IL TRIBUNALE
   Ha pronunciato la seguente   ordinanza nel procedimento  penale  n.
 132/96 r.g. Trib. e 3109/94 r.g.n.r. Rossi Emilio e altri.
   1. - Il fatto.
   Rossi  Emilio  e  gli  altri  sono  stati  tratti  a  giudizio  per
 rispondere dei diversi reati in epigrafe sintetizzati. Come osservato
 dal p.m., in tesi  di  accusa  si  sostiene  che  attorno  al  Rossi,
 indicato  quale  promotore  dell'associazione  criminale  per  cui e'
 processo - ruotasse "un consorzio criminale di  matrice  elementare",
 costituito    dalla  sua convivente, Lamanna Donatella, e dagli altri
 soggetti  oggi  imputati,  tutti  dediti  al  traffico  di   sostanze
 stupefacenti.
   Nel corso del dibattimento sono comparsi, in quanto citati dal p.m.
 ai  sensi  dell'art. 210 c.p.p. Torri Anna (per la quale, in realta',
 il collegio ha disposto l'accompagnamento coattivo), nonche'  Lamanna
 Francesco,  ma  entrambi  si  sono  avvalsi  della  facolta'  di  non
 rispondere e, dunque, entrambi non si sono sottoposti all'esame delle
 parti.
   Parimenti, Lamanna Donatella, coimputata in questo giudizio, si  e'
 rifiutata di sottoporsi all'esame all'udienza del 24 ottobre 1997.
   In  tutti  e  tre  i  casi,  il  pubblico  ministero  ha  richiesto
 l'acquisizione  al  fascicolo  del  dibattimento  dei  verbali  delle
 dichiarazioni  rese  dai soggetti nelle indagini preliminari o - come
 nel caso di Torri - in altri giudizi; tutti  i  difensori,  peraltro,
 non   hanno   prestato   il   consenso  alla  utilizzazione  di  tali
 dichiarazioni nelle parti  riguardanti  i  loro  assistiti,  rendendo
 cosi' inutilizzabili i verbali stessi alla luce della nuova normativa
 introdotta con la legge n.  267 del 1997.
   2.  -  La  questione  di  costituzionalita'  sollevata dal pubblico
 ministero.
   All'udienza del 24 ottobre 1997 il pubblico ministero ha  sollevato
 la  questione  di  costituzionalita'  "delle  norme di cui agli artt.
 513, commi 1 e 2, 514, comma 1,  del  c.p.p.  come  modificate  dalla
 legge  n.  267  del  7  agosto  1997  con gli artt. 1, 2, 3 in quanto
 violatrici delle norme costituzionali previste agli artt. 2,  3,  24,
 primo  e  secondo  comma,  111  e  112 della Costituzione", allegando
 memoria a sostegno dell'eccezione.
   Le ragioni dell'eccezione proposta dal  p.m.  possono  individuarsi
 nella  rilevanza  che  deve  attribuirsi,  ai fini del giudizio, alle
 dichiarazioni gia' rese nel passato da Lamanna Donatella, da  Lamanna
 Francesco   e   da   Torri,   siccome  tutte  relative  all'attivita'
 asseritamente  criminosa posta in essere da Rossi Emilio, e nella non
 manifesta infondatezza  della  questione  di  costituzionalita',  nei
 termini  sopra indicati, fondata essenzialmente sulla mancanza "di un
 giusto equilibrio tra il diritto di difesa al controesame e quello di
 non subire la perdita - ingiustificata - ai fini della  decisione  di
 quanto   acquisito   prima   del  dibattimento  e  che  sia  divenuto
 irripetibile per l'immotivato silenzio della fonte". Tale assenza  di
 equilibrio   nell'assunto   del  deducente,  comporterebbe  "riflessi
 effettivi di irragionevolezza" per i quali si imporrebbe l'intervento
 "abrogativo  ovvero  formulativo"  della  Corte  costituzionale,   in
 conseguenza  dei  vizi  di  costituzionalita'  dallo  stesso pubblico
 ministero segnalati.
