che la strada era privata e che doveva essere chiusa al traffico pubblico. Il sindaco non ottemperava alla sentenza del TAR, che doveva essere posta in esecuzione immediatamente, come costante giurisprudenza, ma ricorreva al Consiglio di Stato chiedendo la sospensiva (e con cio' riconoscendo di sapere che la sentenza andava eseguita|) e, dopo che il Consiglio rifiutava la sospensiva, persisteva nell'emissione di ordinanze illegittime e in atti di forza, anche con l'ausilio della forza pubblica, recandosi personalmente, anche di notte, a togliere gli ostacoli e i segnali di divieto posti dal proprietario della strada. Il pubblico ministero, all'esito delle indagini, ha chiesto l'archiviazione degli atti per infondatezza della notizia di reato ritenendo che il sindaco e gli altri interessati abbiano agito nell'interesse pubblico. Contro la richiesta di archiviazione ha proposto opposizione la parte offesa. Rileva questo g.i.p. che, senza dubbio, allo stato dell'indagine e degli atti, emergono ipotesi di prepotenza del potere di fronte all'inerme cittadino e cioe' una di quelle situazioni che hanno portato alle lotte per lo stato liberale e per le moderne costituzioni, specialmente in relazione alla protervia con cui il sindaco ha persistito nel non dare esecuzione ad una sentenza, sebbene nel frattempo fossero venute meno persino le ragioni o i pretesti che avrebbero potuto dare una parvenza di legittimita' ad un provvedimento urgente e contingente. E' evidente che non si puo' assolutamente parlare di difetto dell'elemento psicologico in chi volutamente non da' esecuzione ad una sentenza che sa di dover eseguire. Questo g.i.p. pertanto dovrebbe fissare udienza di discussione per invitare poi il p.m. a formulare i capi di imputazione. Trattasi pero' ora di esaminare, al fine di stabilire l'ipotizzabilita' di un reato, come i fatti cosi' esposti dovrebbero essere configurati in forza dell'art. 323 c.p., vigente all'epoca dei fatti, e come essi debbano essere configurati in forza del nuovo testo. Il legislatore si e' da sempre preoccupato di sanzionare penalmente le condotte antidoverose degli impiegati e dipendenti pubblici al fine di salvaguardare il proprio patrimonio e la propria immagine e di punire approfittamenti e favoritismi. Il c.p. del 1930 prevedeva (oltre ai reati di peculato, malversazione, corruzione, concussione), con un ampio ventaglio di ipotesi che parevano lasciar poco scampo, i reati: di omissione o rifiuto di atti d'ufficio, per il funzionario che indebitamente (vale a dire conoscendo l'antigiuridicita' del fatto) omettesse o ritardasse un atto d'ufficio (art. 328 c.p.); di abuso in atti d'ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge. Esso puniva ogni comportamento commesso con abuso dei poteri inerenti alle proprie funzioni al fine di recare ad altri un danno o di procurare loro un vantaggio (art. 323 c.p.); di interesse privato in atti d'ufficio per il funzionario che, anche per interposta persona, prendesse un interesse privato in un atto d'ufficio (art. 342 c.p.). L'insoddisfazione per certe applicazioni giudiziarie delle norme, ed in particolar modo di queste ultime due, che si prestavano ad estendere grandemente il concetto di "atto d'ufficio", portava alla modifica legislativa del 26 aprile 1990 nr. 86 che ristrutturava in modo incisivo i reati contro la p.a. e specialmente l'art. 323 c.p. Il reato di interesse privato scompanva, assieme al peculato per distrazione e alla malversazione a danno dei privati, e il nuovo 323 c.p., con l'intenzione di sussumerli in se', punva il funzionario che al fine di procurare a se' o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto abusa del suo ufficio. ... Se il fatto e' commesso per procurare a se' o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, la pena e' piu' severa. Va subito detto che lo sforzo di semplificazione compiuto dal legislatore era stato notevole e che appariva vano il tentativo di precisare meglio le condotte criminose che un funzionario pubblico puo' porre in essere. Negli