IL TRIBUNALE
   Ha emesso la seguente ordinanza su appello proposto  nell'interesse
 di  Mallardo  Francesco avverso ordinanza 5 agosto 1998 del tribunale
 di Napoli, III sezione, con la  quale  veniva  rigettata  istanza  di
 scarcerazione  per  scadenza,  nella fase delle indagini preliminari,
 del termine massimo della custodia cautelare;
                             O s s e r v a
   1. - Mallardo Francesco  e'  sottoposto  a  custodia  cautelare  in
 carcere  a  far data dal 4 luglio 1995 in forza di ordinanza 3 luglio
 1995  emessa  dal  g.i.p.  del  tribunale  di  Napoli  per  reati  di
 associazione mafiosa e omicidio. In data 26 aprile 1996 fu rinviato a
 giudizio  avanti alla Corte di assise di Napoli, la quale, pero', con
 sentenza 25 febbraio 1997, dichiaro' la propria incompetenza  per  il
 reato  associativo  e, previo stralcio, rimise gli atti al p.m. della
 D.D.A.   di Napoli perche'  promuovesse  l'azione  penale  avanti  al
 tribunale.    A tanto il p.m. ha poi provveduto e in data 21 novembre
 1997 e' stato emesso dal g.i.p. nuovo decreto di rinvio a giudizio.
   La  difesa  ha  formulato  istanza   di   scarcerazione   invocando
 l'applicazione del principio affermato dalla Corte costituzionale con
 sentenza  n.    292/1998 e, con l'appello proposto ai sensi dell'art.
 310 c.p.p.   avverso  il  provvedimento  di  rigetto  del  tribunale,
 deduce:  "La  ordinanza  emessa  dal  tribunale  con  la quale veniva
 rigettata l'istanza proposta  appare  essere  censurabile  in  quanto
 basata  su  una  erronea  interpretazione del combinato dispoto dagli
 artt. 303, comma 2 e 304, comma 6, c.p.p.  In sostanza  il  tribunale
 ha  ritenuto  che  nei  confronti  del  Mallardo  non siano decorsi i
 termini di custodia cautelare previsti dall'art.  303, comma 1, lett.
 a) nonostante l'intervento della Corte costituzionale con la sentenza
 interpretativa n. 292/1998 emessa in data 7/18 luglio 1998.
   Ed invero, nella suindicata sentenza, la  Corte  costituzionale  ha
 chiaramente  affermato che in caso di regressione del procedimento ad
 altra fase, ai fini del computo dei termini  di  custodia  cautelare,
 trova  applicazione  la  disposizione di cui al comma 6 dell'art. 304
 c.p.p. secondo cui "la  durata  della  custodia  cautelare  non  puo'
 comunque  superare il doppio dei termini previsti dall'art. 303 commi
 1, 2,  3  c.p.p.":  in  sostanza  la  Consulta  ha  chiarito  che  la
 disciplina prevista dall'art. 304, comma 6, c.p.p., per le ipotesi di
 sospensione dei termini di custodia cautelare deve ritenersi operante
 anche nelle ipotesi di regressione del procedimento ad altra ase o ad
 altro  grado  di  giudizio  previste dall'art. 303, comma 2 c.p.p. La
 conseguenza  dell'intervento  chiarificatore  apportato  dalla  Corte
 costituzionale  e' che "il superamento di un periodo di custodia pari
 al doppio del termine stabilito per la fase presa in  considerazione,
 determina  la  perdita  di  efficacia  della  custodia, anche se quei
 termini sono stati sospesi, prorogati o sono cominciati  a  decorrere
 nuovamente a seguito della regressione del processo".
   Per  quanto  concerne  la  fase di cui all'art. 303, comma 1, lett.
 a), in riferimento al reato di cui all'art. 416-bis  c.p.  contestato
 al Mallardo, il termine di durata massima della custodia cautelare e'
 pari  ad  un  anno:  applicando  la disposizione di cui all'art. 304,
 comma 6, c.p.p., la  durata  della  custodia  cautelare,  nella  fase
 intercorrente   tra  l'esecuzione  della  misura  e  l'emissione  del
 provvedimento che dispone il giudizio, non puo'  essere  superiore  a
 due  anni,  pena  la  perdita di efficacia della misura medesima. Nel
 caso di specie il Mallardo, tratto in arresto il  4  luglio  1995  in
 esecuzione  di  ordinanza  di  custodia  cautelare  emessa dal g.i.p.
