TRIBUNALE DI NAPOLI I Sezione civile Il Tribunale di Napoli, in composizione collegiale, nella persona dei magistrati: dott. Umberto Antico, Presidente; dott. Raffaele Sdino, Giudice; dott.ssa Anna Scognamiglio, Giudice Rel. Riunito in camera di consiglio, all'esito della riserva espressa all'udienza del 17 luglio 2015; ha pronunciato la seguente Ordinanza nella causa civile iscritta al n. 16879 del ruolo generale degli affari contenziosi dell'anno 2015 avente ad oggetto: contenzioso elettorale tra De Luca Vincenzo elettivamente domiciliato a Napoli al viale Gramsci n. 16, presso lo studio dell'avv. prof. Giuseppe Abbamonte, dal quale e' rappresentato e difeso unitamente agli avv.ti Antonio Brancaccio e Lorenzo Lentini in virtu' di procura a margine del ricorso; Ricorrente e Presidenza del Consiglio dei ministri, Ministero dell'interno, Prefettura U.T.G. di Napoli in persona dei legali rapp.ti in carica p.t rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Napoli presso cui domiciliano ope legis in Napoli alla via Armando Diaz n. 11; Resistenti Movimento difesa del Cittadino in persona del presidente Longo Antonio e Longo Antonio in proprio rappresentati e difesi dall'avv. Gianluigi Pellegrino, elettivamente domiciliati in Napoli alla via Melisurgo n. 4 presso lo studio dell'avv.to Andrea Abbamonte, in virtu' di procura agli atti; Interventore e Aurisicchio Raffaele, Barra Francesco, De Cristofaro Giuseppe, D'Alessandro Antonio, Di Luca Antonio, Grimaldi Amodio, Mari Franco, Scotto Arturo, Vozza Salvatore, tutti elettivamente domiciliati a Napoli alla Riviera di Chiaia n. 267, presso lo studio dell'avv. Francesco Lombardi, rappresentati e difesi dal prof. avv. Arnaldo Miglino in virtu' di procura in calce all'atto di intervento; Interventore e Partito socialista italiano (P.S.I.) Federazione regionale della Campania in persona del legale rapp.te p.t. il segretario regionale avv. Antonio Scuderi, procuratore e difensore di se stesso, rapp.to e difeso, anche disgiuntamente, dall'avv. Enrico Ricciuto, presso cui elettivamente domicilia in Napoli alla via Vecchia Poggioreale n. 14 in virtu' di mandato a margine dell'atto di intervento; Interventore e Ciarambino Valeria, Viglione Vincenzo, Saiello Gennaro Cammarano Michele, Muscara' Maria, Malerba Tommaso, Cirillo Luigi, tutti elettivamente domiciliati a Napoli alla via Melisurgo n. 23, presso lo studio dell'avv. Enrico Bonelli, rappresentati e difesi anche disgiuntamente dagli avv.ti Agosto Oreste e Marchese Stefania; Interventore e Germano Giovanni elettivamente domiciliato a Napoli alla via Toledo n. 282, presso l'avv. Antonino Gebbia dal quale e' rappresentato e difeso in virtu' di procura a margine dell'atto di intervento; Interventore Avolio Sergio elettivamente domiciliato a Napoli alla via Blundo n. 54, presso lo studio dell'avv. Mario Montefusco dal quale e' rappresentato e difeso in virtu' di procura in calce all'atto di intervento; Interventore e regione Campania in persona del presidente p.t. elettivamente domiciliata a Napoli alla via S. Lucia n. 81, presso l'avvocatura regionale, rappresentata e difesa dagli avv.ti Maria d'Elia, Fabrizio Niceforo, Massimo Lacatena e Almerina Bove dell'avvocatura regionale; Interventore e D'Amelio Rosa elettivamente domiciliata a Napoli alla via S. Brigida n. 64, presso gli avv.ti Lelio della Pietra, Fulvio Bonavitacola e Giuseppe Russo in virtu' di procura a margine dell'atto di intervento; Interventore e Foglia Pietro, Maisto Giuseppe, Fortunato Giovanni, Salvatore Gennaro, Marino Angelo, Romano Paolo, Nappi Sergio, Ruggiero Antonia, Schifone Luciano, Amente Mafalda, tutti rappresentati e difesi dal prof avv. Giuseppe Olivieri, dagli avv.ti Salvatore e Giuliano Di Pardo, dall'avv. Nicola Scapillati, dall'avv. Andrea Latessa e dall'avv. Francesco Percuoco, presso cui sono elettivamente domiciliati a Napoli al viale Raffaello n. 34, in virtu' di mandato in calce alla comparsa di intervento; Interventore nonche' il pubblico ministero presso il Tribunale di Napoli in persona del sostituto procuratore della Repubblica dott.ssa Valeria Gonzales y Reyero; Interventore ex lege; Visto il ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile, depositato il 30 giugno 2015 in corso di causa, nel giudizio promosso ex art. 22 del decreto legislativo n. 150/2011 ed art. 702-bis del codice di procedura civile, nell'interesse di De Luca Vincenzo con il quale il ricorrente ha richiesto di sospendere/disapplicare il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 26 giugno 2015 e conseguentemente reintegrare, con effetto immediato, l'on. le Vincenzo De Luca nella carica di presidente della regione Campania, con esercizio dei connessi poteri e funzioni, fino alla decisione del giudizio di merito, anche inaudita altera parte, in via subordinata rimettersi la questione di legittimita' costituzionale degli articoli 7 e 8 del decreto legislativo n. 235/2012 alla Corte costituzionale e medio tempore sospendersi il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 26 giugno 2015, con reintegrazione provvisoria del ricorrente nella carica di presidente, almeno fino alla udienza successiva alla decisione della Corte. Vista la comparsa di costituzione e risposta dell'Avvocatura distrettuale dello Stato di Napoli e gli atti di intervento delle parti. Visti gli atti e la documentazione prodotti, sentite le parti ed il PM. Osserva Preliminarmente quanto all'eccezione di inammissibilita' del ricorso perche' proposto nella forma cartacea anziche' telematica come previsto dall'art. 16-bis della legge n. 221/2012 (di conversione del decreto-legge n. 179/2012) come introdotto dalla legge n. 228/2012 rileva il collegio che il ricorso cautelare, sebbene proposto in corso di causa, costituisce comunque nuova domanda che poteva essere proposta anche con il deposito tradizionale in cancelleria; tale ricorso non puo' considerarsi un successivo atto processuale rispetto al giudizio ex art. 22 del decreto legislativo n. 150/2011, avendo natura eventuale e non necessaria rispetto al ricorso principale anche perche' oltre alla sussistenza del diritto (quanto meno del fumus boni iuris) richiede, come presupposto, il periculum in mora, necessita di uno specifico mandato ad litem e del versamento di un ulteriore contributo unificato, tant'e' che allo stesso viene dato autonomo numero di ruolo (rispetto al ricorso di merito). In ogni caso si e' correttamente instaurato il contraddittorio e l'atto quindi, al di la della forma