   In punto ad asserita violazione dell'art. 3 della  Costituzione  si
 e'  sostenuto  che  -  come gia' osservato dallo stesso giudice delle
 leggi con la sentenza n. 254 del 1992 - l'esercizio  del  diritto  di
 astenersi  dal  rendere dichiarazioni, da parte di chi ne e' titolare
 (imputato dello stesso  fatto  o  di  fatto  connesso  o  collegato),
 costituisce   una  oggettiva  e  non  prevedibile  impossibilita'  di
 ripetizione dell'atto dichiarativo, pure trascurata  dal  legislatore
 della novella dell'agosto del 1997, alla quale si ricollegano diverse
 ipotesi   di  irragionevole  disparita'  di  trattamento  rispetto  a
 situazioni sostanzialmente assimilabili a quella  disciplinata  dalla
 norma, quali:
     quella  dell'imputato raggiunto da fonti di prova acquisite nelle
 indagini  preliminari  in  assenza   di   contraddittorio,   divenute
 irripetibili nella fase dibattimentale e percio' utilizzabili ai fini
 del decidere;
     quella  dell'imputato  raggiunto  da dichiarazioni accusatorie di
 imputato di reato connesso o collegato, assunte  in  contraddittorio,
 ma  divenute  irripetibili  ex  art.  512  c.p.p. e percio' esse pure
 utilizzabili ai fini del  decidere.
   Alla censura di incostituzionalita', per questo profilo, non sfugge
 neppure, secondo il p.m., la norma tran-sitoria, "che sostanzialmente
 estende la disciplina prevista dall'articolo 513 c.p.p.",  in  quanto
 nei  procedimenti  assoggettati a tale disciplina ex art. 6, legge n.
 267/1997 nel momento in cui sono stati compiuti gli atti di  indagine
 ed e' stata esercitata successivamente l'azione penale, non era  solo
 imprevedibile   "il  contenuto  dell'esercizio  del  diritto  di  non
 rispondere" - e cioe', piu'  esattamente,  l'effettivo  esercizio  di
 tale  diritto  da  parte  del    titolare -   ma era anzi prevedibile
 l'esistenza di un regime  probatorio,  vigente  all'epoca,  di  piena
 utilizzabilita',  con  i limiti sanciti dall'art. 192, terzo e quarto
 comma c.p.p., delle dichiarazioni dei  soggetti  esaminati  ai  sensi
 dell'art. 210 c.p.p.
   Sempre  nei confronti della disciplina transitoria, con riferimento
 ai commi 2 e 3 dell'art. 6 - che, in termini ibridi,  riconoscono  la
 utilizzabilita'  delle  dichiarazioni rese nelle indagini preliminari
 dalle  persone  anzidette,   nuovamente   citate   a   comparire   al
 dibattimento  e  rimaste  silenti, purche' riscontrate da elementi di
 prova diversi da altre dichiarazioni rese alla  p.g.  o  al  p.m.  da
 parte  di  soggetti,  indagati o imputati per reati connessi o per il
 medesimo reato, che si siano avvalsi della facolta' di non rispondere
 - il p.m. ha evidenziato ulteriore profilo di violazione dell'art.  3
 della  Costituzione, stante l'irragionevole disparita' di trattamento
 che si viene a determinare tra l'imputato raggiunto da  dichiarazioni
 di  soggetto  esaminato  ex  art. 210 c.p.p. il cui contenuto risulti
 riscontrato da fonti  di  prova  irripetibili,  anche  aventi  natura
 dichiarativa  e  provenienti  da altri coimputati o imputati di reato
 connesso o collegato, formatesi in assenza di  contraddittorio  nelle
 indagini    preliminari,   e   l'imputato   raggiunto   da   analoghe
 dichiarazioni, riscontrate da  altre  di  coimputati  o  di  soggetti
 esaminati    ex  art. 210 c.p.p., ma irripetibili per l'esercizio del
 diritto di non rispondere.
