IL CONSIGLIO DI STATO
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul  ricorso  in  appello
 proposto dal dott. Savino Strippoli, rappresentato e difeso dall'avv.
 Ugo Sgueglia, elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma,
 via  Ottorino Lazzarini n. 19; contro il Ministero dell'universita' e
 della ricerca scientifica e tecnologica, in persona del  Ministro  in
 carica,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
 domiciliato presso i suoi uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12; e
 la commissione di disciplina del Ministero dell'universita'  e  della
 ricerca scientifica e tecnologica, non costituita; per l'annullamento
 della sentenza del tribunale amministrativo regionale del Lazio, sez.
 III, 3 luglio 1996, n. 1288;
   Visto il ricorso con i relativi allegati;
   Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'amministrazione;
   Vista  la  memoria  prodotta  dall'amministrazione a sostegno delle
 rispettive difese;
   Visti gli atti tutti della causa;
   Vista l'ordinanza 18 febbraio 1997, n. 295, con la  quale  l'affare
 e' stato rimesso all'adunanza plenaria delle sezioni giurisdizionali;
   Relatore,  alla pubblica udienza del 21 aprile 1997, il consigliere
 Filippo Patroni Griffi;
   Uditi l'avv. Sgueglia e l'avv. dello Stato Sica;
   Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
                               F a t t o
   Con decreto del 16 ottobre  1995  il  Ministro  dell'universita'  e
 della   ricerca   scientifica   inflisse   al  ricorrente,  dirigente
 superiore, la sanzione disciplinare della  destituzione  a  decorrere
 dall'11  maggio  1993  per fatti attinenti al servizio prestato quale
 direttore amininistrativo dell'Universita' "La Sapienza" di Roma.  La
 contestazione  degli  addebiti,  formulata  il  17  maggio  1995, era
 pervenuta all'interessato il 24 maggio 1995; le giustificazioni erano
 state prodotte il 7 giugno 1995 e la commissione di disciplina si era
 riunita il 29 agosto 1995.
   Avverso tale provvedimento l'interessato  ha  proposto  ricorso  al
 tribunale  amministrativo  regionale  per  il  Lazio,  il  quale, con
 sentenza 3 luglio 1996, n. 1288, lo ha respinto.
   Propone appello lo Strippoli.
   Resiste l'amministrazione.
   Con ordinanza 18  febbraio  1997,  n.  295,  la  sezione  sesta  ha
 deferito l'affare all'adunanza plenaria delle sezioni giurisdizionali
 del Consiglio di Stato.
   All'udienza  del  21  aprile  1997, la causa e' stata trattenuta in
 decisione.
                             D i r i t t o
   1. - La questione di diritto sulla quale l'affare e' stato devoluto
 a questa adunanza plenaria concerne la portata dell'art. 9, comma  2,
 della  legge 7 febbraio 1990, n. 19, in forza del quale nei confronti
 del pubblico dipendente, condannato in sede penale, "la  destituzione
 puo'  sempre essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare,
 che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni  dalla
 data  in  cui  l'amministrazione  ha  avuto  notizia  della  sentenza
 irrevocabile e concluso nei successivi novanta giorni".
   2. - Come e' stato posto in evidenza nell'ordinanza di  rimessione,
 tale   norma   ha   dato  luogo  a  notevoli  difficolta'  di  ordine
 interpretativo.
   2.1. - In sede di prima applicazione, alcune sentenze dei tribunali
 ammistrativi regionali hanno ritenuto che e'  senz'altro  viziato  da
 violazione di legge il provvedimento di destituzione adottato dopo la
 scadenza  del  termine di novanta giorni, previsto per la conclusione
 del procedimento.
   Tale tesi  si  fonda  sul  testo  della  norma,  che  ha  adoperato
 un'espressione  ("deve  essere  ...  concluso")  da  cui si evince la
 volonta'  del  legislatore  di  delimitare  l'esercizio  del   potere
 disciplinare, sotto il profilo temporale.
   Si   e'  pertanto  qualificato  come  "perentorio"  il  termine  di
 conclusione del procedimento disciplinare.