prescelta, ha raggiunto lo scopo sanando ogni eventuale nullita', tra l'altro non espressamente prevista e quindi non dichiarabile (articoli 156 e 157 del codice di procedura civile). Lo stesso ragionamento va applicato alla memoria difensiva degli avv.ti Marchese e Agosto depositata in udienza dovendosi ritenere una comparsa di costituzione integrativa di quella gia' depositata il 2 luglio 2015 per il principio di simmetria delle forme. Questo collegio quanto alle eccezioni preliminari di inammissibilita' e di incompetenza territoriale del ricorso proposto ritiene che la controversia appartenga alla giurisdizione del giudice ordinario adito, competente territorialmente. Come gia' osservato da questa stessa sezione nell'ordinanza del 19 settembre 2015 dep. il 25 giugno 2015 e resa nel procedimento n. 14976/15, noto come «ricorso De Magistris»: «In via preliminare, ritiene il tribunale che effettivamente la questione relativa alla sospensione di cui all'art. 11, comma 1 del decreto legislativo n. 235/2012 rientri tra le cause indicate dall'art. 22 del decreto legislativo n. 150 cit. che, nell'ambito della cosiddetta "semplificazione dei riti", ha dettato una disciplina omogenea per le controversie in materia di eleggibilita', decadenza ed incompatibilita' nelle elezioni comunali, provinciali e regionali. Invero, sebbene non esplicitamente richiamata dal legislatore, la sospensione e' sicuramente assimilabile alle questioni di ineleggibilita', incandidabilita' e decadenza, differenziandosi in particolare da quest'ultima perche' a tempo determinato e perche' riconnessa ad una condanna non ancora definitiva, che, tuttavia, allorquando lo divenga determina appunto la decadenza dal munus pubblico. In sostanza, anche nel caso di specie cio' che viene richiesto e' la verifica dei requisiti per la permanenza nella carica elettiva (cd. ius in officio). Del resto, in passato, l'orientamento espresso, in alcune pronunce, dalla Suprema Corte (cfr. per il caso di sospensione dalla carica di consigliere regionale: Cass. Sez. I n. 17020 del 12 novembre 2003 e per il caso di sospensione dalla carica di consigliere comunale Cass. Sez. I n. 1990 del 20 gennaio 2004 e Cass. Sez. I n. 16052 dell'8 luglio 2009), nelle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa di una delibera applicativa di una sospensione dalla carica si sono ritenute applicabili - secondo un'interpretazione estensiva del concetto di "delibere in materia di eleggibilita'" - le disposizioni di cui all'art. 82 del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570, in quanto l'art. 9-bis del citato decreto abrogato dall'art. 274, comma 1, lettera e) del decreto legislativo 8 agosto 2000, n. 267, fatta salva l'applicabilita' agli amministratori regionali - ai sensi dell'art. 19 della legge 17 febbraio 1968, n. 108, richiamava per i relativi giudizi i termini stabiliti dall'art. 82». A tal proposito la Suprema Corte a sezioni unite nella sentenza n. 11131/15 nell'affermare la giurisdizione del giudice ordinario ha affermato che «la sospensione e' assimilabile, per continenza, alle suddette questioni di ineleggibilita', incadidabilita', decadenza e che, «la mera circostanza delle temporaneita' degli effetti della causa che impedisce di rivestire la carica in nessun modo e' idonea a far rifluire la situazione giuridica di diritto soggetto ad un posizione di interesse legittimo cosi' da radicare la giurisdizione del g.a.». Ricondotto il giudizio in merito alla sospensione dalla carica di presidente della regione nella disciplina dell'art. 22 della legge n. 150/2011, va disattesa l'eccezione di incompetenza per territorio del giudice adito in quanto lo stesso art. 22 prevede che le azioni popolari e le impugnative consentite per quanto concerne le elezioni regionali sono di competenza del tribunale del capoluogo della regione. Si tratta di competenza territoriale inderogabile ex art. 28 del codice di procedura civile, in ragione della partecipazione del PM, il cui necessario intervento comporta la riserva di cognizione collegiale del rito sommario ex art. 702-bis del codice di procedura civile e quindi anche del ricorso cautelare in corso di causa. Quanto alla compatibilita' del ricorso cautelare con la procedura semplificata prevista dall'art. 22 della legge n. 150/2011 questo tribunale sempre nella precitata ordinanza ha osservato che «l'effetto di razionalizzazione che permea il decreto legislativo n. 150 cit. quanto al contenzioso elettorale si coglie nell'aver ricondotto il medesimo al modello delineato dal rito sommario di cognizione, scegliendo, pero', di conservare, accanto ai criteri previsti dalla disciplina previgente per l'individuazione dell'organo giudicante quei profili di specificita' della disciplina precedente strettamente connessi con la materia oggetto del giudizio i cui effetti non possano conseguirsi con le norme contenute nel codice di procedura civile (cfr. art. 54 della legge di delega n. 69/2009). In particolare, poiche' obiettivo primario e' la celere definizione del giudizio dal momento che risultano in discussione i diritti inviolabili di elettorato, posto che di solito il circoscritto oggetto del giudizio esige al piu', di regola, un'istruzione meramente documentale, il legislatore ha scelto il rito sommario, dettando pero' degli accorgimenti che, dando conto delle soluzioni accolte dalla disciplina previgente, fanno discostare sotto molteplici profili la disciplina in questione dal modello di cui agli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile. Sgombrato il campo da tale questione quanto alla compatibilita' in linea generale tra l'art. 702-bis del codice di procedura civile e la tutela di cui all'art. 700 del codice di procedura civile, posto che non vi e' alcuna norma di legge che la escluda specificamente, si osserva che il procedimento sommario di cognizione e' di tipo "ordinario" perche' la cognizione e' piena, mentre la sommarieta' consiste solo nella deformalizzazione. Se la cognizione e' piena, allora essa rientra nella nozione di "via ordinaria", giustificando cosi' l'applicazione dell'art. 700 del codice di procedura civile, laddove sia esperibile, comunque, un'azione tramite rito sommario di cognizione. Nel procedimento sommario di cognizione la sommarieta' non riguarda il contenuto dell'accertamento posto a base della decisione, il quale accertamento deve, invece, tendere alla verifica della fondatezza delle allegazioni di parte in termini di verita' (processuale) e non gia' di mera