 presso il tribunale di Napoli per i reati di cui agli artt. 416-bis e
 575 c.p., in data 26 aprile 1996 veniva rinviato  a  giudizio  per  i
 reati  ascritti dinanzi alla 4 sezione della Corte d'assise di Napoli
 per l'udienza del 29 ottobre 1996; in data 25 febbraio 1997, la Corte
 d'assise di Napoli, in via preliminare disponeva la  separazione  del
 procedimento  avente ad oggetto il reato di cui all'art. 416-bis c.p.
 e la trasmissione degli atti al p.m. per la  formazione  di  autonomo
 fascicolo;  in data 21 novembre 1997 il g.u.p. presso il tribunale di
 Napoli disponeva il rinvio a giudizio del predetto per  il  reato  di
 cui  all'art.  416-bis  c.p.    dinanzi la 3 sezione del tribunale di
 Napoli per l'udienza  del  2  febbraio  1998.  Il  provvedimento  che
 dispone  il  giudizio  e'  stato  pertanto emesso il 21 novembre 1997
 ossia ben oltre  il  termine  di  due  anni  previsto  dal  combinato
 disposto dagli artt. 303, comma 1 e 304, comma 6 c.p.p.
   Palesemente  erronee  appaiono  pertanto le motivazioni addotte dal
 tribunale a sostegno dell'ordinanza di  rigetto  della  richiesta  di
 declaratoria   di  inefficacia  della  misura  cautelare.  Invero  il
 tribunale,   pur   prendendo   atto   dell'intervento   della   Corte
 costituzionale,  ha ritenuto che nei confronti del Mallardo i termini
 previsti per la fase processuale intercorrente tra l'esecuzione della
 misura cautelare e  l'emissione  del  provvedimento  che  dispone  il
 giudizio non siano decorsi. In sostanza il tribunale ha ritenuto che,
 ai fini del computo dei termini di custodia cautelare previsti per la
 suindicata fase processuale, in caso di regressione del procedimento,
 debba  essere sommato il periodo intercorrente tra l'esecuzione della
 misura cautelare e l'emissione del primo decreto di rinvio a giudizio
 ed il periodo intercorrente tra il  provvedimento  con  il  quale  e'
 stata  disposta  la  regressione  del  procedimento  ed il successivo
 decreto di rinvio a giudizio.
   Tale interpretazione appare del tutto svincolata dal dato normativo
 e contraria altresi' alle regole della logica alle quali comunque  il
 giudice  deve  attenersi  nell'attivita' di interpretazione del testo
 legislativo. Se ai fini del computo dei termini di custodia cautelare
 fosse valido il criterio adoperato dal tribunale  certamente  non  vi
 sarebbe   stata   la   necessita'   di   un  intervento  della  Corte
 costituzionale sul punto, in quanto se il termine di due anni,  entro
 cui deve essere emesso il provvedimento che dispone il giudizio, deve
 essere  calcolato  secondo  i  parametri  cui  ha  fatto  ricorso  il
 Collegio, cio' presuppone che almeno una volta e' stato  superato  il
 termine  massimo  di  un  anno  che  comunque e' previsto per la fase
 intercorrente tra l'esecuzione della misura cautelare  e  l'emissione
 del  decreto  di  rinvio a giudizio nonche' per la fase intercorrente
 tra la regressione degli atti e  l'emissione  del  nuovo  decreto  di
 rinvio   a   giudizio.   Aderendo  all'interpretazione  adottata  dal
 tribunale l'intervento della Corte costituzionale  sarebbe  meramente
 pleonastico  ed  irrilevante  in quanto il superamento del termine di
 custodia cautelare pari ad un anno nel primo o  nel  secondo  periodo
 preso  in considerazione dal collegio, comporta di per se' la perdita
 di efficacia della misura cautelare e cio' anche a prescindere  dalla
 interpretazione  fornita  dalla  Corte  costituzionale.  Anzi,  a ben
 vedere, la soluzione adottata dal tribunale si  pone  addirittura  in
 contrasto  con  i  principi  dettati  dalla  Consulta  in  quanto, se
 l'obiettivo del legislatore,  allorche'  ha  previsto  i  termini  di
 durata  massima  della  custodia cautelare per la fase processuale in
 oggetto, e' quello di evitare  che  l'indagato  rimanga  in  vinculis
 oltre  un  determinato  lasso di tempo senza che sia stato emesso nei
 suoi confronti uno di quei  provvedimenti  che  definiscono  la  fase
 processuale  in  oggetto,  appare vessatorio ed illogico ritenere che
 l'emissione del decreto che dispone il giudizio oltre il  termine  di
 due  anni  dalla  esecuzione  della misura cautelare non determini la
 perdita di efficacia della misura cautelare medesima...".