   Altre sentenze dei tribunali amministrativi regionali hanno  invece
 attribuito carattere "ordinatorio" al medesimo termine, rilevando che
 la   previgente   normativa   sul  procedimento  disciplinare  (e  in
 particolare le disposizioni contenute nel testo unico n. 3 del  1957)
 prevede  varie  ipotesi  procedimentali,  che mirano ad equilibrare i
 poteri  dell'amministrazione  con  le  esigenze  della   difesa   del
 dipendente:   non puo' ritenersi che il rispetto dei distinti termini
 previsti  per  tali   fasi   renda   illegittimo   il   provvedimento
 disciplinare,  pur  adottato  dopo novanta giorni dalla contestazione
 degli addebiti.
   2.2.   -   Questo   Consiglio,   sia   in   sede   consultiva   che
 giurisdizionale,  ha  costantemente  ritenuto  che non sia di per se'
 viziato il provvedimento disciplinare adottato dopo la  scadenza  del
 termine di novanta giorni.
   La  commissione  speciale  del  pubblico  impiego,  con  parere  11
 novembre  1991,  n.  275,  ha  rilevato  le  manifeste   incongruita'
 derivanti  dalla  previsione di tale termine, poiche' l'art. 9, comma
 2, - introdotto  per  dare  attuazione  ai  principi  espressi  dalla
 pronuncia  della  Corte  costituzionale  14 ottobre 1988, n. 971, che
 dichiarava illegittima la destituzione automatica - non  ha  previsto
 alcuna norma di coordinamento con la legislazione precedente.
   La  commissione,  sul  presupposto che in sede di esame dei quesiti
 proposti al Consiglio di Stato in sede consultiva non possono  essere
 sollevate   questioni   di   costituzionalita'   innanzi  alla  Corte
 costituzionale, ha rilevato che:
     l'amministrazione deve comunque rispettare il termine di  novanta
 giorni  concludendo  il procedimento, essendovi il pubblico interesse
 alla corretta e rapida definizione della situazione conseguente  alla
 condanna penale dell'impiegato;
     il  superamento  del termine non comporta sempre l'estinzione del
 procedimento disciplinare, poiche' si deve accertare se esso  risulti
 giustificato, nel singolo caso di specie, dal documentato svolgimento
 delle  fasi endoprocedimentali fissate dal testo unico n. 3 del 1957,
 purche' queste ultime siano state espletate nel rigoroso rispetto dei
 termini specificatamente previsti dalla legge.
   2.3.  -  La  successiva giurisprudenza di questo Consiglio, in sede
 giurisdizionale, ha per lo  piu'  condiviso  le  conclusioni  cui  e'
 giunta  la  commissione  speciale,  verificando  di volta in volta se
 risultassero sussistenti  "adeguate  ragioni  giustificatrici"  della
 conslusione del procedimento disciplinare oltre il prescritto termine
 di novanta giorni.
   La  sentenza  impugnata  si  e'  adeguata  a  tale  giurisprudenza,
 rilevando che, in concreto, nessuna particolare ragione  giustificava
 l'adozione  del provvedimento di destituzione dopo il superamento del
 termine di  novanta  giorni,  decorrente  dalla  comunicazione  degli
 addebiti.
   Altre  volte, questo Consiglio ha qualificato come "ordinatorio" il
 medesimo  termine,  ritenendo  di  per   se'   irrilevante   il   suo
 superamento.
   3. - Rileva l'adunanza plenaria che, a distanza di oltre sette anni
 dall'entrata  in  vigore della legge n. 19 del 1990, non si e' ancora
 formato un "diritto vivente" sull'effettivo  ambito  di  operativita'
 dell'art. 9, secondo comma.
   Cio'  e'  dovuto  al fatto che il suo tenore letterale, malgrado la
 sua sintetica linearita', non e' apparso coerente  (alla  commissione
 speciale   e  alle  singole  sezioni  di  questo  Consiglio)  con  la
 precedente normativa sul procedimento disciplinare e, in particolare,
 con le disposizioni contenute nel testo unico n. 3 del 1957  e  negli
 altri ordinamenti di settore.
   Tali   disposizioni,   che   sviluppano   i  principi  garantistici
 tradizionalmente enunciati in  materia  fin  dal  secolo  scorso  dal
 Consiglio  di  Stato,  ha  previsto alcune "fasi endoprocedimentali",
 delimitando i poteri istruttori  e  punitivi  dell'amministrazione  e
 contemperandoli con le esigenze di difesa dell'incolpato.
