CORTE DI APPELLO DI TRENTO 
                           Sezione Penale 
 
    La Corte, riunita in Camera di consiglio in persona dei signori: 
      dott. Luciano Spina - Presidente rel. 
      dott. Annamaria Creazzo - Consigliere 
      dott. Patrizia Collino - Consigliere 
 
                              Ordinanza 
 
    Vista  la  richiesta  preliminare  del  Procuratore  generale  di
sollevare questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  603,
comma 3-bis, c.p.p.; 
    Sentite le parti; 
    Rilevato che la Corte e' stata investita del  processo  penale  a
carico di N. S., nato a ..... il ..... , in ordine ai  reati  di  cui
agli artt. 81 cpv e 609-bis commi 1 e 2 n.  1  nonche'  all'art.  612
comma 2 del codice penale su appello del pubblico ministero, il quale
ha impugnato i capi delle sentenza di data 27 ottobre 2016 n.  508/16
con cui il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale  di  Trento
(pur dichiarando l'imputato colpevole del reato di lesioni personali)
ha assolto il medesimo dai contestati delitti  di  violenza  sessuale
continuata ed aggravata e di  minaccia  aggravata,  per  la  ritenuta
insussistenza dei fatti; 
    Considerato che  l'impugnazione  e'  stata  proposta  per  motivi
attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, costituita dalla
denuncia, con contestuale istanza punitiva, presentata dalla  persona
offesa M. K., in quanto l'appellante pubblico  ministero  censura  il
negativo apprezzamento operato, a fini assolutori, dal primo  Giudice
in ordine alla piena attendibilita' delle dichiarazioni della donna; 
    Ritenuto  che   nel   presente   grado   di   giudizio   dovrebbe
astrattamente applicarsi la disposizione contenuta  nel  comma  3-bis
dell'art. 603 c.p.p. introdotto con la legge 23 giugno 2017  n.  103,
che impone la rinnovazione dell'istruzione dibattiinentale; 
    Rilevato che il processo si svolge in  giudizio  abbreviato,  per
scelta dell'imputato, il quale,  tra  l'altro,  non  ha  condizionato
l'ammissione del rito all'assunzione di prove nel dibattimento; 
    Ritenuto  che   il   Procuratore   generale,   opponendosi   alla
rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, sostiene  che  la  norma
processuale  impositiva  della  rinnovazione   istruttoria   presenti
profili di incostituzionalita', in riferimento agli artt. 111  e  117
della Costituzione, nella parte in cui dovrebbe ricevere applicazione
anche nei giudizi definibili «allo stato degli atti» ai  sensi  degli
artt. 438 e segg. c.p.p.; 
 
                               osserva 
 
    La norma in questione, introdotta con la riforma  del  codice  di
procedura penale contenuta nella legge 20  giugno  2017  n.  103,  in
vigore dal 3 agosto  del  corrente  anno,  dispone  in  via  generale
l'obbligo della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel  caso
di appello del pubblico ministero contro sentenza di  proscioglimento
per motivi attinenti  alla  valutazione  di  prove  dichiarative.  In
teoria  il  dettato  normativo,  essendo  di  recente   introduzione,
potrebbe conoscere le  piu'  varie  interpretazioni  da  parte  degli
operatori del diritto. Tra esse, quella della  esclusione  della  sua
applicabilita' ai processi in cui una istruzione  dibattimentale  non
vi sia stata in primo grado  (come  nell'ipotesi  di  consenso  delle
parti all'acquisizione di atti contenuti nel fascicolo  del  pubblico
ministero, ai sensi dell'art. 493 comma 3 del codice di  rito)  e,  a
maggior ragione, a quelli in cui la decisione «allo stato degli atti»
assunti  nella  fase  delle  indagini  preliminari  sia   conseguente
all'esplicito consenso dato dall'imputato  con  la  scelta  del  rito
abbreviato. 
