IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza decidendo sulla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 228 r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sollevata dalla difesa degli imputati in relazione all'art. 3 della Costituzione nel procedimeto penale n. 2243/7/94 r.g. nuovo rito nei confronti di: Marsiglia Valeria, nata a Napoli il 4 luglio 1939, Sica Mario nato a Potenza il 15 febbraio 1939, Angeloni Giuseppe nato a Trapani il 1 agosto 1929, Ferlaino Corrado nato a Napoli il 18 maggio 1931, Mansi Ida nata a Ravello il 14 febbraio 1948, Boldoni Patrizia nata a Napoli il 27 dicembre 1950, imputati del delitto pp. dagli artt. 81 cpv., e 112 c.p., 237 e 228 r.d. 16 marzo 1942, n. 267 e d.-l. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito in legge 3 aprile 1979, n. 95, perche', in concorso tra loro, i primi tre in qualita' di commissari del gruppo Lauro in amministrazione straordinaria ex legge Prodi e gli altri in qualita' di beneficiari, il Ferlaino quale presidente del consiglio di amministrazione della "Del Vecchio Costruzioni S.p.a." e comunque gestore di fatto dell'"Habitat Europa S.r.l." (del quale risulta amministratrice delegata Ida Mansi) e dell'Iper S.p.a. (della quale risulta amministratore delegato Patrizia Boldoni), con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, prendevano interesse privato negli atti della gestione dell'amministrazione straordinaria del gruppo "Flotta Lauro" ed in particolare: 1) Marsiglia, Sica ed Angeloni stipulavano con Ida Mansi, nella qualita' di amministratore delegato dell'Habitat Europa S.r.l., un preliminare di compravendita avente ad oggetto l'immobile denominato Villa Lauro, sito in via Crispi di Napoli per il prezzo di L. 12.000.000.000 pari a meno del 50% del valore di mercato e determinato avvalendosi di criteri disomogenei rispetto a quelli usati per altre vendite e comunque irrazionali ed evidentemente errati (quale, ad esempio, l'applicazione di un saggio di incremento del valore immobiliare pari a quello ISTAT sull'aumento del costo della vita, in relazione ad un territorio e ad un arco temporale nei quali i valori immobiliari hanno subito aumenti di gran lunga superiori), tanto piu' che derivavano da una perizia giudicata unanimemente inaffidabile, ed in violazione inoltre della disposizione ministeriale di cui alla circolare n. 100690 del 22 marzo 1986 specificamente indirizzata ai commissari delle imprese di amministrazione straordinaria. L'aggiudicazione della gara all'Habitat Europa S.r.l. e' poi stata preceduta dall'adozione di modalita' di svolgimento dell'asta disomogenee rispetto a quelle usate per altri cespiti anche di rilevante valore (prevedendosi solo in questa occasione un incanto dopo l'apertura delle buste con offerta segreta ed ulteriore possibilita' di aumento del sesto) e comunque favorevoli all'Habitat Europa S.r.l., perche' tali da limitare grandemente o addirittura escludere i soggetti economici (banche, enti e grandi aziende) che dovevano ritenersi piu' di ogni altro interessati all'acquisizione dell'immobile, e cia' in relazione: a) ad una insuffcienza di adeguata pubblicita', soprattutto mancata divulgazione dell'avviso con le forme della pubblicita' commerciale (es. pubblicita' preventiva mediante predisposizione di opuscoli contenenti informative, descrizione e materiale fotografico, da inviare ai principali enti e gruppi nazionali ed internazionali, con preannuncio dei termini e delle modalita' essenziali dell'asta. Pubblicita' del bando d'asta da effettuarsi in giornali finanziari, in riviste specialistiche ed economiche ed in giornali, finanziari e non, stranieri); b) insufficiente descrizione del bene nel bando, evidenziandone il solo particolare pregio architettonico, storico ed urbanistico, l'ubicazione nel centro della citta' in zona ove trovansi consolati, banche, sedi d'istituzioni culturali, e l'essere dotato di un parco, di fabbricati di servizio ed ampi spazi di parcheggio all'aperto; c) insufficienza dei termini tra la pubblicazione del bando e la presentazione delle offerte, con conseguente cattivo esercizio del potere discrezionale previsto dall'art. 576, n. 4 c.p.c., in relazione alla notoria lentezza e' complessita' delle