   L'art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990, nel prevedere che il
 procedimento  disciplinare  deve  essere  iniziato  entro centottanta
 giorni dalla condanna e concluso nei successivi  novanta  giorni,  si
 puo' dunque prestare a una duplice interpretazione:
     a) o si ritiene che il legislatore abbia disposto l'indefettibile
 conclusione  del procedimento disciplinare entro il medesimo termine,
 potendo   l'amministrazione   comunque   adottare   l'atto   punitivo
 prescindendo  dalle regole procedimentali sancite in primis dal testo
 unico n.   3 del 1957: e  allora  si  devono  ritenere  abrogate  per
 incompatibilita' tutte le norme che hanno articolatamente previsto le
 verie  fasi  endoprocedimentali,  poste a difesa dell'incolpato e che
 non possono svolgersi durante i novanta giorni;
     b) o  si  ritiene  che  il  legislatore,  come  ha  osservato  la
 commissione  speciale nel richiamato parere, ha fissato un termine la
 cui violazione non comporta di  per  se'  l'illegittimita'  dell'atto
 punitivo,  potendo  il  giudice  amministrativo di volta in volta, in
 presenza di specifiche censure dell'interessato, valutare se siano  o
 meno  sussistenti  "adeguate  ragioni  giustificatrici"  che  possono
 spiegare il superamento del termine.
   4.  -  L'adunanza  plenaria  ritiene  che  questa   seconda   linea
 interpretativa debba essere esclusa, per le seguenti ragioni:
     a)  il  dato  letterale dell'art. 9, secondo comma, e' chiaro nel
 disporre che la conclusione del procedimento disciplinare debba  aver
 luogo senza deroghe entro il termine di novanta giorni dal suo inizio
 (in  tal  senso, v. anche il punto 3 della motivazione della sentenza
 della Corte costituzionale 6 novembre 1991, n. 415);
     b)  la  sua  ratio e' stata per il legislatore l'esigenza che sia
 prontamente definita  la  particolare  situazione  in  cui  versa  il
 pubblico dipendente, a tutela di questi quanto dell'amministrazione;
     c)  non puo' ammettersi che, in una materia tanto delicata, nella
 quale sono in discussione aspetti  attinenti  alla  personalita'  del
 dipendente  e  alla prosecuzione della sua attivita' lavorativa (art.
 Corte costituzionale, sentenza n. 971  del  1988),  non  vi  sia  una
 regola  certa,  univoca,  di  facile  applicazione  sulla  durata del
 procedimento disciplinare.
   Per  quanto  riguarda  quest'ultimo  aspetto,  ritiene   l'adunanza
 plenaria  che  anche  per l'illecito disciplinare debba applicarsi il
 principio di chiarezza  o  di  determinatezza  della  disciplina  che
 consente la sua punizione.
   In  base ad un principio generale, applicabile non solo nel diritto
 penale, ma piu' in  generale  nel  diritto  punitivo,  devono  essere
 predeterminate   dall'ordinamento   le  possibili  conseguenze  della
 commissione di un illecito.
   Per quanto riguarda  l'illecito  disciplinare,  tale  principio  si
 applica   sul   piano   sostanziale   (potendo  la  legge  attribuire
 all'amministrazione  il  potere  disciplinare  in  presenza  di   una
 condanna  penale  o  di altri preindividuati presupposti) e sul piano
 procedimentale (potendo l'amministrazione  adottate  l'atto  punitivo
 entro   termini   stabiliti  e  mediante  gli  atti  individuati  dal
 legislatore).
   Il secondo comma dell'art. 9 in esame non ha espressamente previsto
 che l'amministrazione  possa  concludere  il  procedimento  oltre  il
 termine  di  novanta  giorni  dal suo inizio "in presenza di adeguate
 ragioni giustificatrici", ne' queste possono porre nel nulla la norma
 ed essere in concreto ravvisate dal giudice amministrativo,  con  una
 indagine ex post non basata su alcun obiettivo canone interpretativo:
 la  legge  non  ha  previsto  alcuna  eccezione  alla  regola per cui
 l'amministrazione puo' irrogare la sanzione disciplinare  solo  entro
 il  termine  fissato,  ne'  ha  previsto  che  la  "scusabilita'" del
 superamento  del  termine  possa   essere   ravvisata   dal   giudice
 amministrativo.