    Peraltro, il  principio  di  diritto  dell'obbligatorieta'  della
rinnovazione   era   gia'   stato   introdotto,   prima   della   sua
codificazione, dalla giurisprudenza della  Corte  di  cassazione.  In
particolare le Sezioni unite della Suprema Corte  avevano  affermato,
consolidando un indirizzo gia' tracciato da numerose  sentenze  delle
singole sezioni, la necessaria condizione  della  rinnovazione  delle
prove dichiarative, ritenute decisive, al fine di  una  loro  diversa
valutazione   da   parte   del   giudice   di    appello    investito
dell'impugnazione del pubblico ministero  che  ne  avesse  denunciato
l'erroneo apprezzamento in sede di proscioglimento (Cass. SS. UU.  28
aprile 2016 n. 27620). Successivamente, la terza sezione della stessa
Corte aveva escluso tale obbligatorieta' con riferimento ai  processi
celebrati con il rito abbreviato, in  considerazione  della  rinuncia
all'oralita' operata dall'imputato (Cass. 12 luglio 2016  n.  43242).
Da   ultimo,   peraltro,   le   Sezioni   Unite   hanno   riaffermato
l'applicazione del principio da loro precedentemente  espresso  anche
ai processi celebrati con il predetto rito speciale (Cass. SS. UU. 19
gennaio 2017 n. 18620). 
    Conseguentemente puo' essere ritenuto che tali  pronunce,  e,  in
particolare, l'ultima, costituiscano «diritto vivente» (inteso  quale
«sistema  giurisprudenziale  formatosi  nel   difetto   di   espresse
disposizioni», secondo l'insegnamento contenuto nella sentenza  della
Corte costituzionale 1° dicembre 1974 n. 276)  e  che  conservino  la
propria  efficacia  nomofilattica  pur  dopo  la  novella  normativa.
Infatti  il  testo  legislativo   che   l'ha   introdotta   riproduce
esattamente la regula iuris affermata dalla Suprema Corte,  la  quale
ha riferito la scelta giurisprudenziale non gia'  ad  una  previgente
legislazione nazionale ma a principi di  diritto  sovranazionali.  In
particolare e' stato invocato l'art. 6 par. 3 lettera d) della  CEDU,
che  garantisce  il  diritto  dell'imputato  di  «esaminare  o   fare
esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione  e  l'esame
dei  testimoni  a  discarico».  E'  stata,  altresi',  richiamata  la
giurisprudenza della Corte di Strasburgo, secondo cui la condanna  in
appello di imputato gia' prosciolto e' consentita solo  previa  nuova
assunzione diretta dei testimoni. 
    Le   citate   pronunce,   se    indubitabilmente    costituiscono
l'esplicazione  di  un  generale  principio  di  civilta'   giuridica
nell'ordinario processo penale, caratterizzato dalla formazione della
prova davanti al giudice, appaiono disarmoniche con i processi per  i
quali  e'  istituzionalmente   prevista   l'eccezione   alla   regola
dell'oralita' e immediatezza dell'acquisizione probatoria. 
    Il citato art. 6 della CEDU attribuisce all'imputato il «diritto»
di esaminare o far esaminare i testimoni  e  non  la  obbligatorieta'
dell'assunzione della prova testimoniale. Non appare  contrastare  il
predetto «diritto» la facolta' dell'imputato di rinunciarvi a  fronte
di vantaggi processuali conseguenti  alla  mera  scelta  di  un  rito
«contratto». Diversamente opinando, anche il primo grado di  giudizio
celebrato in «abbreviato» su  sua  richiesta  dovrebbe  ritenersi  in
contrasto con la garanzia «convenzionale». 
    Significativa e' la casistica  affrontata  dalle  pronunce  della
Corte europea dei diritti dell'uomo alle quali si  sono  ispirate  le
sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione (la 43242 del 2016 e la
18620  del  2017)  nell'affermazione  del  principio  di  diritto  in
questione anche con riguardo al giudizio abbreviato. Sia la causa Dan
contro Moldova del 5 luglio 2011 che quella Hanu contro Romania del 4
giugno 2013, nelle quali e' stata censurata dalla Corte di Strasburgo
la condanna  in  appello  di  imputati  senza  assunzione  di  prove,
riguardavano processi  in  cui  i  giudici  di  primo  grado  avevano
ascoltato i testimoni.  Pertanto,  tali  pronunce  non  costituiscono
utili riferimenti giurisprudenziali in quanto estranee alla specifica
problematica. 