   Quanto alla violazione degli artt. 101 e 112 della Costituzione  si
 e'  rilevato  che  gia'  nel  passato la Corte costituzionale ebbe ad
 osservare come  un  principio  dispositivo  non  puo'  neppure  dirsi
 esistente  sul  piano  probatorio,  all'interno  del processo penale,
 perche' cio' significherebbe rendere disponibile, indirettamente,  la
 res  iudicanda,  mentre il potere di decisione del giudice del merito
 della causa non puo essere  vincolato  dall'esercizio  di  un  potere
 meramente  discrezionale  delle parti ed dalle scelte di carattere di
 processuale, eventualmente anche immotivate, di costoro.
   Dunque, se l'indisponibilita' dell'oggetto  del  processo  comporta
 una  indisponibilita'  della  prova  per  le  parti e se il potere di
 decidere in capo al giudice non puo' essere condizionato  nel  merito
 dalle  scelte  delle  parti,  poiche' soggetto soltanto alla legge, a
 maggior ragione non puo' essere neppure condizionato "dal verificarsi
 di una condizione meramente potestativa,  costituita  dall''esercizio
 del  diritto  di  non rispondere rimessa alla volonta' di un soggetto
 che nel processo non assume neppure la veste di  parte".  Appare  del
 resto   singolare  -  e  irragionevole  -  nella  prospettazione  del
 deducente, che la nuova formulazione dell'art. 513, pur prevedendo la
 sussistenza di un obbligo per il soggetto imputato di reato  connesso
 di  sottoporsi  all'esame  delle  parti  (al punto che ne e' previsto
 l'accompagnamento  coattivo,  contrariamente  a  quanto  accade   per
 l'imputato),  finisce poi per sanzionare la violazione di un siffatto
 obbligo e, dunque, il rifiuto di rispondere, con la inutilizzabilita'
 di altri atti, destinati a costituire un mezzo di  prova:  la  scelta
 immotivata di un terzo soggetto estraneo al processo genera, percio',
 una  sanzione  grave  che ricade sulla prova stessa, pur senza alcuna
 omissione o violazione di legge da parte di chi intende avvalersi  di
 quel mezzo di prova.
   Il  principio della indisponibilita' della prova e, con essa, della
 materia  del  contendere,  peraltro,  non  e'  solo  conseguenza  del
 principio  costituzionale della soggezione del giudice alla legge, ma
 anche  del   principio   di   obbligatorieta'   dell'azione   penale,
 strettamente  collegato  al  principio  di  legalita'. Rimettere alla
 scelta  immotivata  e  percio'  anche  arbitraria  di  una  parte  di
 consentire,  o  meno,  l'ingresso  nel  processo di un mezzo di prova
 costituisce evidente violazione di entrambi i principi.
   3. - La rilevanza della questione.
   Al fine  di  valutare  la  rilevanza  della  questione  come  sopra
 prospettata  non  puo'  prescindersi  -  nel  silenzio  dei  soggetti
 chiamati a deporre - dalla lettura delle dichiarazioni da  loro  rese
 in  precedenza e offerte in comunicazione dal p.m. proprio al solo di
 fine di consentire al collegio di apprezzarne la  pertinenza  o  meno
 con i fatti di causa.
   Dunque, Lamanna Donatella, come si desume dalle dichiarazioni dalla
 stessa rese al p.m. in data 11, 14 e 18 novembre 1994, ha descritto i
 rapporti  con il convivente Rossi e di questi con gli altri soggetti,
 oggi imputati, dediti al traffico di stupefacente, nell'arco  di  ben
 quattro  anni,  delineando  un'attivita'  sistematica  da  parte  dei
 coimputati  di  detenzione,  lavorazione  e  commercio  di   sostanze
 stupefacenti,  il  cui rilievo e' indubbio non soltanto ai fini della
 prova dei singoli reati - fine, ma anche per la valutazione dei reati
 associativi.
