IL TRIBUNALE MILITARE
   Ha  pronunciato  in  pubblica  udienza  la  seguente  ordinanza nel
 procedimento a carico di: Di Sommo Raffaele, nato il 30 novembre 1968
 a Pollena Trocchia (Napoli),  atto  di  nascita  n.  272  P.I.S.A.  -
 residente  a  Brescia  in  via  Vaiarini  n.  12; maresciallo A.M. in
 servizio  presso  il  6  stormo  A.M.  in  Ghedi  (Brescia).  Libero.
 Contumace,  imputato  del  reato  di:  "peculato  militare" (art. 215
 c.p.m.p.), perche',  sottufficiale  A.M.  incaricato  della  funzione
 amministrativa  di  aiuto  gestore  del  circolo  sottufficiali del 6
 Stormo di Ghedi (Brescia), in un giorno compreso tra  la  fine  della
 primavera  del 1996 e l'inizio dell'estate 1996, in qualita' di aiuto
 gestore del predetto circolo, sottraeva, appropriandosene a  profitto
 proprio,   dalla   cassa   del  circolo  la  somma  di  lire  300.000
 (trecentomila), appartenente  all'amministrazione  militare,  di  cui
 egli aveva il possesso per ragione del suo servizio.
                              Motivazione
   Premesso:
     a)  che  all'odierna  pubblica  udienza nei confronti di Di Sommo
 Raffaele, contumace, imputato come in  atti  del  reato  di  peculato
 militare  (art.  215  c.p.m.p.), il difensore con procura speciale ha
 avanzato, in limine litis, richiesta di applicazione della pena nella
 misura finale di mesi quattro e giorni venti di reclusione militare,
  subordinatamente alla concessione del  beneficio  della  sospensione
 condizionale;
     b)  che  la  sanzione  suddetta  e'  stata determinata secondo il
 seguente calcolo: pena - base  anni  due    di  reclusione  militare;
 riduzione  ad  anni  uno  e  mesi quattro per il riconoscimento delle
 circostanze attenuanti generiche (art. 62-bis c.p.);  ancora  a  mesi
 dieci  e  giorni  venti  per  l'attenuante  del danno patrimoniale di
 speciale tenuita' (art. 62 n.  4  c.p.);)  ancora  a  mesi  otto  per
 l'attenuante  della riparazione del danno mediante restituzione (art.
 62 n. 6 c.p.); ancora a mesi sei per l'attenuante  della  particolare
 tenuita'  del  fatto  (art.  323-bis  c.p.);  infine a mesi quattro e
 giorni venti per il rito prescelto;
     c)che alla richiesta, cosi' come formulata, il pubblico ministero
 ha prestato consenso, producendo il proprio fascicolo d'ufficio;
                         Il tribunale osserva
   1. - Sulla base degli atti, si esclude che debba essere pronunciata
 sentenza di proscioglimento del Di Sommo a norma dell'art. 129 c.p.p.
 (cfr. dichiarazioni gravatorie rese al p.m. da  Fusco  Felice  il  30
 ottobre 1996, il 25 giugno 1997 e il 16 febbraio 1998).
   Appare  inoltre  corretta  la  qualificazione  giuridica  del fatto
 contestato (peculato militare  ex  art.  215  c.p.m.p.);  e  corretta
 appare,   altresi',  l'applicazione  delle  circostanze  prospettate,
 risultando:
     la mancanza di precedenti penali a carico del richiedente;
     la   speciale   tenuita'   del   danno   patrimoniale   provocato
 all'amministrazione militare (lire 300 mila);
      la  restituzione  della somma oggetto di illecita appropriazione
 (cfr. dichiarazioni del Fusco in data 16 febbraio 1998,  secondo  cui
 l'imputato  provvide personalmente a rimettere in cassa il denaro che
 aveva prelevato);
     la particolare tenuita' del fatto (cfr. dichiarazioni in data  16
 febbraio  1998  della  suddetta  persona informata, secondo cui il Di
 Sommo aveva preso i soldi  dalla  cassa  per  pagare  l'assicurazione
 della  sua  automobile,  ma  con  l'intenzione  -  poi mantenuta - di
 ripianare l'ammanco non appena avesse ricevuto lo stipendio).
   Alla luce delle circostanze sopra indicate,  la  pena  proposta  va
 ritenuta  congrua  ai  fini  di  cui  all'art.  27,  comma  3,  della
 Costituzione (Corte cost., 26 giugno 1990, n. 313).
   Pertanto,  a  giudizio  di   questo   Collegio,   ricorrono   nella
 fattispecie tutti i presupposti e le condizioni di fatto per accedere
 alla  richiesta  ex art. 444, primo comma, c.p.p. avanzata, in nome e
 per conto dell'accusato, dal  difensore munito di procura speciale.
