IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 132/96 r.g. Trib. e 3109/94 r.g.n.r. Rossi Emilio e altri. 1. - Il fatto. Rossi Emilio e gli altri sono stati tratti a giudizio per rispondere dei diversi reati in epigrafe sintetizzati. Come osservato dal p.m., in tesi di accusa si sostiene che attorno al Rossi, indicato quale promotore dell'associazione criminale per cui e' processo - ruotasse "un consorzio criminale di matrice elementare", costituito dalla sua convivente, Lamanna Donatella, e dagli altri soggetti oggi imputati, tutti dediti al traffico di sostanze stupefacenti. Nel corso del dibattimento sono comparsi, in quanto citati dal p.m. ai sensi dell'art. 210 c.p.p. Torri Anna (per la quale, in realta', il collegio ha disposto l'accompagnamento coattivo), nonche' Lamanna Francesco, ma entrambi si sono avvalsi della facolta' di non rispondere e, dunque, entrambi non si sono sottoposti all'esame delle parti. Parimenti, Lamanna Donatella, coimputata in questo giudizio, si e' rifiutata di sottoporsi all'esame all'udienza del 24 ottobre 1997. In tutti e tre i casi, il pubblico ministero ha richiesto l'acquisizione al fascicolo del dibattimento dei verbali delle dichiarazioni rese dai soggetti nelle indagini preliminari o - come nel caso di Torri - in altri giudizi; tutti i difensori, peraltro, non hanno prestato il consenso alla utilizzazione di tali dichiarazioni nelle parti riguardanti i loro assistiti, rendendo cosi' inutilizzabili i verbali stessi alla luce della nuova normativa introdotta con la legge n. 267 del 1997. 2. - La questione di costituzionalita' sollevata dal pubblico ministero. All'udienza del 24 ottobre 1997 il pubblico ministero ha sollevato la questione di costituzionalita' "delle norme di cui agli artt. 513, commi 1 e 2, 514, comma 1, del c.p.p. come modificate dalla legge n. 267 del 7 agosto 1997 con gli artt. 1, 2, 3 in quanto violatrici delle norme costituzionali previste agli artt. 2, 3, 24, primo e secondo comma, 111 e 112 della Costituzione", allegando memoria a sostegno dell'eccezione. Le ragioni dell'eccezione proposta dal p.m. possono individuarsi nella rilevanza che deve attribuirsi, ai fini del giudizio, alle dichiarazioni gia' rese nel passato da Lamanna Donatella, da Lamanna Francesco e da Torri, siccome tutte relative all'attivita' asseritamente criminosa posta in essere da Rossi Emilio, e nella non manifesta infondatezza della questione di costituzionalita', nei termini sopra indicati, fondata essenzialmente sulla mancanza "di un giusto equilibrio tra il diritto di difesa al controesame e quello di non subire la perdita - ingiustificata - ai fini della decisione di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia divenuto irripetibile per l'immotivato silenzio della fonte". Tale assenza di equilibrio nell'assunto del deducente, comporterebbe "riflessi effettivi di irragionevolezza" per i quali si imporrebbe l'intervento "abrogativo ovvero formulativo" della Corte costituzionale, in conseguenza dei vizi di costituzionalita' dallo stesso pubblico ministero segnalati. In punto ad asserita violazione dell'art. 3 della Costituzione si e' sostenuto che - come gia' osservato dallo stesso giudice delle leggi con la sentenza n. 254 del 1992 - l'esercizio del diritto di astenersi dal rendere dichiarazioni, da parte di chi ne e' titolare (imputato dello stesso fatto o di fatto connesso o collegato), costituisce una oggettiva e non prevedibile impossibilita' di ripetizione dell'atto dichiarativo, pure trascurata dal legislatore della novella dell'agosto del 1997, alla quale si ricollegano diverse ipotesi di irragionevole disparita' di trattamento rispetto a situazioni sostanzialmente assimilabili a quella disciplinata dalla norma, quali: quella dell'imputato raggiunto da fonti di prova acquisite nelle indagini preliminari in assenza di contraddittorio, divenute irripetibili nella fase dibattimentale e percio' utilizzabili ai fini del decidere; quella dell'imputato raggiunto da dichiarazioni accusatorie di imputato di reato connesso o collegato, assunte in contraddittorio, ma divenute irripetibili ex art. 512 c.p.p. e percio' esse pure utilizzabili ai fini del decidere. Alla censura di incostituzionalita', per questo profilo, non sfugge neppure, secondo il p.m., la norma tran-sitoria, "che sostanzialmente estende la disciplina prevista dall'articolo 513 c.p.p.", in quanto nei procedimenti assoggettati a tale disciplina ex art. 6, legge n. 267/1997 nel momento in cui sono stati compiuti