    L'applicazione della norma contenuta nel  comma  3-bis  dell'art.
603 c.p.p. anche al giudizio abbreviato,  nell'interpretazione  della
giurisprudenza della Cassazione, non appare, dunque,  discendere  dai
principi imposti ed affermati in ambito internazionale,  presentando,
invece, profili di possibile contrasto con principi  contenuti  nella
Costituzione. 
    In primo  luogo,  la  disposizione  codicistica,  nella  ritenuta
applicabilita'   al   rito   speciale   in   argomento   secondo   la
giurisprudenza delle Sezioni Unite,  sembra  confliggere  con  alcuni
aspetti del «giusto processo», assurto a rango costituzionale con  la
riforma dell'art. 111 della nostra legge fondamentale, sotto  plurimi
profili: 
      1) il comma 2 seconda parte del citato articolo impone  che  la
legge assicuri la «ragionevole durata» dei processi. A tale finalita'
appare improntata la previsione dei «procedimenti speciali» (Libro VI
del codice di rito), il primo dei quali e'  costituito  dal  giudizio
abbreviato.  All'epoca  della  introduzione  del  nuovo   codice   di
procedura penale si parlo' di «scommessa» della  tenuta  del  sistema
processuale, subordinata alla massiccia pratica dei riti alternativi.
La finalita' deflattiva  operata  da  questi  e'  indubitabile  e  il
Legislatore,  a  fronte  della  perdurante  eccedenza  dei   processi
rispetto  alle  capacita'  di  smaltimento  da  parte  degli   organi
giudiziari, e' intervenuto  ulteriormente  con  altre  previsioni  di
definizione accelerata. La imposizione di  un'attivita'  istruttoria,
che in alcuni casi puo' essere imponente, nel grado di appello di  un
processo definito «sulle carte» e a seguito della  sola  discussione,
appare confliggere con il principio ispiratore della previsione della
tipologia processuale, principio che, per quanto osservato, non  puo'
che essere quello della «ragionevole durata»; 
      2) inoltre, il rito abbreviato e' stato  «costituzionalizzato»:
il comma 5 dell'art. 111 prevede espressamente che «la legge regola i
casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio
per consenso dell'imputato». La rinuncia  di  quest'ultimo  non  puo'
ritenersi limitata alle prove valide in un solo  grado  di  giudizio,
attesa l'ampiezza della formulazione della previsione costituzionale.
Oltre tutto, l'imputato conserva il beneficio della riduzione  di  un
terzo della eventuale pena anche in caso  di  condanna  in  grado  di
appello,  pur  essendo  stato  prosciolto  nel  primo.   Dunque,   il
sinallagma dovrebbe essere perpetuato nel nuovo  giudizio  introdotto
con l'appello del pubblico ministero. L'eventualita' di uno  sviluppo
processuale  di  tal  genere  rientrava  o  doveva  rientrare   nelle
previsioni  dell'imputato  al  momento   della   scelta   del   rito.
L'interpretazione del comma 3-bis  dell'art.  603  c.p.p.  nel  senso
voluto dalle citate sentenze della Cassazione appaiono  emendare,  in
senso riduttivo, la generale previsione della norma costituzionale; 
      3) La prima parte del secondo comma dell'art. 111 Cost.  impone
che «ogni processo si svolge nel contraddittorio  tra  le  parti,  in
condizioni di parita'». Nella  sentenza  n.  26  del  2007  la  Corte
Costituzionale ha affermato che il principio di parita' tra accusa  e
difesa, pur non comportando  necessariamente  l'identita'  di  poteri
processuali,  attese  le  fisiologiche  differenze  dei  ruoli,  deve
comportare che le «alterazioni della simmetria dei rispettivi  poteri
e facolta'»  debbano  avere  «un'adeguata  ratio  giustificatrice»  e
debbano essere  «contenute  entro  i  limiti  della  ragionevolezza».