procedure deliberative ed esecutive degli enti e dei gruppi che dovevano ritenersi piu' di ogni altro soggetti interessati al cespite, tanto piu' ove si consideri che, successivamente alla presentazione dell'offerta, era prevista una immediata gara in aumento e che anche la procedura di rialzo di un sesto doveva essere posta in essere nel brevissimo termine di giorni dieci, rialzo che ove si tenga conto del solo prezzo a base d'asta, doveva essere dell'importo minimo di due miliardi; 2) Marsiglia, Sica ed Angeloni separavano ed estrapolavano dal complesso denominato contrada Villazzano, senza altra ragione che non fosse quella di favorire la societa' Iper ed in modo assolutamente irrazionale sotto il profilo gestionale, e ponevano poi in vendita le particelle di terreno agricolo 138, 140 e 141 di are 30,42 site in Massa Lubrense, che risultavano poi aggiudicate alla "Del Vecchio Costruzioni S.p.a." amministrata, nella sua qualita' di presidente del consiglio di amministrazione, da Ferlaino Corrado, per il prezzo di L. 61.501.000: prezzo di gran lunga inferiore all'incremento di valore che l'acquisto ha comportato per la Iper S.p.a. (amministrata formalmente da Patrizia Boldoni, ma di fatto in capo allo stesso Ferlaino), proprietaria di un terreno a monte, sul quale sono in corso di realizzazione opere edilizie, che solo attraverso l'acquisizione delle dette particelle gia' di proprieta' del Gruppo Lauro ha acquisito la possibilita' di realizzare un comodo collegamento con la strada provinciale. Tutto cia' avvenendo in presenza di rapporti di amicizia e di frequentazione tra Marsiglia Valeria e Ferlaino Corrado. In Napoli tra il l990 ed il 1991. 1. - Nel corso del dibattimento, all'udienza del 30 ottobre 1997 la difesa degli imputati ha sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 228 r.d. 16 marzo 1942, n. 267 per ritenuto contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Dopo aver premesso che l'art. 228 legge fallimentare - il quale punisce l'interesse privato del curatore negli atti del fallimento - e' strutturato in maniera identica all'art. 324 c.p. e che l'abrogazione ex art. 20 legge 26 aprile 1990, n. 86 della anzidetta norma non ha comportato un'indiscriminata abolitio criminis delle condotte del pubblico ufficiale, gia' qualificabili come fatti di interesse privato in atti di ufficio, ma la parziale riconduzione di quelle alla fattispecie di cui all'art. 323 c.p., come novellato dall'art. 13 legge n. 86/1990 cit., osserva la difesa degli imputati che la successiva ulteriore modifica, ex art. 1 legge 16 luglio 1997, n. 234, dell'art. 323 c.p. ha determinato, rispetto alla situazione precedente, un'ingiustificata disparita' di trattamento tra il curatore fallimentare (o soggetti equiparati) e il pubblico ufficiale con particolare riferimento al profilo sanzionatorio e a quello della identificazione delle condotte incriminate. Sotto il primo profilo, perche', pur a voler scontare l'intento del legislatore di "attribuire una specialita' ... e un connotato di maggiore gravita' ...." all'ipotesi di cui all'art. 228 (Corte cost., 7 dicembre 1994, n. 414), tali qualificazioni non giustificherebbero un trattamento sanzionatorio che, a seguito dell'ultima novella legislativa, configura un sistema nel quale, l'abuso patrimoniale commesso dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico servizio, e' punito con una pena edittale pari, nel minimo, ad un quarto e, nel massimo, alla meta' di quella prevista per il curatore, determinando cosi' un differenziale nel rapporto sanzionatorio contrario a qualsiasi canone di ragionevolezza. Sotto il secondo profilo, perche' per effetto delle modifiche apportate dalla legge 16 luglio 1997, n. 234, si sarebbe determinata una ingiustificata parziale abolitio criminis di alcune delle condotte del pubblico ufficiale gia' qualificabili come interesse privato in atti di ufficio e dalla novella del 1990 ricondotte alla fattispecie incriminatrice dell'art. 323 c.p. Sicche', allo stato attuale della legislazione, il curatore fallimentare (e gli altri soggetti equiparati) sarebbero gli unici pubblici ufficiali che rispondono indiscriminatamente di qualsiasi condotta astrattamente riconducibile all'assunzione di un'interessenza