   Quanto a  Lamanna  Francesco  e  a  Torri  Anna,  va  rilevato  che
 quest'ultima,  nelle  dichiarazioni  rese  al g.i.p. di Livorno il 23
 febbraio 1993, ha riferito di essersi rifornita per  circa  due  anni
 con  continuita' di eroina e cocaina da Rossi Emilio, e che il primo,
 nelle dichiarazioni  rese  l'11  novembre  1994,  ha  descritto,  per
 conoscenza diretta, un'attivita' di acquisto di stupefacenti di Rossi
 Emilio  nella piazza di Milano, riconducibile ad una delle ipotesi di
 reato ascritte al prevenuto nel presente giudizio.
   Trattasi dunque di una serie di circostanze di fatto che  attengono
 tutte  direttamente alle condotte descritte nei capi di imputazione e
 assumono seria rilevanza ai fini della decisione.
   4. - La non manifesta infondatezza.
   Conviene anticipare, fin d'ora, che la questione  posta  dal  p.m.,
 pur  con  dovizie  di  argomentazioni,  non  coglie nel segno perche'
 omette di trascurarne il presupposto e cioe' di individuare quale sia
 la norma che deve trovare applicazione nel  presente  giudizio,  alle
 dichiarazioni  rese  da  Lamanna Donatella, Lamanna Francesco e Torri
 Anna.
   Da quanto si e' detto emerge, invero, come le  diverse  censure  di
 costituzionalita'  sollevate  dal p.m. si   appuntino, per la maggior
 parte, sul nuovo testo dell'art. 513 (e dell'art. 514) e come solo in
 via del tutto incidentale siano state sollevate  critiche  anche  nei
 confronti   della   norma   transitoria   nel  presupposto,  peraltro
 contraddetto dallo stesso deducente,  che  essa  contenga  disciplina
 sostanzialmente identica a quella della norma contenuta nell'art. 513
 novellato dalla legge n. 267/1997.
   Si impongono in proposito due precisazioni.
    La  lettura del combinato disposto dell'art. 1 e dell'art. 6 della
 legge n. 267 convince, anzitutto,  che  la  normativa  cui  rivolgere
 l'attenzione  per  individuare  la  regola  da applicare nel presente
 giudizio e' solo quella contenuta  nel  secondo  articolo,  ossia  la
 disciplina transitoria.
   Invero,  mentre  l'art.  1  della legge si limita a sostituire tout
 court l'art. 513 del codice di rito,  senza  alcuna  precisazione  in
 ordine  all'ambito  temporale  di  applicazione, il testo dell'art. 6
 sembra sufficientemente chiaro nel riferire la disciplina transitoria
 ai  "procedimenti  penali  in  corso  ...  anche   dopo   l'esercizio
 dell'azione  penale"  e  al "giudizio di primo grado in corso", oltre
 che al giudizio di appello e al  giudizio  di  rinvio  a  seguito  di
 annullamento  disposto  dalla  Corte  di  cassazione.  E'  del  resto
 decisiva  la  considerazione  che,  nell'elaborare   una   disciplina
 transitoria,  lo  stesso  legislatore  ha  reso palese la volonta' di
 sottrarre i giudizi  (e  i  procedimenti)  in  corso  al    principio
 generale,  applicabile alle norme processuali, in caso di successione
 delle leggi nel tempo, secondo  cui tempus regit actum.
   Non   puo'   dubitarsi,  percio',  che  nella  specie  debba  farsi
 riferimento, per individuare la disciplina applicabile alle anzidette
 dichiarazioni, all'art. 6 della legge n.  267,  dal  momento  che  il
 presente  giudizio  gia'  era  in  corso  da  diversi mesi al momento
 dell'entrata in vigore della legge.