verosimiglianza. In altri termini, la sommarieta' del procedimento cautelare e' diversa da quella del procedimento sommario, perche' nel primo caso ci si limita ad accertare il fumus boni iuris, mentre nel secondo caso si attua un'istruttoria, seppur deformalizzata, che ha lo scopo di far pervenire ad una pronuncia idonea a divenire cosa giudicata ex art. 2909 del codice civile (sulla possibilita' della tutela cautelare in corso di causa nell'ambito dei procedimenti sommari ex art. 702-bis del codice di procedura civile cfr. da ultimo Cass. Sez. 2, sentenza n. 592 del 15 gennaio 2015 in tema di procedimento giurisdizionale previsto dall'art. 63 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, avverso le deliberazioni in materia disciplinare del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti, richiamato anch'esso alla disciplina del procedimento sommario dall'art. 27 del decreto legislativo n. 150/2011).». La giurisprudenza oggi ritiene pacificamente il procedimento sommario quale rito semplificato di cognizione piena (Cass 2/12) alternativo al rito ordinario con una scelta lasciata alla discrezionalita' del giudice, tranne che per giudizi (come il contenzioso elettorale) assoggettati obbligatoriamente a tale rito ex decreto legislativo n. 150/2011; il carattere semplificato attiene tuttavia solo alla trattazione o all'istruzione e non anche alla cognizione. Inoltre nel rito sommario, a differenza del procedimento cautelare uniforme, non e' previsto un contradditorio anticipato e pertanto non sono previsti provvedimenti inaudita altera parte, ma deve essere fissata la comparizione delle parti e l'ordinanza conclusiva del giudizio ha idoneita' a passare in giudicato. E' stato altresi' escluso che il rito sommario abbia natura cautelare, nonostante la collocazione delle norme ad esso inerenti nella stessa sezione del codice, essendo esclusa per la sua instaurazione il periculum in mora ed essendo la natura cognitiva risultante esplicitamente dalla rubrica del capo III bis del codice di procedura civile introdotto dall'art. 51 della legge n. 69/2009 (Cass SSUU 11512/12). Ne' puo' argomentarsi diversamente per il fatto che le controversie di cui all'art. 22 del decreto legislativo n. 150 cit. abbiano carattere urgente. «Sul punto, in realta' la disciplina dettata dall'art. 22 cit. si conclude con la disposizione che prevede la trattazione, in ogni grado, in via di urgenza, ma tale disposizione non attiene alle modalita' di svolgimento del giudizio, ma bensi' alla priorita' con cui tali controversie devono essere trattate rispetto alle altre. Cio' e' reso palese dal fatto che le modalita' di svolgimento del giudizio risultano disciplinate mediante, ad esempio, la previsione di termini specifici per l'instaurazione del contraddittorio che, nel caso di specie, per rispondere ad un'altra delle eccezioni sollevate dalle difese sopra richiamate, avrebbero comportato la trattazione del giudizio regolarmente instaurato con ricorso ex art. 22 del decreto legislativo n. 150 cit. a termine di ultrattivita' della misura cautelare concessa dal T.A.R. ampiamente elasso, e cio' con irrecuperabile detrimento del diritto di elettorato passivo del ricorrente e in dispregio del principio della translatio iudicii. Del resto, vale altresi' rilevare che analoga previsione in termine di urgenza era contenuta nella disciplina previgente (cfr. art. 82 del decreto del Presidente della Repubblica n. 570/1960) e che nonostante l'urgenza prescritta per la trattazione delle controversie elettorali i termini che scandiscono l'iter del processo elettorale sono comunque soggetti alla regola della sospensione feriale, fatta salva la facolta' del giudice di dichiarare l'urgenza di un singolo procedimento ai sensi e per gli effetti dell'art. 92, comma 2 ord. giud. (cfr. fra le piu' recenti sez. 1, sentenza n. 2195 del 14 febbraio 2003, sez. 1, sentenza n. 1733 del 7 febbraio 2001). Infine, anche la disciplina dettata in tema di contenzioso elettorale devoluto alla giurisdizione amministrativa, laddove il decreto legislativo n. 104/2010 all'art. 129, comma 10, conferma quanto sostenuto in precedenza: invero, il legislatore ha disposto espressamente per l'esenzione dalla sospensione dei termini feriali delle sole controversie avverso gli atti di esclusione dal procedimento preparatorio, nulla prevedendo per le altre ipotesi. Inoltre, sul punto occorre effettuare un'ultima considerazione. Valutate le rilevanti finalita' cui e' preordinato l'istituto della sospensione necessaria del processo non e' mai stato dubitato il suo operare anche nell'ambito del giudizio elettorale, malgrado l'urgenza che ne informa lo svolgimento. Nel caso di specie, come si e' detto in precedenza, il giudizio di merito che prosegue innanzi al tribunale e' il giudizio nel corso del quale il T.A.R. ha dichiarato la sospensione ai sensi dell'art. 23, comma 2, della legge n. 87/1953 e l'art. 669-quater del codice di procedura civile, prevede espressamente la possibilita' che in un giudizio sospeso possano essere avanzate istanze cautelaci. Cio' posto, sostiene il Movimento difesa del cittadino che l'art. 22 del decreto legislativo n. 150/2011 non prevede esplicitamente la possibilita' di chiedere la sospensione dell'atto della P.A. che, nel caso di specie, ha dichiarato la sospensione dalla carica del de Magistris in forza dell'art. 11 del decreto legislativo n. 235/2012 e che, pertanto, anche alla luce dell'art. 5 del decreto legislativo n. 150 cit. non sarebbe stato possibile per il ricorrente ottenere la tutela cautelare richiesta. Tuttavia, l'interpretazione offerta non convince dal momento che l'art. 5 cit. si limita a dettare una disciplina comune per tutte le ipotesi in cui nel decreto legislativo n. 150 cit. sia esplicitamente prevista la sospensione dell'efficacia esecutiva di un provvedimento. Da tale disciplina comune non e' possibile cogliere alcun divieto in ordine alla possibilita' di ricorrere alla tutela cautelare offerta dall'art. 700 del codice di procedura civile, proprio laddove esplicitamente non previsto l'istituto della sospensione, la quale, peraltro, viene applicata, di regola, "quando ricorrono gravi e circostanziate ragioni esplicitamente indicate nella motivazione" (art. 5, cit, comma 1), venendo il rilievo del periculum in mora solo in caso di concessione del provvedimento fuori udienza (art. 5 cit., comma 2 "In caso di pericolo imminente di un danno grave ed irreparabile la sospensione puo' essere disposta con decreto