in un affare attinente all'ufficio esercitato, laddove gli altri rispondono delle stesse condotte solo se agiscono in violazione di norme di legge o di regolamento oppure omettono di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto. 2. - La prima censura di incostituzionalita', fondata su una asserita disparita' di trattamento sotto il profilo sanzionatorio tra la fattispecie dell'interesse privato riferita al curatore fallimentare e quella dell'analogo reato gia' previsto per il pubblico ufficiale dall'abrogato art. 324 c.p. e parzialmente sussunta dalla legge 26 aprile 1990, n. 86 tra le condotte incriminatrici dell'art. 323 c.p. novellato, e' manifestamente infondata. Come e' noto la giurisprudenza della Corte costituzionale ha piu' volte affermato che "il principio di eguaglianza esige che la pena sia proporzionata al fatto commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia, nel contempo, alla funzione di difesa sociale e a quella di tutela delle posizioni individuati" (Corte cost. n. 167/1982); ma la valutazione del legislatore puo' essere sindacata solo se la disparita' del trattamento sanzionatorio si dimostri "cosi' palesemente irrazionale da attingere l'arbitrarieta'" (Corte cost. n. 167/1982), o conduca "a sperequazioni palesemente inique" (Corte cost. n. 84/1984), o "assuma dimensioni tali da non riuscire sorretta da una benche' minima giustificazione di ordine razionale e logico (Corte cost. n. 7/1987). Ritiene il collegio che nessuna delle ipotesi innanzi indicate ricorra nel caso qui esaminato della norma di cui all'art. 228 legge fallimentare. E' vero infatti, come riconosce la stessa difesa degli imputati, "aderendo totalmente" a quanto gia' ritenuto in subjecta materia dalla Corte costituzionale nella sentenza 7 dicembre 1994, n. 414, che l'incriminazione in modo autonomo del reato di interesse privato commesso dal curatore fallimentare, pur recante il medesimo titolo di quello abrogato nel codice penale, disvela l'intento del legislatore di attribuire alla fattispecie di cui all'art. 228 legge fallimentare una specialita' e una qualificazione di maggiore gravita', quest'ultima espressa proprio nel diverso trattamento sanzionatorio. Ne' a diversa conclusione puo' indurre il fatto che, in conseguenza delle successive modifiche al sistema sanzionatorio dei delitti contro la pubblica amministrazione, il differenziale tra il trattamento previsto per il curatore fallimentare e quello previsto per ogni altro pubblico ufficiale si sia ulteriormente divaricato in pregiudizio del primo. Fatti salvi, infatti, i casi di assoluta arbitrarieta' - qui certamente non ricorrente - sfugge alla censura di incostituzionalita' la equiparazione (o, il che e' lo stesso, la mancata equiparazione) quoad poenam delle fattispecie incriminatrici in quanto il principio di uguaglianza non puo' essere inteso in senso meccanicistico atteso che nel nostro sistema penale la mobilita' della pena, cioe' la predeterminazione della stessa da parte del legislatore fra un minimo ed un massimo, permettendo l'individuazione e l'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti, e' lo strumento piu' congruo rispetto al principio di uguaglianza (ex multis, Corte cost. nn. 26/1979; 1/1982; 67/1963). 3. - Non e' invece manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 228 legge fallimentare, come sollevata dalla difesa degli imputati in relazione all'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui tale norma consente la persistente incriminazione di alcune condotte del curatore fallimentare, gia' qualificabili come fatti di interesse privato in atti di ufficio, in ordine alle quali invece, per effetto della legge 16 luglio 1997, n. 234, si e' verificata una parziale abolitio criminis a favore degli altri pubblici ufficiali. L'art. 228 cit. statuisce che il curatore che prende interesse privato in qualsiasi atto del fallimento direttamente o per interposta persona o con atti simulati e' punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa non inferiore a lire quattrocentomila". La norma, come del resto risulta evidente dalla clausola di riserva espressa con la formula "salvo che al fatto non siano applicabili gli artt. 315, 317, 318, 319, 322 e 323 