Fondato e' quindi il dubbio  che  la  imposta  rinnovazione  (rectius
imposizione) dell'istruzione dibattimentale nel secondo grado  di  un
giudizio abbreviato, introdotto dall'appello del pubblico  ministero,
alteri irragionevolmente la simmetria tra il diritto dell'imputato  a
beneficiare, in ogni caso, della riduzione di un terzo della pena, da
un lato, e la facolta' del rappresentante  della  pubblica  accusa  a
utilizzare  le  prove  assunte  e  «cartolarizzate»  nelle   indagini
preliminari  (con   la   gia'   acquisita   pregnanza   accusatoria),
dall'altro. 
    In secondo luogo, profilo di dubbia  legittimita'  costituzionale
della norma in questione e' ravvisabile nel contrasto tra la illogica
rinnovazione della deposizione  della  persona  offesa  nel  giudizio
abbreviato di appello (per quanto  sopra  esposto)  e  la  previsione
dell'art. 20 della Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e  del
Consiglio di data 25 ottobre 2012 (c.d. «Direttiva vittime di reato»)
recepita con il decreto legislativo  15  dicembre  2015  n.  212.  La
predetta norma comunitaria impone  che  «il  numero  delle  audizioni
della vittima sia limitato al minimo». E' pur vero che,  in  esordio,
tale disposizione fa «salvi i diritti della  difesa»  ma,  come  gia'
argomentato,  il  rito   speciale   in   questione   e'   conseguente
all'espressa rinuncia da parte dell'imputato all'esame dei testimoni,
compresa la persona offesa, per cui non e' ravvisabile la  necessita'
di  rispettare  una  prerogativa   difensiva.   L'imposizione   della
ulteriore audizione  della  vittima,  con  le  intuibili  conseguenze
negative sulla sua psiche,  che,  con  ogni  evidenza,  la  Direttiva
intende evitare, viola il divieto della  superflua  rinnovazione.  La
prospettata incostituzionalita' della norma nazionale  e'  riferibile
all'art. 117 della legge fondamentale, il quale prevede, nel comma 1,
che «la potesta'  legislativa  e'  esercitata  dallo  Stato  ...  nel
rispetto ... dei vincoli  derivanti  dall'ordinamento  comunitario  e
dagli  obblighi  internazionali».   La   Corte   costituzionale,   in
recepimento  di  un  principio  espresso  dalla  Corte  di  giustizia
dell'Unione europea, ha affermato  il  potere-dovere,  da  parte  del
giudice nazionale, «di  dare  interpretazione  conforme  delle  norme
interne alla lettera ed allo scopo» delle decisioni  quadro  e  delle
direttive e di sollevare, in caso di impossibilita'  di  applicazione
per via interpretativa, questione di legittimita' costituzionale  per
violazione dell'art. 117 primo comma Cost. da parte  del  legislatore
statale che non abbia rispettato i vincoli derivanti dall'ordinamento
comunitario. In tali sensi si e' espressa la sentenza 24 giugno  2010
n. 227 del Giudice delle leggi.  La  gia'  affermata  interpretazione
giurisprudenziale   della   regola   dell'obbligatoria   rinnovazione
dell'istruzione dibattimentale, nei termini in esame, da parte  delle
Sezioni unite della Suprema Corte lascia, quale rimedio residuale per
conformare il diritto interno a  quello  comunitario,  la  rimessione
della questione alla Corte costituzionale. 
    Evidente  la  non  manifesta  infondatezza  della  questione   di
legittimita'  costituzionale  relativa  all'art.  603,  comma  3-bis,
c.p.p. in riferimento  agli  artt.  111  e  117  della  Costituzione,
pacifica risulta anche la rilevanza della stessa  nell'attuale  grado
del processo  in  quanto  l'eventuale  affermazione  di  colpevolezza
dell'imputato da parte della Corte di appello senza  la  rinnovazione
della prova dichiarativa sarebbe, con  ogni  probabilita',  annullata
dalla Suprema Corte a seguito di  ricorso  per  cassazione  da  parte
della difesa dell' imputato.