pronunciato fuori udienza. La sospensione diviene inefficace se non e' confermata entro la prima udienza successiva con l'ordinanza di cui al comma 1"). Del resto, con la storica sentenza costituzionale n. 190 del 1985 si e' registrata una radicale inversione di rotta nella giurisprudenza della Consulta quanto alla tutela cautelare che, proprio a partire da quel momento, ha assunto progressivamente un ruolo essenziale nella prospettiva dell'effettivita' della tutela giurisdizionale, trovando fondamento in una norma non scritta del diritto processuale comune. Di tale tutela l'art. 700 del codice di procedura civile, costituisce una specifica applicazione nell'ambito del processo civile, secondo le regole positive che il legislatore ha dettato. In sostanza, e' proprio dal 1985 che si e' posto il problema di conferire rilevanza costituzionale al principio chiovendiano secondo cui la durata del processo non deve andare a danno dell'attore che ha ragione. Tale principio e' stato dapprima posto genericamente a fondamento della tutela cautelare considerata in senso ampio, in seguito trovando massima esplicazione, sotto il profilo della legislazione ordinaria, nell'art. 700 del codice di procedura civile. In Costituzione, invero, non e' previsto uno specifico modello di tutela giurisdizionale in quanto la disciplina della materia era rimessa al legislatore ordinario. Tuttavia, come si e' visto in precedenza con riferimento proprio alla translatio iudicii, i principi costituzionali influiscono direttamente sulle scelte del legislatore e la tutela giurisdizionale risulta indispensabile nell'attuazione del diritto sostanziale, a sua volta imprescindibile e ulteriore passaggio rispetto al semplice riconoscimento di una posizione soggettiva. Del resto, nei confronti dei diritti fondamentali il nostro ordinamento non ha approntato una tutela differenziata, come invece nel sistema di altri Paesi; conseguentemente, e' apparso decisivo, per assicurare una protezione giurisdizionale effettiva, rinviare alla tutela d'urgenza. In sostanza, la tutela cautelare e' espressione di quel generale principio del processo in virtu' del quale, al termine di quest'ultimo, la parte costretta a rivolgersi al giudice debba essere posta, se ha avuto ragione, nella stessa situazione in cui si sarebbe trovata se non avesse dovuto ricorrere all'intervento giurisdizionale. Lo stesso principio vale, ovviamente, anche per la parte nei cui confronti sia stata infondatamente attuata la tutela richiesta. Anche la Corte di giustizia comunitaria si e' occupata di misure cautelaci, che ha ritenuto essere solo quelle dal carattere provvisorio emanate sulla base del presupposto dell'urgenza inteso come rischio, sempre provato dal ricorrente, di un imminente danno grave ed irreparabile. Nell'esperienza giuridica comunitaria, con riferimento a tale ultima nozione di danno, un pericolo di pregiudizio assume la connotazione della irreparabilita' qualora, verificandosi, non vi si possa rimediare tramite indennizzo a posteriori o quando, in mancanza del provvedimento cautelare, la situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio potrebbe essere compromessa in modo irreversibile anche ad opera della decisione di merito. E' evidente la solidita' della copertura costituzionale prevista per la tutela cautelare atipica e l'ammissibilita', quindi, per tutte le argomentazioni sopra svolte al suo ricorso anche nel caso di specie». Infine quanto all'ammissibilita' degli interventi va rilevato che il ricorso elettorale e' una ipotesi di azione popolare che puo' essere proposta da qualsiasi cittadino elettore, diretta a porre rimedio ad un eventuale operato illegittimo della pubblica amministrazione; tale azione popolare e' posta a tutela della collettivita' in quanto il ricorrente agisce uti civis per salvaguardare la regolare composizione ed il regolare funzionamento degli organi collegiali degli enti locali da cui deriva il carattere diffuso della legittimazione; inoltre la legittimazione ha natura fungibile perche' posta ad evitare che l'inerzia di colui che ha instaurato il giudizio finisca per pregiudicare l'interesse della collettivita' dovendosi ritenere opportuno garantire il diritto di difesa a tutti coloro che, attesa l'estensione ultra partes del giudicato elettorale, sono in ogni caso tenuti a subire gli effetti della decisione. L'interesse dell'attore, in genere, ha comunque carattere individuale e si identifica nel diritto di elettorato attivo e/o passivo previsto dalla Costituzione, e pertanto va riconosciuta la legitimatio ad causam ai soli cittadini dell'ente locale in questione. Sono inoltre legittimati all'azione elettorale i diretti interessati dovendosi con cio' intendere sempre i titolari di diritti soggettivi (come i candidati non risultati eletti, e precisamente il primo di questi, qualsiasi componente dell'organo deliberativo) e non coloro che hanno un mero interesse al buon andamento della pubblica amministrazione. Legittimati all'intervento nel giudizio elettorale sono quindi i soggetti investiti della relativa legitimatio ad causam e pertanto gli elettori dell'ente locale in oggetto. «In tema di contenzioso elettorale il processo puo' essere promosso da qualsiasi cittadino elettore del comune e da chiunque vi abbia interesse, il che configura una legittimazione diffusa e fungibile, accordata dall'ordinamento in funzione di un interesse pubblico alla regolare composizione ed al retto funzionamento degli organi collegiali degli enti pubblici territoriali e che trova la sua ragion d'essere nell'opportunita' di utilizzare l'iniziativa di qualsiasi cittadino elettore, diretta ad eliminare eventuali illegittimita' verificatesi in materia di elettorato amministrativo, con la necessaria conseguenza che il giudicato formatosi in tale giudizio acquisti autorita' ed efficacia erga omnes, non essendo compatibile con la natura popolare dell'azione, con il suo carattere fungibile e con le sue funzioni e finalita', che gli effetti della pronuncia rimangano limitati alle sole parti del giudizio e non operino anche nei confronti di tutti gli altri legittimati e dell'organo collegiale cui il giudizio stesso si riferisce (cfr. le sentenze delle sezioni unite nn. 73 del 2001 e 2464 del 1982; sez. 1, sentenza n. 27327 del 2011). La giurisprudenza tende ad escludere la legittimazione processuale dell'ente territoriale nel giudizio promosso da colui che sia stato dichiarato decaduto dalla carica elettorale o non eleggibile, anche quando