gli atti di indagine ed e' stata esercitata successivamente l'azione penale, non era solo imprevedibile "il contenuto dell'esercizio del diritto di non rispondere" - e cioe', piu' esattamente, l'effettivo esercizio di tale diritto da parte del titolare - ma era anzi prevedibile l'esistenza di un regime probatorio, vigente all'epoca, di piena utilizzabilita', con i limiti sanciti dall'art. 192, terzo e quarto comma c.p.p., delle dichiarazioni dei soggetti esaminati ai sensi dell'art. 210 c.p.p. Sempre nei confronti della disciplina transitoria, con riferimento ai commi 2 e 3 dell'art. 6 - che, in termini ibridi, riconoscono la utilizzabilita' delle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari dalle persone anzidette, nuovamente citate a comparire al dibattimento e rimaste silenti, purche' riscontrate da elementi di prova diversi da altre dichiarazioni rese alla p.g. o al p.m. da parte di soggetti, indagati o imputati per reati connessi o per il medesimo reato, che si siano avvalsi della facolta' di non rispondere - il p.m. ha evidenziato ulteriore profilo di violazione dell'art. 3 della Costituzione, stante l'irragionevole disparita' di trattamento che si viene a determinare tra l'imputato raggiunto da dichiarazioni di soggetto esaminato ex art. 210 c.p.p. il cui contenuto risulti riscontrato da fonti di prova irripetibili, anche aventi natura dichiarativa e provenienti da altri coimputati o imputati di reato connesso o collegato, formatesi in assenza di contraddittorio nelle indagini preliminari, e l'imputato raggiunto da analoghe dichiarazioni, riscontrate da altre di coimputati o di soggetti esaminati ex art. 210 c.p.p., ma irripetibili per l'esercizio del diritto di non rispondere. Quanto alla violazione degli artt. 101 e 112 della Costituzione si e' rilevato che gia' nel passato la Corte costituzionale ebbe ad osservare come un principio dispositivo non puo' neppure dirsi esistente sul piano probatorio, all'interno del processo penale, perche' cio' significherebbe rendere disponibile, indirettamente, la res iudicanda, mentre il potere di decisione del giudice del merito della causa non puo essere vincolato dall'esercizio di un potere meramente discrezionale delle parti ed dalle scelte di carattere di processuale, eventualmente anche immotivate, di costoro. Dunque, se l'indisponibilita' dell'oggetto del processo comporta una indisponibilita' della prova per le parti e se il potere di decidere in capo al giudice non puo' essere condizionato nel merito dalle scelte delle parti, poiche' soggetto soltanto alla legge, a maggior ragione non puo' essere neppure condizionato "dal verificarsi di una condizione meramente potestativa, costituita dall''esercizio del diritto di non rispondere rimessa alla volonta' di un soggetto che nel processo non assume neppure la veste di parte". Appare del resto singolare - e irragionevole - nella prospettazione del deducente, che la nuova formulazione dell'art. 513, pur prevedendo la sussistenza di un obbligo per il soggetto imputato di reato connesso di sottoporsi all'esame delle parti (al punto che ne e' previsto l'accompagnamento coattivo, contrariamente a quanto accade per l'imputato), finisce poi per sanzionare la violazione di un siffatto obbligo e, dunque, il rifiuto di rispondere, con la inutilizzabilita' di altri atti, destinati a costituire un mezzo di prova: la scelta immotivata di un terzo soggetto estraneo al processo genera, percio', una sanzione grave che ricade sulla prova stessa, pur senza alcuna omissione o violazione di legge da parte di chi intende avvalersi di quel mezzo di prova. Il principio della indisponibilita' della prova e, con essa, della materia del contendere, peraltro, non e' solo conseguenza del principio costituzionale della soggezione del giudice alla legge, ma anche del principio di obbligatorieta' dell'azione penale, strettamente collegato al principio di legalita'. Rimettere alla scelta immotivata e percio' anche arbitraria di una parte di consentire, o meno, l'ingresso nel processo di un mezzo di prova costituisce evidente violazione di entrambi i principi. 