IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
   Ha pronunciato la seguente ordinanza di  rimessione  di  atti  alla
 Corte  costituzionale  nel  procedimento  penale contro Sigmund Josef
 nato a Varna il 14 marzo 1944, ivi  res.  in  via  Richard  Voss  36,
 Uberbacher  Wilhelm,  nato  a Naz Sciaves il 2 settembre 1951, res. a
 Varna, frz.  Novacella, Seiserleite 33, Huber Franz, nato a Varna  il
 7  aprile  1929,  ivi  res.  in  frz.  Novacella,  vicolo  Pacher 59,
 Mutschlechner Maria, nata a Brunico il 15 agosto 1942, res. a  Varna,
 frz.  Novacella,  vicolo  Pacher  59,  indagati  per  il reato di cui
 all'art. 323 c.p.  (abuso d'ufficio) commesso in Varna (Bolzano)  dal
 22 ottobre 1996 in poi.
   Difensore  di fiducia: avv. Alberto Valenti e Christina Jochler del
 foro di Bolzano.
   Parte offesa: Huber Josef nato 1929 e Huber Josef  nato  1933,  con
 gli  avvocati  Sergio  Dragogna e Lofoco Enrico, con domicilio presso
 l'avv. Lofoco in Bolzano Corso Liberta' 36.
   Il caso  concreto  in  esame,  nelle  sue  linee  generali,  e'  il
 seguente:   nel comune di Varna l'amministrazione comunale, prendendo
 lo spunto od il pretesto da alcuni lavori  da  eseguirsi  su  di  una
 strada comunale di un quartiere, ha deliberato di deviare il traffico
 su  di  una  strada  privata  affermando  che  comunque  essa  doveva
 intendersi come pubblica in forza di accordi (molto mal documentati e
 non risultanti dai libri tavolari) di alcuni  decenni  orsono  con  i
 proprietari.  Pare che il sindaco e ben quattro consiglieri comunali,
 abitando nel quartiere ben servito dalla nuova strada, agissero anche
 pro domo sua e quindi non fossero proprio indifferenti alla soluzione
 della vicenda. Il proprietario della strada ricorreva al TAR che  gli
 dava  pienamente  ragione,  annullando  gli  atti del comune e quindi
 riconoscendo che la strada era privata e che doveva essere chiusa  al
 traffico pubblico.  Il sindaco non ottemperava alla sentenza del TAR,
 che  doveva  essere posta in esecuzione immediatamente, come costante
 giurisprudenza, ma ricorreva  al  Consiglio  di  Stato  chiedendo  la
 sospensiva  (e con cio' riconoscendo di sapere che la sentenza andava
 eseguita|)  e,  dopo  che  il  Consiglio  rifiutava  la   sospensiva,
 persisteva  nell'emissione  di  ordinanze  illegittime  e  in atti di
 forza,  anche  con  l'ausilio   della   forza   pubblica,   recandosi
 personalmente, anche di notte, a togliere gli ostacoli e i segnali di
 divieto posti dal proprietario della strada.
   Il   pubblico  ministero,  all'esito  delle  indagini,  ha  chiesto
 l'archiviazione degli atti per infondatezza della  notizia  di  reato
 ritenendo  che  il  sindaco  e  gli  altri  interessati abbiano agito
 nell'interesse pubblico.
   Contro la richiesta di archiviazione  ha  proposto  opposizione  la
 parte offesa.
   Rileva  questo g.i.p. che, senza dubbio, allo stato dell'indagine e
 degli atti, emergono ipotesi  di  prepotenza  del  potere  di  fronte
 all'inerme  cittadino  e  cioe'  una  di  quelle situazioni che hanno
 portato  alle  lotte  per  lo  stato  liberale  e  per   le   moderne
 costituzioni,  specialmente  in  relazione  alla protervia con cui il
 sindaco ha persistito  nel  non  dare  esecuzione  ad  una  sentenza,
 sebbene  nel  frattempo  fossero  venute  meno persino le ragioni o i
 pretesti che avrebbero potuto dare una parvenza di legittimita' ad un
 provvedimento urgente e contingente.   E' evidente che  non  si  puo'
 assolutamente  parlare  di  difetto  dell'elemento psicologico in chi
 volutamente non da' esecuzione  ad  una  sentenza  che  sa  di  dover
 eseguire.
   Questo  g.i.p. pertanto dovrebbe fissare udienza di discussione per
 invitare poi il p.m. a formulare i capi di imputazione.