il ricorso miri a ottenere la declaratoria di nullita' della relativa deliberazione, in quanto tale giudizio ha per oggetto non la legittimita' del provvedimento di dichiarazione di decadenza o di ineleggibilita', bensi' la sussistenza del diritto soggettivo alla permanenza nella carica (vedi Cass. nn. 1020/1991, 8979/1992, 4868/1994, 6153/1996, 13588/2000, 16205/2000). Osserva la Corte che «nel giudizio promosso dall'eletto avverso la delibera municipale di nullita' della sua elezione, legittimo e necessario contraddittorio e' il soggetto che a lui si sostituisce per legge nella carica in dipendenza della delibera stessa. A lui soltanto deve essere notificato il ricorso da parte del candidato dichiarato decaduto per versare in una situazione di ineleggibilita' o incompatibilita'. Il principio e' imposto dal rilievo che il giudice ordinario, anche in detta controversia, non svolge un sindacato sulla legittimita' dell'atto consiliare, ne' esercita giurisdizione di annullamento dell'atto stesso, ma deve statuire sulla spettanza della carica, definendo un conflitto su posizioni di diritto soggettivo, alle quali rimane estraneo l'ente territoriale (sez. 1, sentenza n. 25946 del 2007)». Inoltre la Cassazione esclude come contraddittori necessari gli eletti delle liste collegate, ma ne ammette l'intervento adesivo dipendente (sez. 1, sentenza n. 15284 del 29 novembre 2000). In base agli enunciati principi deve quindi escludersi la legittimazione processuale della regione Campania e del Movimento difesa del cittadino e di Antonio Longo dei quali e' stata contestata la legittimazione all'intervento, in quanto il Movimento difesa del cittadino risulta essere una organizzazione a tutela degli interessi del cittadino consumatore e il sig. Antonio Longo risulta elettore della regione Lazio (cfr sentenza del Consiglio di Stato 27 novembre 2012), mentre tutti gli altri interventori risultano cittadini elettori della regione Campania. Passando al merito, con decreto del presidente di questa sezione del 2 luglio 2015 veniva sospesa l'efficacia esecutiva del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 26 giugno 2015 con il quale era stata disposta la sospensione di De Luca Vincenzo dalla carica di presidente del consiglio regionale della Campania. In via di urgenza veniva ritenuto sussistente il fumus boni iuris - non essendo manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale gia' rimessa alla Corte e dal giudice amministrativo e da quello ordinario (v. per tutte quanto al giudice ordinario, corte di appello di Bari ordinanza n. 1748/2014 del 27 gennaio 2014 e quanto al giudice amministrativo, TAR della Campania ordinanza depositata il 30 ottobre 2014) - ed il periculum in mora, nel pregiudizio irreparabile derivante dalla mancata rimozione degli effetti della sospensione dalla carica, posto che l'istante non potrebbe recuperare, in alcun modo il periodo di sospensione subito, nelle more dell'accertamento definitivo del merito e che il provvedimento impugnato, inibendo al presidente l'esercizio dei poteri connessi alla sua carica e impedendo l'insediamento del consiglio regionale e la nomina degli organi di presidenza del consiglio entro il termine del 12 luglio 2015 nonche' la composizione della giunta regionale e la nomina del vicepresidente, determinerebbe la necessita' di ricorrere a nuove elezioni, con conseguente vanificazione del risultato elettorale e con indubbia lesione anche delle posizioni soggettive dei rimanenti eletti in consiglio. Come affermato dalla Cassazione a sezioni unite (sent. n. 11131/15) «il provvedimento di sospensione incide sul diritto soggettivo di elettorato passivo, atteso che questo non si esaurisce con la partecipazione all'elezione ma ovviamente si estende allo svolgimento delle funzioni per le quali si e' stati eletti». Il provvedimento amministrativo che venga a disporre la sospensione dalla carica per il periodo di diciotto mesi, dunque, incide direttamente su tale diritto soggettivo. Diviene quindi rilevante ai fini del presente giudizio cautelare e di quello successivo di merito, la decisione delle prospettate questioni di legittimita' costituzionale, non risultano possibile, dato il chiaro tenore letterale delle norme in commento, alcuna interpretazione costituzionalmente orientata risolutiva della fattispecie in esame. Ritiene questo collegio che la questione di legittimita' costituzionale possa essere sollevata anche nel corso di un procedimento cautelare, non essendovi alcuna statuizione normativa che ne impedisce la proposizione e non essendo in linea di principio incompatibile con il procedimento cautelare ove - sussistente il fumus boni iuris ed il periculum in mora - medio tempore vengano adottate soluzioni di tutela idonee a preservare il futuro riconoscimento del diritto. A tal proposito la Corte costituzionale nella sentenza n. 151/2009, richiamando la pregressa giurisprudenza della stessa Corte, ammette la possibilita' che siano sollevate questioni di legittimita' costituzionale in sede cautelare, sia quando il giudice non provveda sulla domanda, sia quando conceda la relativa misura, purche' tale concessione non si risolva nel definitivo esaurimento del potere cautelare del quale in quella sede il giudice fruisce (sentenza n. 161 del 2008 e ordinanze n. 393 del 2008 e n. 25 del 2006, sentenza n. 274/14). Ritiene questo collegio che non sia manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale eccepita dal ricorrente quanto al punto 1) del ricorso di merito: violazione art. 8 del decreto legislativo n. 235/2012 in relazione all'art. 51 Cost. - divieto di interpretazione analogica estensiva in tema di cause restrittive del diritto di elettorato passivo - illegittimita' dell'art. 8, comma 1, lettera a) e 7, comma 1, lettera c) del decreto legislativo 31 dicembre 2102, n. 235, per violazione dell'art. 1, comma 64, legge n. 190/2012. La legge delega n. 190/2012 attribuiva al Governo un potere di riordino delle disposizioni in materia di incandidabilita' e divieto di ricoprire nuove cariche elettive e di governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi (art. 8 del disegno di legge). L'oggetto della delega al comma 63 individuava l'adozione di un testo unico in materia di incandidabilita' a cariche elettive e il divieto, di assunzione di alcune cariche elettive e di governo ed in entrambi i casi le disposizioni dovevano riguardare soggetti per i quali erano state pronunciata sentenze definitive di condanna. Infatti l'art. 