   La seconda precisazione e' che  in  realta'  la  norma  transitoria
 della  legge citata non introduce disciplina sostanzialmente identica
 a quella contenuta nel nuovo  testo  dell'art.  513  come  modificato
 dall'art. 1 della medesima legge.
   Un  punto  di  contatto, pur importante, tra le due disposizioni si
 rinviene nel fatto che, anche per la norma transitoria,  nei  diversi
 casi  da  essa contemplati, non e' piu' possibile ritenere pienamente
 utilizzabili, pur nei limiti sanciti dall'art.  192,  commi  3  e  4,
 c.p.p., i verbali delle dichiarazioni in questione rese in precedenza
 dai  soggetti  esaminati  ex  art. 210 i quali si siano avvalsi della
 facolta' di non rispondere e delle quali sia gia' stata data lettura,
 se non vi e' l'accordo delle parti; la differenza sostanziale tra  le
 due  norme,  invece,  la  si ravvisa in cio' che l'eventuale dissenso
 dell'imputato  non  determina  la  assoluta  inutilizzabilita'  delle
 dichiarazioni come mezzi di prova e dunque in termini processuali non
 ne impedisce la lettura, ma la limita, nel senso che l'attendibilita'
 deve  essere  confermata  da  altri  elementi di prova non desunti da
 dichiarazioni rese al p.m, alla p.g. da questi delegata o al  g.i.p.,
 di  cui sia stata data lettura ai sensi dell' art. 513 del c.p.p. nel
 testo vigente prima dell'entrata in vigore della legge n. 267.
   Non sembra erroneo, in altre parole, affermare  che  la  disciplina
 transitoria  e'  giunta  a  modificare, in parte qua, e limitatamente
 alle ipotesi da essa contemplate, la stessa  portata  dell'art.  192,
 terzo  e  quarto  comma, c.p.p. escludendo dall'ambito dei cosiddetti
 riscontri le dichiarazioni di cui si e' detto e  limitando,  percio',
 sensibilmente,  la rilevanza probatoria delle cosiddette "chiamate di
 correo incrociate".
   La questione sollevata dal p.m. allora potrebbe essere valutata dal
 collegio soltanto nei limiti in cui,  incidentalmente,  ha  censurato
 l'art.  6  della  legge  n.  267/1997  (v.  supra  e memoria del p.m.
 distrettuale pag. 23 e 24).
   Anche  tale  precisazione,  tuttavia,  presuppone  una  valutazione
 preliminare  inerente  alla  portata della norma, essendo inevitabile
 interrogarsi se e in che misura essa possa trovare  applicazione  nel
 caso concreto, fermo restando quanto gia' rilevato in precedenza, che
 l'esistenza   stessa   della   disciplina  transitoria  impedisce  di
 assoggettare i giudizi in corso alla nuova norma processuale  di  cui
 all'art. 513 del c.p.p.
   L'art. 6 prende contempla diverse ipotesi:
     procedimenti  in  corso nei quali il p.m. puo' fra ricorso, entro
 sessanta giorni alla facolta' di promuovere incidente probatorio (ora
 ampliato);
     giudizi di primo grado in corso nei quali sia stata data  lettura
 di dichiarazioni rese da soggetti ex art. 210 senza il consenso degli
 interessati; se ne deve disporre la citazione e se del caso ordinarne
 l'accompagnamento coattivo;
     giudizi   di   appello   o   di  rinvio  fondati  sulle  predette
 dichiarazioni per i quali e' prevista identica disciplina  di  quella
 sopra indicata, previa rinnovazione del dibattimento.
   Le  conseguenze  sono  quelle  previste dal quinto comma e cioe' la
 parziale  utilizzabilita'  delle  dichiarazioni  nei   termini   gia'
 specificati.