ultimi tempi vi e' stato un movimento rivolto a specificare meglio il contenuto della norma, ma per larga parte si tratta di un movimento di natura politica, piu' che giuridica, che vorrebbe sottrarre alla magistratura un troppo penetrante controllo sulla p.a., o perche' si ritiene, in buona fede, che l'eccesso di interventi ne paralizzi l'operativita' o perche', in mala fede, si vorrebbe una p.a. piu' manipolabile. La Cassazione del resto aveva gia' dichiarato manifestamente infondata la questione (Sez. 6, sent. 7071 del 15 luglio 1996) scrivendo: "E' manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 323 c.p. (abuso di ufficio) con riguardo all'art. 25 della Costituzione per presunta eccessiva genericita' del precetto. I requisiti della tipicita' e della determinatezza sono gia' di per se' presenti nell'elemento materiale che ricomprende tutti i comportamenti illegittimi sotto il profilo, dell'incompetenza, della violazione di legge e dell'eccesso di potere; detti requisiti ricevono ulteriore contributo dalla formulazione relativa alla modalita' del dolo specifico che postula autonoma ingiustizia del danno o del vantaggio". Massima di tutta ovvieta' per il fatto che sarebbe vano il cercare di precisare le condotte criminose di cui sopra perche' il p.u. puo' abusare del proprio ufficio, dei propri poteri ufficiali, del potere stesso datogli dalla propria posizione, in infiniti modi a cui solo la fantasia umana puo' porre un limite: egli puo' abusare agendo o non agendo, puo' abusare con atti formalmente legittimi o con atti viziati, puo' abusare sfruttando le informazioni di cui e' in possesso a proprio beneficio, puo' incanalare affari lucrosi verso persone a lui vicine, puo' agire direttamente o per interposta persona, e cosi' via. Si pensi, per un paragone, al reato di truffa: per descrivere tutti i raggiri ed inganni escogitati da chi vive alle spalle altrui ci vorrebbe un'enciclopedia e non si puo' certo pretendere che il legislatore possa descriverli e prevederli in una norma. Il p.u. ha il dovere di essere onesto ed imparziale e lo Stato ha il dovere di punire penalmente le condotte piu' gravi e non vi e' dubbio che sia grave il favoritismo; e il legislatore avrebbe benissimo potuto limitarsi ad usare questo termine, lasciando all'interprete di stabilirne, caso per caso, la sussistenza. Ne' si dica che il compito sarebbe stato troppo difficile perche' ogni cittadino ha piena conoscenza del significato del termine e si rende benissimo conto se il p.u. si e' comportato bene o male, di cio' che e' lecito e di cio' che e' illecito e il fatto che si possa discutere sul concetto stesso di favoritismo, come se certi favori potessero essere leciti, dimostra solo la decadenza dei costumi, ma non di certo l'inadeguatezza delle leggi. Del resto la figura del reato a condotta libera e' ben noto al nostro codice penale e non ha mai sollevato problemi di sorta. Nel corso di questi ultimi sette anni il reato di abuso in atti d'ufficio si era venuto configurando, ad opera della dottrina e della giurisprudenza, in modo chiaro ed organico, concordando esse nel ritenere che elemento chiave del reato sia la strumentalizzazione dell'ufficio in vista di un risultato ingiusto, con una indistricabile commistione tra l'elemento soggettivo e l'elemento oggettivo del reato, cosi' che quest'ultimo e' costituito "non soltanto dal cosciente e volontario uso illegittimo dei poteri d'ufficio, ma anche dalla strumentalizzazione dell'atto a vantaggio del destinatario, in modo da creare una situazione giuridica di vantaggio alla quale lo stesso non avrebbe avuto diritto" (Cass. 4 marzo 1994 n. 2733). Venivano cosi' respinte quelle impostazioni dottrinali che vorrebbero sempre, come presupposto, l'esistenza di un atto amministrativo illegittimo (e, si dovrebbe anche concludere, la pregiudizialita' della giustizia amministrativa su quella penale). Era anche del tutto pacifico che il reato era rivolto a tutelare i principi dell'imparzialita' e del buon andamento della pubblica amministrazione (principi