1, comma 64, lettera m) della legge n. 190/2012, ha delegato il governo a disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza dal diritto dalle cariche in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all'affidamento della carica (recita testualmente la norma: «disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle cariche di cui al comma 63 in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all'affidamento della carica»). Si rinviene nei lavori preparatori della Camera che l'art. 8 del progetto di legge n. 513, comma 2, lettere l) ed m), dettava disposizioni comuni («principi e criteri direttivi di carattere generale»). La lettera l), in particolare, prevedeva in ossequio alle tecniche di redazione degli atti normativi, l'abrogazione espressa delle disposizioni incompatibili con quelle recate nel testo di legge. Nella seconda (la lettera m) si legge: «disciplina le ipotesi di incandidabilita' sopravvenuta ossia il caso in cui la condanna definitiva per delitti non colposi che causa l'incandidabilita' o l'interdizione, sopraggiunga in un momento successivo alla candidatura (in caso di cariche elettive) o all'affidamento della carica (in caso di cariche non elettive). Il principio di delega prevede che in questi casi si procede a sospensione o alla decadenza di diritto dalla carica. La disposizione non fornisce ulteriori dettagli in ordine ai casi in cui si applica l'una o l'altra delle fattispecie anche se sembrerebbe plausibile l'applicazione della sospensione in caso di cariche elettive (anche in relazione alla temporaneita' dell'incadidabilita' prevista dalle lettere a) e b) e di decadenza per le cariche non elettive (di governo)». Come ritenuto dalla Corte costituzionale «La legge delegata e' una delle due forme eccezionali con cui si esercita il potere normativo del Governo. Il relativo procedimento consta di due momenti: nella prima fase il Parlamento con una norma di delegazione prescrive i requisiti e determina la sfera entro cui deve essere contenuto l'esercizio della funzione legislativa delegata (art. 76); successivamente, in virtu' di tale delega, il potere esecutivo emana i «decreti che hanno forza di legge ordinaria» (art. 77, comma 1). Queste fasi si inseriscono nello stesso iter, e ricollegando la norma delegata alla disposizione dell'art. 76, attraverso la legge di delegazione, pongono il processo formativo della legge delegata, come una eccezione al principio dell'art. 70. La norma dell'art. 76 non rimane estranea alla disciplina del rapporto tra organo delegante e organo delegato, ma e' un elemento del rapporto di delegazione in quanto, sia il precetto costituzionale dell'art. 76, sia la norma delegante costituiscono la fonte da cui trae legittimazione costituzionale la legge delegata. La inscindibilita' dei cennati momenti formativi dell'atto avente forza di legge si evince anche dalla disposizione dell'art. 77, comma 1, secondo cui si nega al Governo il potere normativo, se non sia intervenuta la delegazione delle Camere: l'art. 76, fissando i limiti del potere normativo delegato, contiene una preclusione di attivita' legislativa, e la legge delegata, ove incorra in un eccesso di delega, costituisce il mezzo con cui il precetto dell'art. 76 rimane violato. La incostituzionalita' dell'eccesso di delega, traducendosi in una usurpazione del potere legislativo da parte del Governo, e' una conferma del principio, che soltanto il Parlamento puo' fare le leggi. Ne' per sottrarre le leggi delegate al controllo costituzionale si dica che, nella specie, mancherebbe il presupposto per la esistenza della controversia di legittimita' costituzionale; cioe' un contrasto diretto tra norma ordinaria e precetto costituzionale, in quanto soltanto tale contrasto potrebbe dar luogo ad un accertamento di conformita' o di divergenza costituzionale. Giacche' se di regola il rapporto di costituzionalita' sorge tra un precetto costituzionale e una legge ordinaria, non e' da escludere che, in piena aderenza al sistema, possa egualmente verificarsi una violazione di un precetto costituzionale, come per le leggi delegate, qualora nello esercizio del potere normativo eccezionalmente attribuito al Governo non siano osservati i limiti prescritti. Anche in siffatta ipotesi si verifica un caso di mancanza di potere normativo delegato, che non puo' sfuggire al sindacato di questa Corte. La tesi opposta, che considera la legge delegante e la legge delegata, come leggi ordinarie, porterebbe a negare la competenza di questa Corte a conoscere di eventuali contrasti tra le due norme, attribuendone l'esame al giudice ordinario. Non puo' inoltre sostenersi che, considerando la norma delegata come provvedimento di esecuzione della legge delegante, le eventuali esorbitanze debbano essere conosciute dal giudice ordinario, al pari degli eccessi dei regolamenti esecutivi; perche', non trovandosi la legge delegata sullo stesso piano costituzionale del regolamento esecutivo, non si puo' relativamente ai vizi dell'atto avente forza di legge ordinaria negare la particolare piu' efficace tutela disposta dalla Costituzione. Sarebbe in contrasto col principio organizzativo posto a base della formazione delle leggi, negare per le leggi delegate, aventi anche esse carattere generale e che pur possono essere mancanti di elementi essenziali, sia la tutela costituzionale predisposta per le leggi del potere legislativo, sia la possibilita' di una decisione con efficacia erga omnes (art. 136 Costituzione). Pertanto non e' a dubitare, che la violazione delle norme strumentali per il processo formativo della legge nelle sue varie specie (articoli 70, 76, 77 Costituzione), al pari delle norme di carattere sostanziale contenute nella Costituzione, siano suscettibili di sindacato costituzionale; e che nelle «questioni di legittimita' costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge» (articoli 1, legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1; 23, comma 3 e 27, legge 11 marzo 1953, n. 87) vanno comprese le questioni di legittimita' costituzionale relative alle leggi delegate. Consegue che il sindacato e' devoluto sempre alla competenza della Corte costituzionale, ai sensi degli articoli 1 cit. legge costituzionale n. 1, 23 cit. legge 1953, n. 87; soltanto le decisioni della Corte costituzionale possono assicurare, con la certezza del diritto, la piena tutela del diritto del cittadino alla costituzionalita' delle leggi. Affermata la sindacabilita' costituzionale della legge delegata, occorre