TRIBUNALE DI PORDENONE Il Giudice dott.ssa Maria Paola Costa, nel procedimento cautelare ante causam iscritto al n. 1337/2018 di ruolo generale, promosso con ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile, depositato il 14 maggio 2018 da S. B. nata il ... a ... C.F. ... e C. D. nata il ... a ... entrambe residenti a ... in via ... rappresentate e difese, per mandati in calce al predetto ricorso, dall'avv. Maria Antonia Pili e presso il suo studio a Pordenone in viale Cassetti n. 20 elettivamente domiciliate, ricorrenti; contro l'Azienda per l'assistenza sanitaria n. 5 Friuli Occidentale, con sede a Pordenone in via della Vecchia Ceramica n. 1, C.F. e P.IVA 01772890933, in persona del direttore generale e legale rappresentante pro tempore dott. Giorgio Simon, rappresentata e difesa, per mandato in calce alla memoria difensiva e di costituzione ed in forza di decreto di incarico n. 435 del 7 giugno 2018, dall'avv. Vittorina Colo' e presso la sede dell'Azienda a Pordenone in via della Vecchia Ceramica n. 1 elettivamente domiciliata, resistente; Sentiti i procuratori delle parti; Letti gli atti ed i documenti prodotti; A scioglimento della riserva espressa all'udienza del 28 giugno 2018; ha pronunciato la seguente ordinanza: 1. L'oggetto del giudizio. 1.a Con ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile, depositato il 14 maggio 2018, le ricorrenti S. B. e C. D. hanno evocato avanti al Tribunale di Pordenone la resistente Azienda per l'assistenza sanitaria n. 5 Friuli Occidentale (nel prosieguo, per ragioni di sintesi, anche solo Azienda o resistente), riferendo: di convivere more uxorio dal 2012 in una casa di proprieta' di S. B.; di svolgere quest'ultima la professione di tecnico di radiologia presso l'Ospedale di Pordenone e C. D. la professione di dirigente medico radiologo presso lo stesso Ospedale; di aver maturato nel corso del tempo il desiderio di genitorialita', avendo all'uopo intrapreso un percorso di procreazione medicalmente assistita (d'ora innanzi anche solo PMA) in Spagna; che all'esito di tale percorso C. D. aveva dato alla luce ad Udine in data 19 settembre 2015 i due gemelli L. e B. D.; di aver contratto in data 14 maggio 2017 unione civile presso il Comune di Porcia; che anche S. B., in accordo con la compagna, intendeva realizzare il suo desiderio di maternita' sempre mediante PMA, non volendo, tuttavia, effettuare tale percorso all'estero, in quanto la legge n. 40 del 19 febbraio 2004 - come modificata dopo l'intervento della Corte costituzionale (sentenze numeri 162/2014 e 96/2015) ed alla luce di importanti arresti della Corte di cassazione (sentenze numeri 12962/2016, 19599/2016 e 14878/2017) - avrebbe agevolmente previsto siffatta possibilita' anche in Italia, una volta rimossi gli ostacoli ideologici che precludevano ingiustamente tale accesso alle coppie omosessuali; che peraltro da qualche tempo era stato istituito a Pordenone, presso l'Azienda sanitaria n. 5 Friuli Occidentale, il servizio - Struttura semplice dipartimentale di procreazione medicalmente assistita sia omologa che eterologa, da effettuarsi gratuitamente a carico del Sistema sanitario nazionale; che tale servizio costituiva per le odierne ricorrenti una garanzia sia in termini di qualita' sanitaria sia in termini economici, non costringendo la coppia a recarsi all'estero con modalita', tempi e costi piuttosto elevati, come era avvenuto all'epoca del percorso effettuato in Spagna da C. D.; che del tutto illogico appariva alle ricorrenti non potersi avvalere dell'opportunita' offerta dall'Azienda sanitaria locale e soprattutto appariva gravemente discriminatorio costringere S. B. a portare a termine il percorso di PMA all'estero per poi far comunque nascere il bambino in Italia come cittadino italiano. Il tutto sulla base del loro orientamento sessuale; che pertanto S. B., anche per ragioni di eta' ovvero ritenendo di non avere piu' molto tempo di attesa per intraprendere il percorso di PMA in base ai protocolli vigenti, aveva presentato, nel mese di marzo 2018, unitamente alla compagna C. D., la richiesta presso l'Azienda