   Trattasi  pero'  ora   di   esaminare,   al   fine   di   stabilire
 l'ipotizzabilita'  di un reato, come i fatti cosi' esposti dovrebbero
 essere configurati in forza dell'art. 323 c.p., vigente all'epoca dei
 fatti, e come essi debbano essere  configurati  in  forza  del  nuovo
 testo.
   Il legislatore si e' da sempre preoccupato di sanzionare penalmente
 le  condotte  antidoverose  degli  impiegati e dipendenti pubblici al
 fine di salvaguardare il proprio patrimonio e la propria  immagine  e
 di punire approfittamenti e favoritismi.
   Il   c.p.   del   1930  prevedeva  (oltre  ai  reati  di  peculato,
 malversazione, corruzione, concussione), con un  ampio  ventaglio  di
 ipotesi che parevano lasciar poco scampo, i reati:
     di  omissione o rifiuto di atti d'ufficio, per il funzionario che
 indebitamente (vale a dire conoscendo l'antigiuridicita'  del  fatto)
 omettesse o ritardasse un atto d'ufficio (art. 328 c.p.);
     di  abuso  in atti d'ufficio in casi non preveduti specificamente
 dalla legge. Esso puniva ogni comportamento commesso  con  abuso  dei
 poteri  inerenti  alle proprie funzioni al fine di recare ad altri un
 danno o di procurare loro un vantaggio (art. 323 c.p.);
     di interesse privato in atti d'ufficio per  il  funzionario  che,
 anche  per  interposta  persona, prendesse un interesse privato in un
 atto  d'ufficio  (art.  342  c.p.).    L'insoddisfazione  per   certe
 applicazioni giudiziarie delle norme, ed in particolar modo di queste
 ultime due, che si prestavano ad estendere grandemente il concetto di
 "atto  d'ufficio",  portava  alla  modifica legislativa del 26 aprile
 1990 nr. 86 che ristrutturava in modo incisivo i reati contro la p.a.
 e specialmente l'art.  323  c.p.    Il  reato  di  interesse  privato
 scompanva, assieme al peculato per distrazione e alla malversazione a
 danno  dei  privati,  e  il  nuovo  323  c.p.,  con  l'intenzione  di
 sussumerli in se', punva il funzionario che al fine  di  procurare  a
 se'  o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare
 ad altri un danno ingiusto abusa del suo ufficio. ... Se il fatto  e'
 commesso  per  procurare  a  se'  o  ad  altri  un ingiusto vantaggio
 patrimoniale, la pena e' piu' severa.  Va subito detto che lo  sforzo
 di  semplificazione compiuto dal legislatore era stato notevole e che
 appariva vano il tentativo di precisare meglio le condotte  criminose
 che  un funzionario pubblico puo' porre in essere. Negli ultimi tempi
 vi e' stato un movimento rivolto a specificare  meglio  il  contenuto
 della  norma,  ma per larga parte si tratta di un movimento di natura
 politica,  piu'  che   giuridica,   che   vorrebbe   sottrarre   alla
 magistratura  un troppo penetrante controllo sulla p.a., o perche' si
 ritiene,  in  buona  fede,  che  l'eccesso di interventi ne paralizzi
 l'operativita' o perche', in mala fede, si  vorrebbe  una  p.a.  piu'
 manipolabile.
   La  Cassazione  del  resto  aveva  gia'  dichiarato  manifestamente
 infondata la questione (Sez.  6,  sent.  7071  del  15  luglio  1996)
 scrivendo:  "E' manifestamente infondata la questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 323 c.p. (abuso  di  ufficio)  con  riguardo
 all'art. 25 della Costituzione per presunta eccessiva genericita' del
 precetto.  I  requisiti  della  tipicita' e della determinatezza sono
 gia' di per se'  presenti  nell'elemento  materiale  che  ricomprende
 tutti    i    comportamenti    illegittimi    sotto    il    profilo,
 dell'incompetenza,  della  violazione  di  legge  e  dell'eccesso  di
 potere;   detti   requisiti   ricevono   ulteriore  contributo  dalla
 formulazione relativa alla modalita' del dolo specifico  che  postula
 autonoma ingiustizia del danno o del vantaggio".