   E'  agevole  rilevare  come nessuna delle ipotesi contemplate dalla
 norma possa estendersi al  caso  per  cui    e'  processo  nel  quale
 soggetti  annoverabili  tra  quelli indicati dall'art. 210 del c.p.p.
 sono comparsi davanti al  giudice del dibattimento e si sono  avvalse
 della facolta' di non rispondere dopo l'entrata in vigore della legge
 senza  peraltro che le loro dichiarazioni rese nelle indagini fossero
 gia' state acquisite al fascicolo del dibattimento  e ne fosse  stata
 data lettura.
   Invero,  non  puo'  farsi  applicazione  dell'art.  6  primo comma,
 giacche' la disposizione sembra chiaramente    riferirsi  a  tutti  i
 procedimenti   penali   per  i  quali  non  sia  ancora  iniziato  il
 dibattimento. Basti osservare che    l'incidente  probatorio  -  reso
 possibile nei sessanta giorni dall'entrata in vigore della legge - e'
 istituto  tipico  della  fase  delle  indagini  preliminari, ammesso,
 soltanto in seguito a recente intervento della Corte  Costituzionale,
 anche  nell'udienza  preliminare  (cfr.  sentenza  n. 77 del 10 marzo
 1994), ma non oltre. L'introduzione di un  incidente probatorio in un
 dibattimento gia' in corso comporterebbe una evidente e inammissibile
 regressione  del processo da una fase anteriore.
   Esclusa  tale  possibilita',  si  possono  formulare  soltanto  due
 ipotesi:    o  si  ritiene  che debba trovare applicazione il secondo
 comma dell'art.  6 ovvero si deve concludere per la presenza  di  una
 incolmabile lacuna normativa.
   In ordine alla prima delle due soluzioni, pur dovendosi riconoscere
 che la situazione disciplinata dal legislatore e quella in esame sono
 in  realta' assimilabili, deve pero' rilevarsi come il ricorso, nella
 seconda situazione, alla disciplina della prima non puo' avvenire per
 via di interpretazione meramente estensiva della  norma,  ma  con  lo
 strumento dell'analogia. Non si puo', infatti, ritenere gia' compreso
 nella  previsione  del secondo comma dell'art. 6 il caso del soggetto
 citato ai sensi dell'art. 210 c.p.p. e che si e' avvalso del  diritto
 al  silenzio  dopo la entrata in vigore della legge, perche' la norma
 si riferisce inequivocabilmente ad un caso diverso anche  se  simile:
 resta  peraltro  il  tratto  differenziale,  rappresentato dalla gia'
 avvenuta acquisizione e lettura delle dichiarazioni senza il consenso
 di altri che rivela come  il  legislatore  abbia  voluto  comprendere
 specificatamente  tale  situazione  e  che  impedisce  di accedere al
 risultato che ci si propone attraverso una interpretazione estensiva.
   Conviene rilevare, tuttavia, che la norma in esame, se anche non e'
 annoverabile  nell'ambito  delle  norme  penali,  di  cui  e'   cenno
 nell'art.    14  preleggi  (nel  senso  che  la  disposizione  sembra
 riferirsi alle sole norme di diritto  penale  sostanziale),  presenta
 pur  sempre  carattere  di  norma eccezionale in quanto introduce una
 sensibile eccezione al  principio  generale  della  formazione  della
 prova  orale al dibattimento cui si riconnette il divieto generale di
 utilizzazione ai fini della formazione del convincimento del  giudice
 degli atti di indagine diversi da quelli per i quali e' espressamente
 consentita  la  lettura (art.  514 c.p.p., nel testo reso ancora piu'
 rigoroso dalla stessa riforma dell'agosto 1997, nonche' nn. 57  e  76
 legge delega).
   Ne  deriva che il divieto posto dall'art. 14 preleggi, anche per le
 norme eccezionali, impedisce di ampliare  la  disciplina  transitoria
 per  analogia e percio' di estenderla anche al caso in esame, talche'
 delle due soluzioni ermeneutiche sopra  indicate  resta  la  seconda,
 attestante l'esistenza di una lacuna dell'ordinamento.