   2. - Le parti, nel formulare la  loro  richiesta,  hanno  dato  per
 scontato  che nella fattispecie possa senz'altro trovare applicazione
 la speciale diminuente prevista dall'art. 323-bis c.p.
   Orbene, il giudicante, se da un lato ritiene conforme  a  giustizia
 che   l'odierno   accusato   possa  fruire  anche  della  circostanza
 attenuante teste' indicata (e cio' tanto in relazione alla  effettiva
 "tenutita'"  del fatto, quanto in relazione all'esigenza di contenere
 entro limiti ragionevoli la sanzione concreta da infliggere, sia pure
 a domanda dell'interessato),  all'altro  nutre  fondate  perplessita'
 sulla  possibilita'  di  procedere  all'applicazione  dell'attenuante
 medesima allo stato della vigente normativa.
   3. - L'art. 323-bis, infatti, aggiunto al codice  penale  dall'art.
 14  della  legge  26 aprile 1990, n. 86, recante modifiche in tema di
 delitti dei pubblici ufficiali contro  la  pubblica  amministrazione,
 cosi' recita:
   "Se  i  fatti  previsti dagli articoli 314, 316, 316-bis, 317, 318,
 319, 320, 322 e 323  sono  di  particolare  tenuita',  le  pene  sono
 diminuite".
   Si  tratta,  con  ogni  evidenza,  di  una  circostanza  attenuante
 speciale, esattamente contenuta nella  parte  "speciale"  del  codice
 penale  comune  siccome  prevista  soltanto  in rapporto a specifiche
 figure di reato.
   La   giurisprudenza  di  legittimita'  ha  chiarito  i  termini  di
 ricorrenza dell'attenuante in parola, precisando che,  da  parte  del
 giudice  di  merito,  "deve aversi riguardo, oltre a ogni elemento di
 giudizio di natura oggettiva    ed  esterno  all'autore,  anche  agli
 aspetti  di  natura  soggettiva  idonei  a  fondare con gli altri una
 qualificazione  del  fatto  rilevantemente  attenuata  rispetto  alle
 ipotesi  ordinarie  del  fatto richiamate nella norma incriminatrice"
 (Cass. pen., sez.  VI, 26 marzo 1997, dep. 28 maggio  1997,  Pin);  e
 ancora  che  l'applicazione  di essa "e' subordinata alla valutazione
 del fatto nella sua globalita', quindi  non  soltanto  alla  verifica
 delle conseguenze di carattere
  patrimoniale  (Cass.  pen.  sez.  VI, 6 febbraio 1992, dep. 11 marzo
 1992, n 2523, Dominidiato).
   La massima citata per ultima introduce l'argomento, particolarmente
 importante nel caso di specie, della  compatibilita'  dell'attenuante
 (speciale)  del  fatto di lieve entita' con l'attenuante (comune) del
 danno patrimoniale di speciale tenuita', di cui all'art. 62 n. 4 c.p.
   La possibilita' che entrambe le attenuanti suddette  concorrano  e'
 spiegata  dal  supremo  collegio in rnaniera estremamente persuasiva,
 evidenziando che la prima (art. 323-bis) "si riferisce  al  fatto  di
 reato  nella  sua globalita', e quindi ai tradizionali elementi della
 condotta, dell'elemento psicologico e  dell'evento,  complessivamente
 considerati",  mentre  la  seconda (art. 62 n. 4) "prende in esame il
 solo aspetto del danno o del lucro,  che  deve  essere  connotato  da
 speciale  tenuita'"  (Cass.  pen.,  sez. VI, 9 dicembre 1996, dep. 18
 marzo 1997, Basile).
   Siffatto orientamento, tutt'altro che episodico, puo'  considerarsi
 ormai  consolidato  (Cass.  pen.,  sez.  VI, 9 novembre 1990, dep. 26
 marzo 1991, n. 3431, Guerriero; Cass. pen., sez. VI,  3ottobre  1997,
 dep. 29 ottobre 1997, n. 9727, Pasa).
   4. - Occorre ricordare che il reato ascritto a Di Sommo Raffaele e'
 quello  di  peculato militare, previsto   dall'art. 215 del codice di
 pace.
   La fattispecie  in  questione  e'  del  tutto  speculare  a  quella
 "comune" dell'art. 314 c.p., come modificata  dall'art. 1 della legge
 26 aprile 1990, n. 86, con le seguenti differenze:
     soggetto   attivo   e':   "il  militare  incaricato  di  funzioni
 amministrative o di comando";
     oggetto dell'illecita appropriazione e' il denaro  o  altra  cosa
 mobile "appartenente all'amministrazione militare";
     la pena e' quella della reclusione da due a dieci anni.