   Massima  di tutta ovvieta' per il fatto che sarebbe vano il cercare
 di precisare le condotte criminose di cui sopra perche' il p.u.  puo'
 abusare  del proprio ufficio, dei propri poteri ufficiali, del potere
 stesso datogli dalla propria posizione, in infiniti modi a  cui  solo
 la  fantasia  umana  puo' porre un limite: egli puo' abusare agendo o
 non agendo, puo' abusare con atti formalmente legittimi  o  con  atti
 viziati,  puo'  abusare  sfruttando  le  informazioni  di  cui  e' in
 possesso a proprio beneficio, puo' incanalare  affari  lucrosi  verso
 persone  a  lui  vicine,  puo'  agire  direttamente  o per interposta
 persona, e cosi' via. Si pensi, per un paragone, al reato di  truffa:
 per descrivere tutti i raggiri ed inganni escogitati da chi vive alle
 spalle  altrui  ci  vorrebbe  un'enciclopedia  e  non  si  puo' certo
 pretendere che il legislatore possa descriverli e prevederli  in  una
 norma.  Il  p.u.    ha  il dovere di essere onesto ed imparziale e lo
 Stato ha il dovere di punire penalmente le condotte piu' gravi e  non
 vi  e'  dubbio che sia grave il favoritismo; e il legislatore avrebbe
 benissimo  potuto  limitarsi  ad  usare  questo  termine,   lasciando
 all'interprete  di  stabilirne, caso per caso, la sussistenza. Ne' si
 dica che il compito  sarebbe  stato  troppo  difficile  perche'  ogni
 cittadino  ha piena conoscenza del significato del termine e si rende
 benissimo conto se il p.u.  si e' comportato bene o male, di cio' che
 e' lecito e di cio' che e' illecito e il fatto che si possa discutere
 sul concetto stesso di favoritismo, come se  certi  favori  potessero
 essere  leciti,  dimostra  solo  la  decadenza dei costumi, ma non di
 certo l'inadeguatezza delle leggi. Del resto la figura  del  reato  a
 condotta  libera  e'  ben  noto  al nostro codice penale e non ha mai
 sollevato problemi di sorta.  Nel corso di questi ultimi  sette  anni
 il  reato  di  abuso in atti d'ufficio si era venuto configurando, ad
 opera della dottrina  e  della  giurisprudenza,  in  modo  chiaro  ed
 organico, concordando esse nel ritenere che elemento chiave del reato
 sia  la  strumentalizzazione  dell'ufficio  in  vista di un risultato
 ingiusto,  con  una   indistricabile   commistione   tra   l'elemento
 soggettivo  e  l'elemento oggettivo del reato, cosi' che quest'ultimo
 e'  costituito  "non  soltanto  dal  cosciente   e   volontario   uso
 illegittimo  dei poteri d'ufficio, ma anche dalla strumentalizzazione
 dell'atto a  vantaggio  del  destinatario,  in  modo  da  creare  una
 situazione  giuridica  di  vantaggio alla quale lo stesso non avrebbe
 avuto diritto" (Cass. 4 marzo 1994 n. 2733). Venivano cosi'  respinte
 quelle   impostazioni   dottrinali   che   vorrebbero   sempre,  come
 presupposto, l'esistenza di un atto amministrativo illegittimo (e, si
 dovrebbe   anche  concludere,  la  pregiudizialita'  della  giustizia
 amministrativa su quella penale).  Era anche del tutto  pacifico  che
 il  reato  era rivolto a tutelare i principi dell'imparzialita' e del
 buon andamento della  pubblica  amministrazione  (principi  in  parte
 sovrapponibili)  e  che percio' esso si configurava anche in mancanza
 di un danno per essa.
   L'uso da parte  del  legislatore  del  termine  "ingiusto",  veniva
 riferito al requisito dell'ingiustizia del risultato dell'atto, cosi'
 che  qualunque  alterazione  voluta della "par condicio dei cittadini
 fosse sufficiente a far ritenere l'atto ingiusto. In  altri  termini,
 l'aggiunta  dell'aggettivo ingiusto escludeva dall'area dell'illecito
 penale i comportamenti abusivi finalizzati a procurare  un  vantaggio
 conforme al diritto, ovvio essendo (o dovendo essere) che scopo della
 p.a.    non  e'  di  fare  il  comodo del funzionario o di vessare il
 cittadino, ma di aiutarlo ad ottenere cio' che gli  spetta  nel  modo
 piu' rapido e meno dispendioso.