precisare i rapporti tra legge delegante e legge delegata. La legge delegante va considerata con riferimento all'art. 76 della Costituzione, per accertare se sia stato rispettato il precetto che ne legittima il processo formativo. L'art. 76 indica i limiti entro cui puo' essere conferito al Governo l'esercizio della funzione legislativa. Per quanto la legge delegante sia a carattere normativo generale, ma sempre vincolante per l'organo delegato, essa si pone in funzione di limite per lo sviluppo dell'ulteriore attivita' legislativa del Governo. I limiti dei principi e criteri direttivi, del tempo entro il quale puo' essere emanata la legge delegata, di oggetti definiti, servono da un lato a circoscrivere il campo della delegazione si' da evitare che la delega venga esercitata in modo divergente dalle finalita' che la determinarono; devono dall'altro consentire al potere delegato la possibilita' di valutare le particolari situazioni giuridiche della legislazione precedente, che nella legge delegata deve trovare una nuova regolamentazione. Se la legge delegante non contiene, anche in parte, i cennati requisiti, sorge il contrasto tra norma dell'art. 76 e norma delegante, denunciabile al sindacato della Corte costituzionale, s'intende dopo l'emanazione della legge delegata. Del pari si verifica un'ipotesi d'incostituzionalita', quando la legge delegata viola direttamente una qualsiasi norma della Costituzione (Corte costituzionale sentenza n. 3 del 1957).». Pertanto il Governo: a) nel prevedere all'art. 8, comma 1 del decreto legislativo n. 235/2012 la sospensione di diritto dalle cariche indicate all'art. 7, comma 1) di coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati dall'art. 7, comma 1, lettere a), b) e c), non poteva disattendere il limite imposto alla legge delega, estendendo la sospensione anche per le sentenze di condanne precedenti la candidatura o l'assunzione della carica. Sempre ai fini della rilevanza della questione, non puo' ritenersi dalla semplice lettura dell'art. 8 della cosiddetta legge Severino che la stessa non sia applicabile al ricorrente De Luca, come prospettato dalla sua difesa. La circostanza che il De Luca abbia riportato la condanna non definitiva prima dell'assunzione della carica, risulta irrilevante in quanto nella norma citata e' completamente scomparso qualsiasi riferimento temporale relativo alle condanne che la legge delega ancorava solo ad epoca successiva all'assunzione della carica stessa e tale norma e' quella allo stato imperativa; b) non poteva disattendere il limite imposto dalla legge delega estendendolo anche al caso di sentenza non definitiva di condanna, non previsto dalla legge delega. Come osservato nella ordinanza della Corte di appello di Bari del 27 gennaio 2014: «In altre parole il primo giudice e' incorso nella patente violazione dell'art. 12 delle preleggi, accedendo ad una lettura della norma assolutamente contraria ad un chiaro e inequivoco dettato che demandava al legislatore il compito di disciplinare la sospensione di diritto solo in caso di sentenza definitiva di condanna. Il mandato non era ne' illogico ne' contradditorio atteso che il Parlamento, approvando il testo delle legge delega, aveva evidentemente condiviso le conclusioni rassegnate alla Commissione affari costituzionali dal relatore, che aveva sostenuto che la lettera m) del comma 64 dell'art. 1 riferiva la sospensione alle cariche elettive e la decadenza a quelle non elettive, come detta il tenore letterale della norma teste' trascritta. La portata della delega era pertanto chiara e manifesta e non era consentito al legislatore delegato di regolare la fattispecie in modo inconfutabilmente creativo secondo una logica diversa, certamente condivisibile e piu' aderente allo scopo generale che si intendeva perseguire, ma ben al di la' del mandato conferito dalla legge delega. Il legislatore delegato non poteva travalicare i limiti assegnabili». Non e' quindi manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale del comma primo dell'art. 8 del decreto legislativo 3 dicembre 2012, n. 235, perche', in violazione degli articoli 76 e 77 della Carta costituzionale, dispone la sospensione dalla carica di presidente della regione Campania (per quanto qui rileva) a seguito di condanna non definitiva. Sull'ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale sollevata dal ricorrente al punto IV del ricorso di merito, ovverosia la illegittimita' costituzionale degli articoli 7 e 8 del decreto legislativo n. 235/2012 in relazione agli articoli 25 e 117 della Cost. e all'art. 7 CEDU ed 11 delle preleggi in relazione tanto alla irretroattivita' della norma alla fattispecie concreta rappresentata dalla decisione del tribunale di Salerno, che aveva condannato il ricorrente per abuso di ufficio per fatti risalenti al 2008, quanto alla previsione di un'ulteriore fattispecie di reato (abuso di ufficio) non prevista come causa di sospensione o di decadenza dalla carica, ritiene il collegio di parzialmente condividere le argomentazioni, nei termini di seguito specificati. A tal proposito la precitata ordinanza di rimessione della Corte di appello di Bari, di cui si condividono le motivazione, ha argomentato che «quand'anche dovesse ritenersi che effettivamente la sospensione dalla carica costituisca un effetto di natura amministrativa della condanna penale ancorche' non passata in giudicato, non appare tuttavia dubbio che comunque si tratta di effetto afflittivo conseguito di diritto a condanna per un reato consumato in data antecedente a quella dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 235/2012, che tale effetto aveva statuito, di modo che non pare possa sostenersi ragionevolmente l'insussistenza della violazione degli articoli della Costituzione 25 e 117 (quest'ultimo con riferimento all'art. 7 della CEDU). Sebbene infatti lo scopo delle norme sia indubbiamente quello di allontanare dall'amministrazione della cosa pubblica, anche in via cautelare, chi si sia reso moralmente indegno - e si tratta di scopo assolutamente condivisibile in quanto risponde alla comune opinione dei consociati -, tuttavia va considerato che la suddetta tutela collide con il diritto di rango costituzionale di accesso alle cariche elettive e di esercizio delle funzioni connesse alla carica conseguita in virtu' di libere elezioni, diritti tutelati e garantiti dall'art. 51 della Carta costituzionale che non possono in concreto essere garantiti se non nell'ambito delle garanzie costituzionali