   Attualmente,  tra  le due figure di peculato per appropriazione non
 si ravvisano ulteriori diversita' "strutturali", e a  tale  risultato
 si  e'  pervenuti non per intervento diretto del legislatore, bensi',
 essenzialmente, a seguito della sentenza 13 dicembre  1991,  n.  448,
 della   Corte   costituzionale,   che,  dichiarando  l'illegittimita'
 costituzionale dell'art. 215  c.p.m.p.  "limitatamente  alle  parole:
 ovvero lo distrae a profitto proprio o di altri" ha eliminato la piu'
 marcata  distonia,  nella  subietta materia, tra l'ordinamento penale
 comune e quello penale militare, del tutto  trascurato  in  occasione
 della  riforma  del 1990 dei delitti dei pubblici ufficiali contro la
 pubblica amministrazione.
   Nella pronuncia teste' citata, la Corte ha motivato la decisione di
 accoglimento   della   eccezione  di  illegittimi'ta'  costituzionale
 sollevata dal giudice militare di Palermo, richiamandosi alla propria
 giurisprudenza (con particolare riguardo alle sentenze n. 4/1974 e n.
 473/1990) e sottolineando:
     I. - che e'  irrazionale  che  le  modifiche  introdotte  per  il
 peculato  comune  con la legge n. 86 del 1990  non siano state estese
 al peculato militare (...). I due reati,  infatti,  hanno  in  comune
 l'elemento materiale e  l'elemento psicologico. Identico e', infatti,
 il  loro  contenuto,  in  entrambi offensivo dello stesso bene che si
 voluto proteggere: denaro e  cose  mobili  appartenenti  allo  Stato;
 identica,  altresi',  la  condotta  tipica  delle  due    fattispecie
 criminose (...)";
   II. - che una valutazione diversa delle due  fattispecie  non  puo'
 essere  desunta  "da particolari ragioni inerenti all'amministrazione
 militare: anzi, quella del peculato militare e' stata dal legislatore
 considerata meno grave,  dato che e' per esso comminata una  sanzione
 che, nel minimo, e' inferiore di ben un anno a quella prevista per il
 peculato comune".
   Ebbene,  se  il  peculato comune e quello militare, nella forma per
 appropriazione (che e'  la  sola  rimasta,  dopo  la  eliminazione  -
 nell'un  caso per legge e nell'altro iussu iudicis - del peculato per
 distrazione sono  figure  criminose  sostanzialmente  identiche;  se,
 anzi,  il peculato militare  addirittura meno grave di quello comune,
 come reso evidente dalla sanzione  edittale,  considerevolmente  piu'
 bassa  nel  minimo  (laddove la parita' dei massimi di pena si spiega
 con l'esigenza di evitare che "per fatti del genere, il militare  sia
 trattato  a  una  stregua  diversa  da  quella di ogni altro pubblico
 ufficiale":   cfr. Relazione al Re,  par.  116),  allora  la  mancata
 previsione,  a  favore  del militare, di un'attenuante come quella ex
 art. 323-bis (compatibile con l'attenuante ex  art.  62  n.  4  c.p.)
 irrazionale,   risolvendosi   in   un'ingiustificata   disparita'  di
 trattamento tra il pubblico ufficiale  (o  l'incaricato  di  pubblico
 servizio),  da  un lato, e il militare che sia incaricato di funzioni
 amministrative o di comando, dall'altro.
   Piu' precisamente, appare irrazionale che il legislatore ordinario,
 nell'introdurre nel codice penale,  ex  art.  14  legge  n.  86/1990,
 l'art.    323-bis  per  specifici  delitti  (tra cui il peculato) dei
 pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione,  abbia  omesso
 di  introdurre  analoga  disposizione  in  relazione  al  delitto  di
 peculato militare.
   A parere di questo tribunale, il vigente testo del  sopra  indicato
 art.  14, che ha "dimenticato" di provvedere  in ordine al delitto di
 cui  all'art.  215  c.p.m.p.,  integra  una  palese  violazione   del
 principio  di  eguaglianza  formale fissato dall'art. 3, primo comma,
 della  Carta  costituzionale  italiana,  giacche':  detto   principio
 "impone  al  legislatore  di  assicurare  ad  ognuno  eguaglianza  di
 trattamento,  quando  eguali  siano  le  condizioni   soggettive   ed
 oggettive  alle  quali le norme giuridiche si riferiscono per la loro
 applicazione" (Corte cost., 26 gennaio 1957, nn. 3 e 28); e,  d'altro
 canto,  se fino all'entrata in vigore della Costituzione repubblicana
 ed in particolare del suo art. 3, primo comma, le incertezze circa la
 ratio legis di discipline derogatorie  erano  argomento  di  politica
 legislativa,  a  partire  da  tale  data esse costituiscono motivo di
 illegittimita' costituzionale per la mancanza di un idoneo fondamento
 giustificativo  della  disciplina  derogatrice (Corte cost., 20 marzo
 1978, n. 20).