   Resta  solo  da aggiungere che il collegio e' ben consapevole della
 necessita' di  privilegiare  tra  diverse  possibili  interpretazioni
 quella  che  tende  a  dare  alla  norma di legge il significato piu'
 conforme al dettato costituzionale, come piu' volte  insegnato  dalla
 giurisprudenza   di   legittimita'   e  dalla  stessa  giurisprudenza
 costituzionale (cfr.   Corte Cost. 14 luglio  1988  n.  823),  ma  un
 siffatto  criterio  ermeneutico puo' essere seguito quando non vi sia
 incertezza sulle reali intenzioni del legislatore e quando  la  ratio
 legis  traspaia  chiaramente dalla formulazione letterale della norma
 in correlazione logica  con  il  complesso  normativo  nel  quale  e'
 sistematicamente inserita.
   Occorre  ribadire,  pertanto,  che  la  interpretazione letterale e
 logica  (volta  quest'ultima   alla   ricerca   dell'intenzione   del
 legislatore)   della  norma,  anche  in  collegamento  con  le  altre
 disposizioni dello stesso testo di legge non  consente  di  inserirvi
 anche  il  caso concreto piu' volte richiamato se non facendo ricorso
 al criterio interpretativo dell'analogia iuris, vietato dall'art.  14
 preleggi.
   Alla  luce  di  siffatta  conclusione,  non  appare  manifestamente
 infondata la incostituzionalita' della disciplina transitoria di  cui
 all'art.  6 della legge n. 267/1997 per violazione dell' art. 3 della
 Costituzione.
    Premesso che il principio enunciato dalla norma costituzionale non
 va  inteso  nel  senso  che  il  legislatore  non possa dettare norme
 diverse per regolare situazioni che esso ritiene  diverse,  adeguando
 cosi'  la  disciplina  giuridica  agli  svariati  aspetti  della vita
 sociale, ma nel senso che esso deve assicurare ad ognuno  eguaglianza
 di   trattamento  quando  uguali  siano  le  condizioni  oggettive  e
 soggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono per la  loro
 applicazione, risulta anzitutto evidente la disparita' che si viene a
 creare  in  conseguenza  della  lacuna riscontrabile nella disciplina
 transitoria tra gli  imputati  gia'  tratti  a  giudizio  al  momento
 dell'entrata  in  vigore  della  legge,  nei cui confronti siano gia'
 stati acquisiti i  verbali  delle  dichiarazioni  rese  dai  soggetti
 indicati  dall'art.  210  c.p.p. e gli imputati che, pur sottoposti a
 giudizio  nel  medesimo  momento,  non  si  trovino  nella   medesima
 situazione  soltanto  perche'  l'attivita' istruttoria dibattimentale
 non e' stata ancora iniziata o ha avuto, come accaduto nella  specie,
 sviluppi  diversi.  Per  i  primi,  invero, pur dopo l'osservanza del
 meccanismo predisposto dall'art. 6 comma 2,  legge  n.  267/1997,  e'
 consentito l'utilizzo di un mezzo di prova, secondo i canoni indicati
 dal  quinto  comma  della  stessa  disposizione, che resta senz'altro
 inibito nei confronti dei secondi, nonostante il medesimo presupposto
 ossia che il soggetto o i soggetti chiamati a  deporre  ex  art.  210
 c.p.p. rifiutino di rispondere.
   Una  siffatta  differenza  di  trattamento  normativo,  poi,  resta
 all'evidenza irragionevole, cioe' priva di alcuna giustificazione che
 sia ancorata alla diversita' delle due  situazioni.  Non  puo'  dirsi
 ragionevole una disparita' di disciplina collegata soltanto a un dato
 meramente  cronologico,  quale  lo  sviluppo  piu'  o  meno  avanzato
 dell'istruttoria dibattimentale all'interno di giudizi che si trovano
 nella medesima fase processuale, rispetto  a  situazioni  meritevoli,
 sotto ogni altro profilo, della medesima regolamentazione.