3. - La rilevanza della questione. Al fine di valutare la rilevanza della questione come sopra prospettata non puo' prescindersi - nel silenzio dei soggetti chiamati a deporre - dalla lettura delle dichiarazioni da loro rese in precedenza e offerte in comunicazione dal p.m. proprio al solo di fine di consentire al collegio di apprezzarne la pertinenza o meno con i fatti di causa. Dunque, Lamanna Donatella, come si desume dalle dichiarazioni dalla stessa rese al p.m. in data 11, 14 e 18 novembre 1994, ha descritto i rapporti con il convivente Rossi e di questi con gli altri soggetti, oggi imputati, dediti al traffico di stupefacente, nell'arco di ben quattro anni, delineando un'attivita' sistematica da parte dei coimputati di detenzione, lavorazione e commercio di sostanze stupefacenti, il cui rilievo e' indubbio non soltanto ai fini della prova dei singoli reati - fine, ma anche per la valutazione dei reati associativi. Quanto a Lamanna Francesco e a Torri Anna, va rilevato che quest'ultima, nelle dichiarazioni rese al g.i.p. di Livorno il 23 febbraio 1993, ha riferito di essersi rifornita per circa due anni con continuita' di eroina e cocaina da Rossi Emilio, e che il primo, nelle dichiarazioni rese l'11 novembre 1994, ha descritto, per conoscenza diretta, un'attivita' di acquisto di stupefacenti di Rossi Emilio nella piazza di Milano, riconducibile ad una delle ipotesi di reato ascritte al prevenuto nel presente giudizio. Trattasi dunque di una serie di circostanze di fatto che attengono tutte direttamente alle condotte descritte nei capi di imputazione e assumono seria rilevanza ai fini della decisione. 4. - La non manifesta infondatezza. Conviene anticipare, fin d'ora, che la questione posta dal p.m., pur con dovizie di argomentazioni, non coglie nel segno perche' omette di trascurarne il presupposto e cioe' di individuare quale sia la norma che deve trovare applicazione nel presente giudizio, alle dichiarazioni rese da Lamanna Donatella, Lamanna Francesco e Torri Anna. Da quanto si e' detto emerge, invero, come le diverse censure di costituzionalita' sollevate dal p.m. si appuntino, per la maggior parte, sul nuovo testo dell'art. 513 (e dell'art. 514) e come solo in via del tutto incidentale siano state sollevate critiche anche nei confronti della norma transitoria nel presupposto, peraltro contraddetto dallo stesso deducente, che essa contenga disciplina sostanzialmente identica a quella della norma contenuta nell'art. 513 novellato dalla legge n. 267/1997. Si impongono in proposito due precisazioni. La lettura del combinato disposto dell'art. 1 e dell'art. 6 della legge n. 267 convince, anzitutto, che la normativa cui rivolgere l'attenzione per individuare la regola da applicare nel presente giudizio e' solo quella contenuta nel secondo articolo, ossia la disciplina transitoria. Invero, mentre l'art. 1 della legge si limita a sostituire tout court l'art. 513 del codice di rito, senza alcuna precisazione in ordine all'ambito temporale di applicazione, il testo dell'art. 6 sembra sufficientemente chiaro nel riferire la disciplina transitoria ai "procedimenti penali in corso ... anche dopo l'esercizio dell'azione penale" e al "giudizio di primo grado in corso", oltre che al giudizio di appello e al giudizio di rinvio a seguito di annullamento disposto dalla Corte di cassazione. E' del resto decisiva la considerazione che, nell'elaborare una disciplina transitoria, lo stesso legislatore ha reso palese la volonta' di sottrarre i giudizi (e i procedimenti) in corso al principio generale, applicabile alle norme processuali, in caso di successione delle leggi nel tempo, secondo cui tempus regit actum. Non puo' dubitarsi, percio', che nella specie debba farsi riferimento, per individuare la disciplina applicabile alle anzidette dichiarazioni, all'art. 6 della legge n. 267, dal momento che il presente giudizio gia' era in corso da diversi mesi al momento dell'entrata in vigore della legge. La seconda precisazione e' che in realta' la norma transitoria della legge citata non introduce disciplina sostanzialmente identica a quella contenuta nel nuovo testo dell'art. 513 come modificato dall'art. 1 della medesima legge. Un punto di contatto, pur importante, tra le due disposizioni si rinviene nel fatto che, anche per la norma transitoria, nei diversi casi da essa contemplati, non e' piu' possibile ritenere pienamente utilizzabili, pur nei limiti sanciti dall'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p., i verbali delle dichiarazioni in questione rese in precedenza dai soggetti esaminati ex art. 210 i quali si siano avvalsi della facolta' di non rispondere e delle quali sia gia' stata data lettura, se non vi e' l'accordo delle parti; la differenza sostanziale tra le due norme, invece, la si ravvisa in cio' che l'eventuale dissenso dell'imputato non determina la assoluta inutilizzabilita' delle