c.p." ha, per concorde opinione, carattere sussidiario rispetto a queste ultime disposizioni, alcune delle quali, come l'art. 315, abrogate, ovvero, le altre, modificate dalla legge 26 aprile 1990, n. 86. La stessa norma, poi, pur mutuandone titolo e contenuto sostanziale, rivestiva carattere speciale rispetto al reato previsto dall'art. 324 c.p., che incriminava in via generale l'interesse privato in atti di ufficio da parte di qualsiasi pubblico ufficiale diverso dal curatore fallimentare o figure ad esso equiparate. Allorche' l'art. 20 della legge 26 aprile 1990, n. 86 ebbe formalmente ad abrogare l'art. 324 c.p., nel contempo ampliando la fattispecie del reato di abuso di ufficio prevista dall'art. 323 c.p., cosi' da ricomprendervi fatti che prima ricadevano nella previsione dell'art. 324, si pose agli interpreti il problema della sopravvivenza dell'art. 228: problema risolto pressoche' concordemente nel senso della persistente vigenza della norma proprio in virtu' della ritenuta sua natura di norma speciale rispetto art. 324 c.p. Fu anche sollevata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 228 sotto il profilo che, avendo la legge n. 86/1990 citata abrogato la fattispecie incriminatrice generale prevista art. 324 c.p., non sarebbe stato piu' giustificato (e ne sarebbe risultato violato quindi l'art. 3 della Costituzione per l'ingiusta disparita' di trattamento) il permanere della analoga incriminazione dell'interesse privato in atti di ufficio a carico del curatore fallimentare. La Corte costituzionale, con la gia' citata sentenza 7 dicembre 1994, n. 414, ebbe ad affermare l'infondatezza della sollevata questione sul rilievo che il carattere speciale dell'interesse privato disciplinato dall'art. 228, rendendo disomogenee le situazioni messe a contronto, avrebbe giustificato l'asserita disparita' di trattamento che si sarebbe venuta a determinare, per effetto delle modifiche apportate dalla legge n. 86/1990, tra il curatore fallimentare ed il pubblico ufficiale rispetto alla situazione precedente. Aggiunse poi che in ogni caso la citata legge del 1990 non aveva determinato una indiscriminata abrogazione delle condotte criminose di cui all'art. 324 c.p., assunto come tertium comparationis, ma unicamente la sussunzione di alcune di quelle condotte nell'ambito delle fattispecie previste dal novellati artt. 323 e 326 c.p. Sulla base di questi rilievi la Corte concludeva infine che la abrogazione dell'art. 324 c.p. e la riformulazione del delitto di abuso di ufficio ex art. 323 c.p. si sarebbero tradotti in effetti in un semplice problema di successione di leggi nel tempo onde perdeva rilievo l'asserzione di un'asserita impunita' di cui avrebbero goduto i pubblici ufficiali per le richiamate condotte, sebbene assimilabili a quelle del curatore fallimentare. 4. - Orbene, ritiene il collegio che proprio sotto quest'ultimo profilo la questione di legittimita' dell'art. 228 legge fallimentare vada nuovamente sottoposta al vaglio della Corte costituzionale in conseguenza della sopravvenuta legge 16 luglio 1997, n. 234, che ha riformato l'art. 323 c.p. L'intento dichiarato della legge, come e' noto, e' stato quello di evitare - come argutamente e' stato detto - "abusi dell'abuso", circoscrivendo l'ambito di applicabilita' dell'art. 323 c.p., attraverso una piu' puntuale precisazione dei contorni del fatto punibile. In tale ottica, la prima incisiva novita', rispetto al testo previgente, e' costituita dal fatto che il legislatore odierno, diversamente da quello del 1990, ha ancorato la configurabilita' del reato al verificarsi di un evento di danno, un risultato concreto della condotta abusiva che consiste nell'aver procurato a se' o ad altri un ingiusto vantaggio "patrimoniale", ovvero nell'aver arrecato "ad altri un danno ingiusto". La seconda non meno rilevante novita' del novellato art. 323 c.p. consiste nel fatto che per la configurabilita' del reato non e' sufficiente una qualsivoglia condotta abusiva, ma questa deve concretizzarsi nella "violazione di norme di legge o di regolamento" ovvero nella violazione dell'obbligo di "astensione" in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto. Resta da aggiungere, sotto il profilo sanzionatorio, che per l'abuso