   Si  riteneva  pacifico  che  la  norma  richiedesse che il soggetto
 avesse agito con dolo specifico, cioe' che egli si fosse proposto  il
 fine  speciale  di avvantaggiare o danneggiare altri. In genere pero'
 vi e' una  tale  commistione  tra  elemento  soggettivo  ed  elemento
 oggettivo  che,  inevitabilmente, si finisce per ravvisare il dolo in
 re ipsa in ogni caso in cui i rapporti tra funzionario e favorito  (o
 danneggiato)  rendono evidente il comportamento abusivo. Del resto si
 consideri che, come avviene in molti altri casi di dolo specifico, le
 ipotesi in cui esso non e' comprovato dallo stesso evento, sono molto
 rari; si pensi ad esempio come sia difficile ipotizzare un  furto  in
 cui  manchi  lo scopo di trarre un profitto. Inoltre riesce veramente
 difficile  immaginare  con  quale  tipo  di  attivita'  un   pubblico
 ufficiale  potrebbe dolosamente porre in essere abusi, senza con cio'
 proporsi vantaggi o danni per se' od altri.  Siccome  questi  possono
 essere  anche  solo morali, avrebbe dovuto giustamente rispondere del
 reato anche chi avesse abusato  solo  per  realizzare  sue  finalita'
 ideologiche  (ad es. funzionario che rifiuta una licenza di caccia in
 quanto e' animalista).  Normalmente poi chi abusa per favorire altri,
 intende con cio' procurare anche certi vantaggi a se'  stesso  ed  e'
 una  probatio diabolica il pretendere di penetrare nell'animo del reo
 per accertare la natura del movente.
   Era pacificamente ammesso  che  l'abuso  non  deve  necessariamente
 avere  come  risultato  un  atto amministrativo viziato nella forma e
 puo'  essere  realizzato  anche   senza   che   il   soggetto   ponga
 personalmente  in essere atti amministrativi (ad es. capo ufficio che
 indirizza una pratica in una certa direzione influendo  sugli  ignari
 subordinati), fermo restando che l'atto amministrativo illegittimo di
 per  se'  non e' prova di abuso. L'atto illegittimo e' un segnale che
 puo' spingere ad indagare sui motivi che hanno spinto un  soggetto  a
 porlo in essere, ma poi la prova deve investire proprio l'ingiustizia
 di questi motivi.
   In  alcuni casi la Cassazione aveva affermato che il dolo del reato
 era in re ipsa ma cio' non deve trarre  in  inganno  e  far  ritenere
 sussistere  una  presunzione  di  dolo.  Quando  in  molte massime si
 afferma che in certi casi il dolo e' in re ipsa si vuoi dire  che  e'
 la  stessa  situazione  di  fatto,  nel caso concreto, che fornisce a
 sufficienza la prova del dolo, e quindi il giudice fa un'affermazione
 in  fatto  che non puo' mai assumere valenza generale sul piano della
 teoria giuridica.
   Non vi e' dubbio che  in  base  a  questi  principi  gli  atti  del
 processo  in  esame  conterrebbero  piu'  che sufficienti elementi di
 prova per addivenire ad un rinvio a giudizio o quantomeno,  visto  la
 fase  in  cui  il  procedimento  si trova, per disporre la fissazione
 dell'udienza di discussione sulla richiesta di archiviazione.
   Questo  sistema  coerente  e  razionale,  frutto  di   decenni   di
 elaborazione  giuridica,  e' stato profondamente alterato dall'art. 1
 della legge 16 luglio 1997 n.  234  che  ha  introdotto  le  seguenti
 modifiche:
     1)  Si  ha  abuso solo se il pubblico ufficiale o l'incaricato di
 pubblico servizio agisce  in  violazione  di  norme  di  legge  o  di
 regolamento  oppure  se  essi omettono di astenersi in presenza di un
 interesse proprio o di un prossimo congiunto;
     2)  Si  ha  abuso  solo  se  i  suddetti  con  la   loro   azione
 intenzionalmente  procurano  a  se'  o ad altri un ingiusto vantaggio
 patrimoniale o arrecano ad altri un ingiusto danno.
   Detto in parole  povere  le  conseguenze  pratiche  di  una  simile
 formulazione sono le seguenti:
     non   commette  piu'  alcun  abuso  il  funzionario  che  applica
 circolari  o  disposizioni   d'ufficio   in   modo   discriminato   e
 discriminante  e  con cio' favorisce amici e danneggia nemici: quindi
 si   introduce   nella   pubblica   amministrazione   il    principio
 dell'arbitrio e del favoritismo.