in parte sovrapponibili) e che percio' esso si configurava anche in mancanza di un danno per essa. L'uso da parte del legislatore del termine "ingiusto", veniva riferito al requisito dell'ingiustizia del risultato dell'atto, cosi' che qualunque alterazione voluta della "par condicio dei cittadini fosse sufficiente a far ritenere l'atto ingiusto. In altri termini, l'aggiunta dell'aggettivo ingiusto escludeva dall'area dell'illecito penale i comportamenti abusivi finalizzati a procurare un vantaggio conforme al diritto, ovvio essendo (o dovendo essere) che scopo della p.a. non e' di fare il comodo del funzionario o di vessare il cittadino, ma di aiutarlo ad ottenere cio' che gli spetta nel modo piu' rapido e meno dispendioso. Si riteneva pacifico che la norma richiedesse che il soggetto avesse agito con dolo specifico, cioe' che egli si fosse proposto il fine speciale di avvantaggiare o danneggiare altri. In genere pero' vi e' una tale commistione tra elemento soggettivo ed elemento oggettivo che, inevitabilmente, si finisce per ravvisare il dolo in re ipsa in ogni caso in cui i rapporti tra funzionario e favorito (o danneggiato) rendono evidente il comportamento abusivo. Del resto si consideri che, come avviene in molti altri casi di dolo specifico, le ipotesi in cui esso non e' comprovato dallo stesso evento, sono molto rari; si pensi ad esempio come sia difficile ipotizzare un furto in cui manchi lo scopo di trarre un profitto. Inoltre riesce veramente difficile immaginare con quale tipo di attivita' un pubblico ufficiale potrebbe dolosamente porre in essere abusi, senza con cio' proporsi vantaggi o danni per se' od altri. Siccome questi possono essere anche solo morali, avrebbe dovuto giustamente rispondere del reato anche chi avesse abusato solo per realizzare sue finalita' ideologiche (ad es. funzionario che rifiuta una licenza di caccia in quanto e' animalista). Normalmente poi chi abusa per favorire altri, intende con cio' procurare anche certi vantaggi a se' stesso ed e' una probatio diabolica il pretendere di penetrare nell'animo del reo per accertare la natura del movente. Era pacificamente ammesso che l'abuso non deve necessariamente avere come risultato un atto amministrativo viziato nella forma e puo' essere realizzato anche senza che il soggetto ponga personalmente in essere atti amministrativi (ad es. capo ufficio che indirizza una pratica in una certa direzione influendo sugli ignari subordinati), fermo restando che l'atto amministrativo illegittimo di per se' non e' prova di abuso. L'atto illegittimo e' un segnale che puo' spingere ad indagare sui motivi che hanno spinto un soggetto a porlo in essere, ma poi la prova deve investire proprio l'ingiustizia di questi motivi. In alcuni casi la Cassazione aveva affermato che il dolo del reato era in re ipsa ma cio' non deve trarre in inganno e far ritenere sussistere una presunzione di dolo. Quando in molte massime si afferma che in certi casi il dolo e' in re ipsa si vuoi dire che e' la stessa situazione di fatto, nel caso concreto, che fornisce a sufficienza la prova del dolo, e quindi il giudice fa un'affermazione in fatto che non puo' mai assumere valenza generale sul piano della teoria giuridica. Non vi e' dubbio che in base a questi principi gli atti del processo in esame conterrebbero piu' che sufficienti elementi di prova per addivenire ad un rinvio a giudizio o quantomeno, visto la fase in cui il procedimento si trova, per disporre la fissazione dell'udienza di discussione sulla richiesta di archiviazione. Questo sistema coerente e razionale, frutto di decenni di elaborazione giuridica, e' stato profondamente alterato dall'art. 1 della legge 16 luglio 1997 n. 234 che ha introdotto le seguenti modifiche: 1) Si ha abuso solo se il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio agisce in violazione di norme di legge o di regolamento oppure se essi omettono di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto; 2) Si ha abuso solo se i suddetti con la loro azione intenzionalmente procurano a