dichiarazioni come mezzi di prova e dunque in termini processuali non ne impedisce la lettura, ma la limita, nel senso che l'attendibilita' deve essere confermata da altri elementi di prova non desunti da dichiarazioni rese al p.m, alla p.g. da questi delegata o al g.i.p., di cui sia stata data lettura ai sensi dell' art. 513 del c.p.p. nel testo vigente prima dell'entrata in vigore della legge n. 267. Non sembra erroneo, in altre parole, affermare che la disciplina transitoria e' giunta a modificare, in parte qua, e limitatamente alle ipotesi da essa contemplate, la stessa portata dell'art. 192, terzo e quarto comma, c.p.p. escludendo dall'ambito dei cosiddetti riscontri le dichiarazioni di cui si e' detto e limitando, percio', sensibilmente, la rilevanza probatoria delle cosiddette "chiamate di correo incrociate". La questione sollevata dal p.m. allora potrebbe essere valutata dal collegio soltanto nei limiti in cui, incidentalmente, ha censurato l'art. 6 della legge n. 267/1997 (v. supra e memoria del p.m. distrettuale pag. 23 e 24). Anche tale precisazione, tuttavia, presuppone una valutazione preliminare inerente alla portata della norma, essendo inevitabile interrogarsi se e in che misura essa possa trovare applicazione nel caso concreto, fermo restando quanto gia' rilevato in precedenza, che l'esistenza stessa della disciplina transitoria impedisce di assoggettare i giudizi in corso alla nuova norma processuale di cui all'art. 513 del c.p.p. L'art. 6 prende contempla diverse ipotesi: procedimenti in corso nei quali il p.m. puo' fra ricorso, entro sessanta giorni alla facolta' di promuovere incidente probatorio (ora ampliato); giudizi di primo grado in corso nei quali sia stata data lettura di dichiarazioni rese da soggetti ex art. 210 senza il consenso degli interessati; se ne deve disporre la citazione e se del caso ordinarne l'accompagnamento coattivo; giudizi di appello o di rinvio fondati sulle predette dichiarazioni per i quali e' prevista identica disciplina di quella sopra indicata, previa rinnovazione del dibattimento. Le conseguenze sono quelle previste dal quinto comma e cioe' la parziale utilizzabilita' delle dichiarazioni nei termini gia' specificati. E' agevole rilevare come nessuna delle ipotesi contemplate dalla norma possa estendersi al caso per cui e' processo nel quale soggetti annoverabili tra quelli indicati dall'art. 210 del c.p.p. sono comparsi davanti al giudice del dibattimento e si sono avvalse della facolta' di non rispondere dopo l'entrata in vigore della legge senza peraltro che le loro dichiarazioni rese nelle indagini fossero gia' state acquisite al fascicolo del dibattimento e ne fosse stata data lettura. Invero, non puo' farsi applicazione dell'art. 6 primo comma, giacche' la disposizione sembra chiaramente riferirsi a tutti i procedimenti penali per i quali non sia ancora iniziato il dibattimento. Basti osservare che l'incidente probatorio - reso possibile nei sessanta giorni dall'entrata in vigore della legge - e' istituto tipico della fase delle indagini preliminari, ammesso, soltanto in seguito a recente intervento della Corte Costituzionale, anche nell'udienza preliminare (cfr. sentenza n. 77 del 10 marzo 1994), ma non oltre. L'introduzione di un incidente probatorio in un dibattimento gia' in corso comporterebbe una evidente e inammissibile regressione del processo da una fase anteriore. Esclusa tale possibilita', si possono formulare soltanto due ipotesi: o si ritiene che debba trovare applicazione il secondo comma dell'art. 6 ovvero si deve concludere per la presenza di una incolmabile lacuna normativa. In ordine alla prima delle due soluzioni, pur dovendosi riconoscere che la situazione disciplinata dal legislatore e quella in esame sono in realta' assimilabili, deve pero' rilevarsi come il ricorso, nella seconda situazione, alla disciplina della prima non puo' avvenire per via di interpretazione meramente estensiva della norma, ma con lo strumento dell'analogia. Non si puo', infatti, ritenere gia' compreso nella previsione del secondo comma dell'art. 6 il caso del soggetto citato ai sensi dell'art. 210 c.p.p. e che si e' avvalso del diritto al silenzio dopo la entrata in vigore della legge, perche' la norma si riferisce inequivocabilmente ad un caso diverso anche se simile: resta peraltro il tratto differenziale, rappresentato dalla gia' avvenuta acquisizione e lettura delle dichiarazioni senza il consenso di altri che rivela come il legislatore abbia voluto comprendere