   E'  appena  il  caso  di osservare come non sia accettabile la tesi
 secondo cui per valutare la sussistenza  della  violazione  di  legge
 occorrerebbe  far  riferimento ai concetti del diritto amministrativo
 che ricomprende in essa ogni  vizio  di  legittimita'  diverso  dall'
 eccesso  di  potere  e dall'incompetenza e quindi anche la violazione
 dei principi generali dell'azione amministrativa, quale il  principio
 di imparzialita'.  La volonta' del legislatore deducibile dalla norma
 stesa  e  dai  lavori  preparatori, fanno intendere che la violazione
 della legge o del regolamento deve essere intesa  in  senso  stretto,
 come  violazione di specifiche norme di legge imperative. La dicitura
 usata fa intendere inoltre che il funzionario sara'  comunque  sicuro
 dell'impunita' quando abbia l'astuzia di non violare la legge in modo
 scoperto,  ma  si cauteli usando interpretazioni di comodo per quanto
 cervellotiche  e  anomale.    Comunque  una  diversa  interpretazione
 estensiva  porterebbe  anch'essa  a  soluzioni  in  contrasto  con  i
 principi costituzionali  (ad  esempio  irrazionalita'  di  punire  la
 violazione  di  legge e non anche il piu' subdolo eccesso di potere o
 la plateale incompetenza);
     non commette piu' alcun abuso il funzionario che non  si  astiene
 in  presenza  di  un  interesse  dell'amico  intimo, dell'amante, del
 convivente,  di  qualunque  sesso  esso  sia.  Il  presidente   della
 commissione  di esame che va a letto con un candidato, il giudice che
 assolve la convivente, il funzionario che favorisce sfacciatamente  i
 propri  elettori  o i propn parenti non troppo stretti (ad esempio il
 figlio del  cognato),  non  sono  piu'  punibili  e  potranno  essere
 chiamati  a  rispondere disciplinarmente solo se dipendenti pubblici.
 Quindi, anche il questo caso  il  trionfo  del  favoritismo  e  dello
 spirito  mafioso  quale  consentita libera estrinsecazione del potere
 acquisito:
     non  commette  piu'  abuso di ufficio chi intenzionalmente (cioe'
 dolosamente) viola leggi o regolamenti se con cio' non procura a  se'
 o   ad   altri  un  ingiusto  vantaggio  patrimoniale.  Non  e'  piu'
 sufficiente agire allo scopo di procurare un danno od  un  vantaggio,
 ma occorre che questi siano effettivamente procurati. Vale a dire che
 il  funzionario  puo'  fare  carte false, calpestare il diritto, puo'
 omettere di astenersi in casi doverosi purche' con  cio'  non  voglia
 procurare  un  vantaggio  patrimoniale: piu' o meno il caso di quando
 Caligola nomino'  senatore  il  suo  cavallo,  ipotesi  che  potrebbe
 nuovamente  verificarsi  se un sindaco decidesse, contro ogni legge e
 volonta' contraria, di intitolare una piazza del  paese  alla  moglie
 (che non ne avrebbe alcun vantaggio patrimoniale), cosi' legittimando
 ogni  abuso.  Si  aggiunga  poi che la differenziazione tra vantaggio
 patrimoniale e non patrimoniale e' sovente  cosi'  esigua  da  servir
 solo  per cavilli.  Percio' la norma legittima, oltre al favoritismo,
 anche la  prepotenza  burocratica,  il  potere  esercitato  senza  il
 rispetto  delle  leggi, magari nascondendosi dietro pretesi interessi
 della collettivita', da parte di chi dimentica che la valutazione sul
 valore degli interessi, sul loro bilanciamento, e' compito  anch'esso
 del legislatore (talvolta ad un livello costituzionale) e che leggi e
 regolamenti  sono fatti apposta per assicurare il rispetto dei valori
 costituzionali  di  cui  gli  interessi  concreti   sono   solo   una
 derivazione.   Rileva percio' questo g.i.p. che, in forza della nuova
 norma e alla luce dei principi sopra esposti, nel caso di specie  non
 sarebbe  piu'  configurabile  il  reato di abuso d'ufficio perche' il
 sindaco (o chi con esso):
     non avrebbe violato alcuna norma di legge  o  regolamento,  visto
 che una sentenza del TAR non e' tale e che egli ha posto in atto atti
 formalmente leciti;
     non  era  in presenza di una situazione che avrebbe comportato la
 sua astensione (vedasi quanto detto al riguardo  dalla  sentenza  del
 TAR);
     non  ha  agito  per procurare un vantaggio patrimoniale diretto e
 immediato ai propri beni, ma solo per una maggior comodita' sua e  di
 chi abita nel quartiere;
     non ha agito "intenzionalmente" per cagionare un danno alla parte
 offesa, in quando il danno e' senza dubbio una conseguenza non voluta
 dei suoi atti.