se' o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o arrecano ad altri un ingiusto danno. Detto in parole povere le conseguenze pratiche di una simile formulazione sono le seguenti: non commette piu' alcun abuso il funzionario che applica circolari o disposizioni d'ufficio in modo discriminato e discriminante e con cio' favorisce amici e danneggia nemici: quindi si introduce nella pubblica amministrazione il principio dell'arbitrio e del favoritismo. E' appena il caso di osservare come non sia accettabile la tesi secondo cui per valutare la sussistenza della violazione di legge occorrerebbe far riferimento ai concetti del diritto amministrativo che ricomprende in essa ogni vizio di legittimita' diverso dall' eccesso di potere e dall'incompetenza e quindi anche la violazione dei principi generali dell'azione amministrativa, quale il principio di imparzialita'. La volonta' del legislatore deducibile dalla norma stesa e dai lavori preparatori, fanno intendere che la violazione della legge o del regolamento deve essere intesa in senso stretto, come violazione di specifiche norme di legge imperative. La dicitura usata fa intendere inoltre che il funzionario sara' comunque sicuro dell'impunita' quando abbia l'astuzia di non violare la legge in modo scoperto, ma si cauteli usando interpretazioni di comodo per quanto cervellotiche e anomale. Comunque una diversa interpretazione estensiva porterebbe anch'essa a soluzioni in contrasto con i principi costituzionali (ad esempio irrazionalita' di punire la violazione di legge e non anche il piu' subdolo eccesso di potere o la plateale incompetenza); non commette piu' alcun abuso il funzionario che non si astiene in presenza di un interesse dell'amico intimo, dell'amante, del convivente, di qualunque sesso esso sia. Il presidente della commissione di esame che va a letto con un candidato, il giudice che assolve la convivente, il funzionario che favorisce sfacciatamente i propri elettori o i propn parenti non troppo stretti (ad esempio il figlio del cognato), non sono piu' punibili e potranno essere chiamati a rispondere disciplinarmente solo se dipendenti pubblici. Quindi, anche il questo caso il trionfo del favoritismo e dello spirito mafioso quale consentita libera estrinsecazione del potere acquisito: non commette piu' abuso di ufficio chi intenzionalmente (cioe' dolosamente) viola leggi o regolamenti se con cio' non procura a se' o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale. Non e' piu' sufficiente agire allo scopo di procurare un danno od un vantaggio, ma occorre che questi siano effettivamente procurati. Vale a dire che il funzionario puo' fare carte false, calpestare il diritto, puo' omettere di astenersi in casi doverosi purche' con cio' non voglia procurare un vantaggio patrimoniale: piu' o meno il caso di quando Caligola nomino' senatore il suo cavallo, ipotesi che potrebbe nuovamente verificarsi se un sindaco decidesse, contro ogni legge e volonta' contraria, di intitolare una piazza del paese alla moglie (che non ne avrebbe alcun vantaggio patrimoniale), cosi' legittimando ogni abuso. Si aggiunga poi che la differenziazione tra vantaggio patrimoniale e non patrimoniale e' sovente cosi' esigua da servir solo per cavilli. Percio' la norma legittima, oltre al favoritismo, anche la prepotenza burocratica, il potere esercitato senza il rispetto delle leggi, magari nascondendosi dietro pretesi interessi della collettivita', da parte di chi dimentica che la valutazione sul valore degli interessi, sul loro bilanciamento, e' compito anch'esso del legislatore (talvolta ad un livello costituzionale) e che leggi e regolamenti sono fatti apposta per assicurare il rispetto dei valori costituzionali di cui gli interessi concreti sono solo una derivazione. Rileva percio' questo g.i.p. che, in forza della nuova norma e alla luce dei principi sopra esposti, nel caso di specie non sarebbe piu' configurabile il reato di abuso d'ufficio perche' il sindaco (o chi con esso): non avrebbe violato alcuna norma di legge o regolamento, visto