tutte, di modo che e' parte necessaria consustanziale del diritto il divieto di retroattivita' delle norme sanzionatorie, disciplinato dall'art. 11 delle preleggi». Anche il TAR Campania nella ordinanza del 22 ottobre 2014 ha sollevato analoga questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11, primo comma, lettera a) del decreto legislativo n. 235/2012, in relazione all'art. 10, primo comma, lettera c) del medesimo decreto legislativo perche' l'applicazione retroattiva si pone in contrasto con gli articoli 2, 4 secondo comma, 51 primo comma e 97 secondo comma della Costituzione. Ha ritenuto tale collegio che «l'applicazione retroattiva di una norma sanzionatoria, anche di natura non penale ai sensi dell'art. 25, secondo comma, Cost, urta con la pienezza ed il regime rafforzato di diritti costituzionalmente garantiti, tutte le volte in cui la Carta rimette alla disciplina legislativa il regime ordinario di esercizio di quel diritto; pertanto ove vi sia riserva di legge per la disciplina di diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta, assumono rango costituzionale anche i principi generali che disciplinano la fonte di produzione normativa primaria; di conseguenza, essendo il divieto di retroattivita' di cui all'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, uno dei principi su cui si fonda l'efficacia della legge nel tempo, la sua violazione e' anche violazione del diritto che la Costituzione espressamente la chiama a disciplinare e proteggere. In questo senso l'art. 51 della Costituzione nell'affidare alla legge l'individuazione dei requisiti per l'accesso alle cariche pubbliche, quindi la disciplina positiva per l'esercizio del diritto di elettorato passivo, cio' consente nei limiti fisiologici entro i quali alla legge stessa e' consentito operare, cioe' non retroattivamente. Si aggiunga che la forza di tale assunto s'intensifica, tenuto conto del primo dei citati postulati, ossia la natura sanzionatoria della cause ostative di cui al decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 - tra cui figura la sospensione dalla carica applicata al ricorrente - attesa l'inderogabilita' assoluta del principio di irretroattivita' nell'ambito di istituti e regimi in buona parte assimilabili alle sanzione penali». Condividendo questo collegio le argomentazioni esposte con particolare riferimento all'assimilabilita' ad una sanzione penale delle cause di sospensione dall'esercizio di una carica pubblica quale limite all'esplicazione del diritto di elettorato passivo di cui all'art. 51, primo comma della Costituzione, diritto inviolabile ai sensi dell'art. 2 della Carta, e posto a fondamento delle istituzioni democratiche repubblicane secondo quanto previsto dall'art. 97, secondo comma ed espressione di una libera scelta dei cittadini ai sensi dell'art. 4, secondo comma, si ritiene che non sia manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 8, primo comma, lettera a) del decreto legislativo n. 235/2012 in relazione all'art. 7, comma 1, lettera c), perche' la sua applicazione retroattiva si pone in contrasto con gli articoli 2, 4, secondo comma, 51, primo comma, e 97 secondo comma della Costituzione, e dell'art. 8, comma prima del decreto legislativo 3 dicembre 2012, n. 235, in quanto in violazione dell'art. 25 e del primo comma dell'art. 117 (in relazione all'art. 7 CEDU) della Costituzione, non prevedendo la sospensione solo per sentenze di condanna relative a reati consumati dopo la loro entrata in vigore. Ritiene, infine, questo collegio non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale anche dell'art. 1, comma 1, lettera b) in relazione all'art. 7, comma 1, lettera c) del decreto legislativo n. 235/2012 e all'art. 8, comma 1, lettera a) in violazione degli articoli 3, 51, 76 e 77 della Costituzione ed in evidente disparita' di trattamento non prevedendo la norma per gli eletti al consiglio regionale, ai fini della sospensione dalla carica in caso di condanna per uno dei delitti previsti (abuso d'ufficio) una soglia di pena superiore a due anni come e' per i parlamentari nazionali ed europei ai fini dell'incandidabilita', non essendo prevista soglia alcuna. Il decreto legislativo infatti senza motivazione alcuna differenzia gli eletti al governo ed al parlamento rispetto a quelli alle cariche regionali prevedendo ai fini della incandidabilita' e della impossibilita' a ricoprire la carica di presidente della regione, consigliere regionale o assessore una sentenza di condanna definitiva per il reato di abuso di ufficio (che qui interessa), mentre per la incandidabilita' temporanea dei deputati, senatori e parlamentari europei, prevede una sentenza di condanna definitiva a pena superiore a due anni di reclusione. La sentenza di condanna non definitiva per taluni reati tra cui l'abuso di ufficio, sempre senza riferimento alla pena superiori ai due anni di reclusione, e' poi prevista all'art. 8 del decreto legislativo, senza alcun riscontro nella legge delega, per la sospensione dalla carica degli eletti nell'ente territoriale. Non puo' a tal fine argomentarsi per sostenere la razionalita' della scelta legislativa, che le cariche in questione sono differenti, in quanto non vi e' ragione alcuna per trattare piu' severamente gli organi locali rispetto a quelli nazionali, essendo se mai necessario il contrario, attesa la maggiore estensione del mandato elettorale, e avendo comunque anche gli organi regionali funzioni legislative. Vi e' quindi una evidente e palese, nonche' ingiustificata disparita' di trattamento degli eletti. Quanto al periculum in mora: Ritiene il collegio che la sospensione riguardante il De Luca comporterebbe la lesione irreversibile del suo diritto soggettivo all'elettorato passivo, posto il limite temporale del mandato elettivo. L'applicazione della sospensione, nell'elevato dubbio di legittimita' costituzionale delle norme sopra indicate, comprimendo l'esercizio delle elettorato passivo e del libero svolgimento del mandato elettorale, comporterebbe un danno non riparabile ne' risarcibile. Si impone pertanto, in attesa della decisione della Corte costituzionale, la sospensione cautelativa del provvedimento sospensivo del Presidente del Consiglio dei ministri con previsione della prosecuzione del presente giudizio cautelare alla prima camera di consiglio successiva alla pronuncia della Corte. In tali termini, va quindi modificato il provvedimento emesso inaudita altera parte dal Presidente della I sezione civile del 2 luglio 2015.