   E'  doveroso  a  questo  punto  porsi  il  problema  se  una simile
 situazione sia conforme ai principi costituzionali.
   Ritiene questo g.i.p. che la nuova formulazione dell'art. 323  c.p.
 violi numerose norme costituzionali e cioe':
     l'art.   3,   primo   comma,   della  Costituzione,  rispetto  al
 trattamento  del  reo,  in  quanto  situazioni  di  eguale  gravita',
 altrettanto  socialmente  riprovevoli,  ricevono  diverso trattamento
 sulla base di una distinzione formale (violazione o  meno  di  legge)
 del  tutto priva di razionalita'.  Si consideri che la norma consente
 di perseguire solamente certe  condotte  illecite,  macroscopiche  ed
 appariscenti,  di fronte a cui il cittadino puo' tutelarsi facilmente
 con un ricorso al giudice civile od amministrativo, e assicura invece
 l'impunita' alle condotte subdole, a quegli atti  illeciti  posti  in
 essere  con  maneggi,  per interposta persona, con scambi di favori e
 favoritismi, a tutte quelle manifestazioni piu' squallide del  potere
 che  tanto  hanno  fanno  apprezzare  al  cittadino il fenomeno "mani
 pulite".  Si  consideri  ancora  che una norma che richiede requisiti
 cosi'  formalistici  consentira'  di  punire  solo   il   funzionario
 sprovveduto,  quello che e' tanto sciocco da non astenersi nella cosa
 propria, quando sarebbe cosi' semplice farsi sostituire da un collega
 compagno  di  merende,  a  cui  ricambiare  il  favore  in   un'altra
 occasione;
     l'art.  3, primo comma, della Costituzione, rispetto al cittadino
 soggetto a chi e' investito di pubbliche funzioni, poiche'  qualunque
 norma  che lasci impuniti, e quindi, di fatto, legittimi, favoritismi
 e prepotenze diviene uno strumento di diseguaglianza del cittadino;
     l'art.  3,  secondo  comma,   della   Costituzione   perche'   il
 legislatore e' venuto meno al dovere di rimuovere gli ostacoli che si
 possono frapporre alla liberta' ed eguaglianza dei cittadini;
     l'art.  79  della  Costituzione il quale prevede che l'amnistia o
 l'indulto possano essere deliberati solo con la maggioranza  dei  due
 terzi  dei  componenti  di  ciascuna  Camera.  Nel caso di specie, di
 fronte alla difficolta' di ottenere una maggioranza  qualificata  per
 il  cosiddetto  "colpo  di  spugna",  il  Parlamento ha fatto ricorso
 all'escamotage  dell'abolizio  criminis,   procedimento   sulla   cui
 legittimita' e' lecito sollevare qualche dubbio;
     l'art.   97,  primo  comma,  della  Costituzione  che  impone  di
 organizzare i pubblici uffici in modo che siano  assicurati  il  buon
 andamento   e   l'imparzialita'   dell'amministrazione.   Come   puo'
 assicurare questo risultato una norma che in  modo  incontrovertibile
 consente  i favoritismi, le raccomandazioni, le prepotenze, i maneggi
 che rimangono a monte dell'atto amministrativo, da parte del pubblico
 funzionario o del pubblico amministratore? Come puo' farlo una  norma
 che   consente   impunemente,   ad   esempio,   di  esprimere  pareri
 discrezionali assolutamente  di  comodo  o  pilotati  (non  si  viola
 nessuna legge|), che consente al funzionario di boicottare la pratica
 di un nemico, ecc. ecc.? Come si puo' perseguire la corruzione se non
 si  consente di indagare su quello che ne e' il sintomo visibile piu'
 chiaro ed evidente e cioe' l'ingiusto vantaggio conseguito?
   La questione di costituzionalita' e'  senza  dubbio  rilevante  nel
 caso in esame rispetto a cui, secondo la norma anteriore, si dovrebbe
 fissare  l'udienza di discussione per il rinvio degli atti al p.m.  e
 l'elevazione di imputazione a carico degli indagati e, secondo quella
 subentrata ed ora in vigore, si dovrebbe accogliere la  richiesta  di
 archiviazione  (senza fissazione di alcuna udienza in quanto non sono
 richieste nuove prove).