che una sentenza del TAR non e' tale e che egli ha posto in atto atti formalmente leciti; non era in presenza di una situazione che avrebbe comportato la sua astensione (vedasi quanto detto al riguardo dalla sentenza del TAR); non ha agito per procurare un vantaggio patrimoniale diretto e immediato ai propri beni, ma solo per una maggior comodita' sua e di chi abita nel quartiere; non ha agito "intenzionalmente" per cagionare un danno alla parte offesa, in quando il danno e' senza dubbio una conseguenza non voluta dei suoi atti. E' doveroso a questo punto porsi il problema se una simile situazione sia conforme ai principi costituzionali. Ritiene questo g.i.p. che la nuova formulazione dell'art. 323 c.p. violi numerose norme costituzionali e cioe': l'art. 3, primo comma, della Costituzione, rispetto al trattamento del reo, in quanto situazioni di eguale gravita', altrettanto socialmente riprovevoli, ricevono diverso trattamento sulla base di una distinzione formale (violazione o meno di legge) del tutto priva di razionalita'. Si consideri che la norma consente di perseguire solamente certe condotte illecite, macroscopiche ed appariscenti, di fronte a cui il cittadino puo' tutelarsi facilmente con un ricorso al giudice civile od amministrativo, e assicura invece l'impunita' alle condotte subdole, a quegli atti illeciti posti in essere con maneggi, per interposta persona, con scambi di favori e favoritismi, a tutte quelle manifestazioni piu' squallide del potere che tanto hanno fanno apprezzare al cittadino il fenomeno "mani pulite". Si consideri ancora che una norma che richiede requisiti cosi' formalistici consentira' di punire solo il funzionario sprovveduto, quello che e' tanto sciocco da non astenersi nella cosa propria, quando sarebbe cosi' semplice farsi sostituire da un collega compagno di merende, a cui ricambiare il favore in un'altra occasione; l'art. 3, primo comma, della Costituzione, rispetto al cittadino soggetto a chi e' investito di pubbliche funzioni, poiche' qualunque norma che lasci impuniti, e quindi, di fatto, legittimi, favoritismi e prepotenze diviene uno strumento di diseguaglianza del cittadino; l'art. 3, secondo comma, della Costituzione perche' il legislatore e' venuto meno al dovere di rimuovere gli ostacoli che si possono frapporre alla liberta' ed eguaglianza dei cittadini; l'art. 79 della Costituzione il quale prevede che l'amnistia o l'indulto possano essere deliberati solo con la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Nel caso di specie, di fronte alla difficolta' di ottenere una maggioranza qualificata per il cosiddetto "colpo di spugna", il Parlamento ha fatto ricorso all'escamotage dell'abolizio criminis, procedimento sulla cui legittimita' e' lecito sollevare qualche dubbio; l'art. 97, primo comma, della Costituzione che impone di organizzare i pubblici uffici in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialita' dell'amministrazione. Come puo' assicurare questo risultato una norma che in modo incontrovertibile consente i favoritismi, le raccomandazioni, le prepotenze, i maneggi che rimangono a monte dell'atto amministrativo, da parte del pubblico funzionario o del pubblico amministratore? Come puo' farlo una norma che consente impunemente, ad esempio, di esprimere pareri discrezionali assolutamente di comodo o pilotati (non si viola nessuna legge|), che consente al funzionario di boicottare la pratica di un nemico, ecc. ecc.? Come si puo' perseguire la corruzione se non si consente di indagare su quello che ne e' il sintomo visibile piu' chiaro ed evidente e cioe' l'ingiusto vantaggio conseguito? La questione di costituzionalita' e' senza dubbio rilevante nel caso in esame rispetto a cui, secondo la norma anteriore, si dovrebbe fissare l'udienza di discussione per il rinvio degli atti al p.m. e l'elevazione di imputazione a carico degli indagati e, secondo quella subentrata ed ora in vigore, si dovrebbe accogliere la richiesta di archiviazione (senza fissazione di alcuna udienza in quanto non sono richieste nuove prove).