specificatamente tale situazione e che impedisce di accedere al risultato che ci si propone attraverso una interpretazione estensiva. Conviene rilevare, tuttavia, che la norma in esame, se anche non e' annoverabile nell'ambito delle norme penali, di cui e' cenno nell'art. 14 preleggi (nel senso che la disposizione sembra riferirsi alle sole norme di diritto penale sostanziale), presenta pur sempre carattere di norma eccezionale in quanto introduce una sensibile eccezione al principio generale della formazione della prova orale al dibattimento cui si riconnette il divieto generale di utilizzazione ai fini della formazione del convincimento del giudice degli atti di indagine diversi da quelli per i quali e' espressamente consentita la lettura (art. 514 c.p.p., nel testo reso ancora piu' rigoroso dalla stessa riforma dell'agosto 1997, nonche' nn. 57 e 76 legge delega). Ne deriva che il divieto posto dall'art. 14 preleggi, anche per le norme eccezionali, impedisce di ampliare la disciplina transitoria per analogia e percio' di estenderla anche al caso in esame, talche' delle due soluzioni ermeneutiche sopra indicate resta la seconda, attestante l'esistenza di una lacuna dell'ordinamento. Resta solo da aggiungere che il collegio e' ben consapevole della necessita' di privilegiare tra diverse possibili interpretazioni quella che tende a dare alla norma di legge il significato piu' conforme al dettato costituzionale, come piu' volte insegnato dalla giurisprudenza di legittimita' e dalla stessa giurisprudenza costituzionale (cfr. Corte Cost. 14 luglio 1988 n. 823), ma un siffatto criterio ermeneutico puo' essere seguito quando non vi sia incertezza sulle reali intenzioni del legislatore e quando la ratio legis traspaia chiaramente dalla formulazione letterale della norma in correlazione logica con il complesso normativo nel quale e' sistematicamente inserita. Occorre ribadire, pertanto, che la interpretazione letterale e logica (volta quest'ultima alla ricerca dell'intenzione del legislatore) della norma, anche in collegamento con le altre disposizioni dello stesso testo di legge non consente di inserirvi anche il caso concreto piu' volte richiamato se non facendo ricorso al criterio interpretativo dell'analogia iuris, vietato dall'art. 14 preleggi. Alla luce di siffatta conclusione, non appare manifestamente infondata la incostituzionalita' della disciplina transitoria di cui all'art. 6 della legge n. 267/1997 per violazione dell' art. 3 della Costituzione. Premesso che il principio enunciato dalla norma costituzionale non va inteso nel senso che il legislatore non possa dettare norme diverse per regolare situazioni che esso ritiene diverse, adeguando cosi' la disciplina giuridica agli svariati aspetti della vita sociale, ma nel senso che esso deve assicurare ad ognuno eguaglianza di trattamento quando uguali siano le condizioni oggettive e soggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono per la loro applicazione, risulta anzitutto evidente la disparita' che si viene a creare in conseguenza della lacuna riscontrabile nella disciplina transitoria tra gli imputati gia' tratti a giudizio al momento dell'entrata in vigore della legge, nei cui confronti siano gia' stati acquisiti i verbali delle dichiarazioni rese dai soggetti indicati dall'art. 210 c.p.p. e gli imputati che, pur sottoposti a giudizio nel medesimo momento, non si trovino nella medesima situazione soltanto perche' l'attivita' istruttoria dibattimentale non e' stata ancora iniziata o ha avuto, come accaduto nella specie, sviluppi diversi. Per i primi, invero, pur dopo l'osservanza del meccanismo predisposto dall'art. 6 comma 2, legge n. 267/1997, e' consentito l'utilizzo di un mezzo di prova, secondo i canoni indicati dal quinto comma della stessa disposizione, che resta senz'altro inibito nei confronti dei secondi, nonostante il medesimo presupposto ossia che il soggetto o i soggetti chiamati a deporre ex art. 210 c.p.p. rifiutino di rispondere. Una siffatta differenza di trattamento normativo, poi, resta all'evidenza irragionevole, cioe' priva di alcuna giustificazione che sia ancorata alla diversita' delle due situazioni. Non puo' dirsi ragionevole una disparita' di disciplina collegata soltanto a un dato meramente cronologico, quale lo sviluppo piu' o meno avanzato dell'istruttoria dibattimentale all'interno di giudizi che si trovano nella medesima fase processuale, rispetto a situazioni meritevoli, sotto ogni altro profilo, della medesima regolamentazione.