   5.  - L'unica possibile interpretazione del secondo comma dell'art.
 9 in esame risulta essere quella conforme al suo tenore letterale.
   Il legislatore ha delimitato una parentesi temporale entro la quale
 puo' essere esercitato  il  potere  disciplinare  a  seguito  di  una
 condanna penale, il cui termine iniziale e' quello centottanta giorni
 dalla  condanna  e il cui termine finale e' quello di novanta giorni,
 decorrente dall'inizio del procedimento: il superamento del  medesimo
 termine  comporta  l'illegittimita'  del  provvedimento  punitivo per
 violazione di legge.
   6. - Va a questo punto rilevato che l'art. 9, secondo comma, per la
 parte in  cui  ha  disposto  che  il  potere  punitivo  possa  essere
 esercitato  indefettibilmente  entro  il  termine  di novanta giorni,
 potrebbe  porsi  in  contrasto  con  vari  principi   costituzionali:
 l'adunanza    plenaria    ritiene   d'ufficio   che   risultino   non
 manifestamente infondate le relative questioni.
   Necessariamente,  l'amministrazione  pubblica  puo' rispettare tale
 termine solo non applicando le norme garantistiche,  i  cui  principi
 essenziali sono stati enunciati nel testo unico n. 3 del 1957.
   La  riconosciuta natura "perentoria" del termine di novanta giorni,
 in altri termini, comporta che non possono che intendersi abrogate le
 precedenti  norme  garantistiche,   riguardanti   le   diverse   fasi
 endoprocedimentali.
   Il  secondo comma dell'art. 9 (pur essendo interpretabile nel senso
 che  l'atto  punitivo  deve  essere  quanto  meno   preceduto   dalla
 fissazione  di  un termine per le controdeduzioni dell'incolpato) non
 consente alla pubblica amministrazione,  che  intenda  rispettare  il
 termine  di  novanta  giorni, di porre in essere tutti gli altri atti
 endoprocedimentali, previsti a  tutela  della  difesa  dell'incolpato
 gia' del testo unico n. 3 del 1957.
   Pertanto,  il  secondo comma dell'art. 9 della legge n. 19 del 1990
 potrebbe porsi in contrasto con i seguenti  principi  costituzionali,
 in  quanto  non si sono tenute in adeguata considerazione le esigenze
 di difesa  dell'incolpato  e  gli  interessi  di  cui  e'  portatrice
 l'amministrazione.
   In  primo  luogo,  appare  manifestamente  illogica  -  e quindi in
 possibile contrasto con l'art. 3 della Costituzione - la  scelta  del
 legislatore  di fissare il contenuto termine di novanta giorni per la
 conclusione   del   procedimento    disciplinare,    abrogando    per
 incompatibilita'  la  precedente  normativa,  posta  a  difesa  della
 posizione dell'incolpato e mirante all'accertamento ed alla  adeguata
 valutazione  dei  fatti  sulla  base  di  un articolato procedimento,
 caratterizzato dalle fasi endoprocedimentali di cui al testo unico n.
 3 del 1957.
   In secondo luogo, appare violato il principio del buon andamento di
 cui all'art. 97  della  Costituzione,  poiche'  la  ristrettezza  del
 termine  di novanta giorni puo' in concreto non consentire l'adeguata
 valutazione  dei  fatti,  in  una  materia  tanto  delicata,  in  cui
 l'ordinamento   mira   al   giusto   contemperamento  delle  esigenze
 dell'amministrazione  con  la  posizione   dell'incolpato,   la   cui
 prosecuzione  dell'attivita' lavorativa e' tutelata dall'art. 4 della
 Costituzione (Corte cost., sentenza n. 971 del 1988).
   In  definitiva,  rileva  l'adunanza  plenaria  che  a  un   sistema
 normativo  coerente e razionale, recante la disciplina procedimentale
 dell'irrogazione delle sanzioni disciplinari, si e'  sovrapposta  una
 normativa  che,  nella  sua  scheletricita', non puo' trovare pratica
 applicazione che confliggendo con principi di natura costituzionale.
   Deve essere pertanto  disposta  la  rimessione  di  tali  questioni
 all'esame della Corte costituzionale.
   La  rilevanza  delle  questioni  discende dal carattere logicamente
 preliminare della relativa censura, che pone in discussione in radice
 l'esercizio del potere esercitato.