   La circostanza, poi, che solo l'imputato di peculato comune, e  non
 anche  l'imputato  di  peculato  militare,  possa fruire (grazie alla
 riforma attuata con  legge  n.  86/1990)  della  diminuente  ex  art.
 323-bis  c.p.  sembra  porsi  in  contrasto pure con l'art. 27, terzo
 comma, della Costituzione.
   La richiamata norma costituzionale, a mente della  quale  "le  pene
 (...) devono tendere alla rieducazione del condannato", stabilisce un
 innegabile  nesso  tra  entita'  della sanzione penale e gravita' del
 fatto, nel senso  che  solo  la  pena  proporzionata  al  fatto  puo'
 svolgere   un'efficace  funzione  rieducativa,  mentre  la  pena  non
 proporzionata  proprio  in  quanto  avvertita  (o  avvertibile)   dal
 prevenuto  come  non  meritata,  sortisce  (o  puo'  sortire) effetti
 opposti di "ribellione" alla legge.
   Il  principio  ora  enucleato,   definibile   come   principio   di
 proporzione  o  di  proporzionalita'  e' stato piu' volte valorizzato
 dalla Corte costituzionale (anche in relazione al parametro dell'art.
 3), che lo ha annoverato tra "i limiti  sostanziali  del  legislatore
 nelle  scelte  criminalizzatrici"  (cfr.  Corte  cost.,  sentenze nn.
 409/1989, 487/1989, 313/1990, 343/1993).
   Se cosi' e', appare evidente - a giudizio di questo collegio - come
 il legislatore ordinario del 1990, nel prevedere  l'attenuante  della
 particolare  tenuita'  del  fatto  unicamente in rapporto al peculato
 comune e ad altri delitti dei pubblici ufficiali contro  la  pubblica
 amministrazione  ma  nulla  disponendo  in  rapporto  al  delitto  di
 peculato "militare", nonostante  l'identita'  sostanziale  delle  due
 figure  e  malgrado la minore gravita' del secondo rispetto al primo,
 abbia violato, oltre al principio di  eguaglianza  formale  (art.  3,
 primo  comma,  Cost), pure il principio di proporzionalita' (art. 27,
 terzo comma, Cost.).
   La qual cosa perche', a causa di  tale  ingiustificata  "omissione"
 legislativa,  all'autore  di un fatto-reato meno grave e' preclusa la
 possibilita' di fruire di una circostanza, di cui puo' invece  fruire
 l'autore  di un fatto-reato piu' grave; e questa circostanza, potendo
 comportare una riduzione di pena fino ad un terzo (giusta  la  regola
 generale  fissata  dall'art.  65  n. 3 c.p.), e' in grado di influire
 considerevolmente sulla determinazione in  concreto  della  sanzione,
 con  quel  che  ne  consegue  in punto di efficacia rieducativa della
 sanzione medesima.
   5. - In conclusione:
     a) poiche' la richiesta ex art. 444, primo comma, c.p.p. avanzata
 dal difensore con procura speciale di   Di Sommo  Raffaele,  imputato
 del   reato  p.  e  p.  dall'art.  215  c.p.m.p.,  e'  meritevole  di
 accoglimento, siccome rispondente alle condizioni indicate dal  comma
 2 della stessa disposizione;
     b) poiche', tuttavia, la circostanza attenuante della particolare
 tenuita'  del fatto - ravvisabile nella fattispecie ed indispensabile
 al fine di pervenire ad una sanzione concreta realmente proporzionata
 alla entita' della violazione  commessa  dal  Di  Sommo  -  non  pare
 applicabile  sic  et  simpliciter  al  delitto  di peculato militare,
 essendo stata  prevista  dalla  legge  n.  86/1990  limitatamente  al
 peculato  "comune"  e  ad altre specifiche figure  criminose "comuni"
 con  ingiustificata  compressione  dei  principi  costituzionali   di
 eguaglianza davanti alla legge e di finalita' rieducativa della pena,
 lo  scrivente  tribunale, decidendo ex officio ai sensi dell'art. 23,
 terzo comma, della legge 11  marzo  1953,  n.  87,  ritiene  che  sia
 rilevante   e   non   manifestamente  infondata  la  questione  della
 illegittimita' costituzionale, per contrasto con gli artt.  3,  primo
 comma,  e  27,  terzo comma, della Costituzione -  dell'art. 14 della
 legge 26 aprile 1990, che ha aggiunto  al  testo  del  codice  penale
 l'art.   323-bis  nella  parte    in  cui  non  ha  aggiunto  analoga
 circostanza attenuante per il reato  di  peculato  militare,  di  cui
 all'art. 215 del codice penale militare di pace.
   La  questione  va,  pertanto,  sottoposta  al  giudizio della Corte
 costituzionale.