patrimoniale vengono notevolmente diminuiti i limiti edittali di pena. Cio' posto, evidente appare e consistente la differenza di trattamento che si e' venuta a determinare, per effetto delle modifiche apportate dalla legge n. 234/1997, fra il curatore fallimentare ed il pubblico ufficiale rispetto alla situazione precedente. E' vero infatti che il curatore (e gli altri soggetti equiparati) dovrebbero continuare a rispondere ex art. 228 citato di qualunque condotta che comporti una "presa di interesse", vale a dire l'assunzione di una interessenza in un affare attinente all'ufficio esercitato, senza che abbia rilievo, ai fini della integrazione dell'illecito, la legittimita' o meno dell'atto in se', la liceita' dei mezzi usati, il fatto che ne sia derivato o meno un danno patrimoniale o che comunque l'agente abbia realizzato un vantaggio non apprezzabile. In breve il curatore sarebbe responsabile per il semplice avvalersi della sua particolare posizione allo scopo di sovrapporre o anche semplicemente di far coincidere vantaggi privati agli interessi del servizio per il quale quella condizione gli e' stata attribuita. Diversamente per ogni altro pubblico ufficiale il quale, come si e' detto, rispondera' ex art. 323 c.p. di abuso solo e nei limitati casi in cui detto abuso si consuma mediante la violazione di una norma di legge o regolamentare ovvero l'inosservanza dell'obbligo di astensione. In ogni caso giammai se l'abuso sia diretto a procurare vantaggi di natura esclusivamente non patrimoniale. E pero', indipendentemente da qualsiasi considerazione, qui non consentita e comunque ininfluente, in ordine alla opportunita' di una riforma che ha operato un ridimensionamento del reato di abuso di ufficio di portata tale da ricondurre molte delle condotte gia' qualificabili di interesse privato ovvero di abuso non patrimoniale nell'ambito della rilevanza meramente disciplinare, sottraendole al controllo penale, riesce davvero difficile ammettere che di tali condotte debbano invece continuare a rispondere indiscriminatamente il curatore fallimentare e gli altri soggetti equiparati. Cio', pure a voler ritenere il carattere speciale dell'interesse privato previsto dall'art. 228 legge fallimentare e la conseguente sua disomogeneita' rispetto alla fattispecie di cui all'art. 323 c.p. messa a confronto: connotati questi che appaiono inadeguati a giustificare la sempre piu' accentuata divaricazione tra le due norme incriminatrici le quali e' bene sottolinearlo, pure erano nate uguali nell'ispirazione e sostanzialmente identiche nei contenuti, sebbene diverse nel trattamento sanzionatorio. Appena aggiungendo che la rilevata divaricazione dipende da un intervento legislativo inteso a soddisfare un'esigenza ampiamente condivisa di piu' puntuale determinazione delle condotte punibili a titolo di abuso ex art. 323 c.p.: esigenza che per le ragioni che la ispirano non puo' non ritenersi comune anche alla fattispecie di cui all'art. 228 legge fallimentare. Sicche' anche sotto quest'ultimo non secondario profilo si impone la necessita' di sottoporre al vaglio di legittimita' costituzionale la norma anzidetta per contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 27 legge 11 marzo 1953, n. 87 la questione di legittimita' costituzionale deve interndersi estesa anche all'art. 1, sesto comma, d.-l. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito in legge 3 aprile 1979, n. 95, nella parte in cui prevede l'applicabilita' dell'art. 228 legge fallimentare anche al commissario straordinario delle imprese in crisi. 5. - Risulta evidente nel caso di specie la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale sollevata. Come si rileva dal capo di imputazione in epigrafe integralmente riportato, agli imputati chiamati a rispondere del reato di interesse privato in atti di ufficio ai sensi dell'art. 228 legge fallimentare, si contesta una generica presa di interesse, non ancorata alla "violazione di norme, di leggi o di regolamento" ovvero dell'obbligo di astensione. Sicche', ove dovesse essere accolta l'eccezione di incostituzionalita' della norma incriminatrice nei termini esposti, si porrebbe la questione, in mancanza di una contestazione integrativa, della sussistenza stessa del reato.