sanitaria n. 5 servizio - Struttura semplice dipartimentale fisiopatologia riproduzione umana Banca del seme e degli ovociti per accedere a tale percorso, sottoponendosi altresi' alle visite/indagini mediche ed ematologiche richieste; che tuttavia l'Azienda sanitaria n. 5, in persona del responsabile dei trattamenti di procreazione medicalmente assistita dott. F. T., aveva loro comunicato in data 3 maggio 2018 il rifiuto all'accesso alla tecnica di PMA, con la seguente motivazione: «Al termine del counseling il sottoscritto dott. F. T., medico responsabile della settore scientifico-disciplinare di procreazione medicalmente assistita, informa la coppia D. C. e B. S. che la legge n. 40/2004 all'art. 5 prevede - tra i requisiti soggettivi - l'accesso a tecniche di riproduzione assistita, solo a coppie di sesso diverso e che pertanto, pur rispettando pienamente la loro scelta di vita e la loro richiesta di accedere ad una tecnica di PMA eterologa con donazione di seme non posso consentire l'accesso a tale tecnica nel rispetto della sopra menzionata legge, presso la struttura da me diretta»; che la causa di merito sottostante il giudizio cautelare andava individuata in un procedimento ordinario ex articoli 2910 e seguenti del codice civile (art. 2931 del codice civile: obbligo di fare). Tutto cio' premesso, ritenendo sussistenti i requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora, le ricorrenti hanno chiesto al Tribunale di ordinare alla Azienda di consentire loro l'accesso alle tecniche di PMA e di sollevare, in via pregiudiziale, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5 della legge n. 40/2004, per contrasto (ove ritenuto non superabile in via interpretativa/analogica) con gli articoli 2, 3, 31, comma 2° e 32, comma 1° della Costituzione, nella parte in cui limitava tale accesso alle sole «coppie (...) di sesso diverso», inibendolo, dunque, alle coppie formate da persone dello stesso sesso, nonche' di sollevare, in via eventuale, questione di' legittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 1° della medesima legge n. 40/2004 (anche in tal caso qualora pure la questione relativa alla sterilita'/infertilita' per le coppie formate da persone dello stesso sesso non fosse ritenuta superabile in via interpretativa/analogica), per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui limitava il suddetto accesso «... ai casi di sterilita' o di infertilita'» anche per le coppie formate da persone dello stesso sesso. 1.b Si e' ritualmente costituita in giudizio l'Azienda per l'assistenza sanitaria n. 5 Friuli Occidentale, la quale ha eccepito preliminarmente l'incompetenza per materia del Giudice adito ex art. 442 del codice di procedura civile (essendo competente il Giudice del lavoro del Tribunale di Pordenone) e ha concluso nel merito per il rigetto della domanda (rilevando l'insussistenza dei requisiti di cui all'art. 700 del codice di procedura civile). 1.c All'udienza del 28 giugno 2018, essendosi le parti richiamate ai rispettivi atti difensivi ed avendo le stesse ulteriormente illustrato le reciproche deduzioni ed istanze, il Giudice ha trattenuto la causa in riserva. 1.d Un tanto esposto in fatto, va, anzitutto, affrontata, per essere disattesa, l'eccezione preliminare sollevata dalla resistente. Come si e' sopra accennato, l'Azienda eccepisce l'incompetenza per materia del Giudice adito, ritenendo che competente a decidere sulla domanda cautelare proposta dalle signore B. e D. sia il Giudice del lavoro del Tribunale di Pordenone. La medesima Azienda osserva, piu' precisamente, che, come chiarito dalla Suprema Corte (cfr. Cassazione civile, sezioni unite, 22 febbraio 2012, n. 2570 ed, ancor prima, Cassazione civile, sezioni unite, 24 aprile 2002, n. 6043), tra le controversie in materia di previdenza ed assistenza obbligatone di cui all'ari. 442 del codice di procedura civile, di competenza ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura civile del Tribunale in funzione di Giudice del lavoro, rientrano anche quelle aventi ad oggetto le prestazioni erogate nell'ambito del Servizio sanitario nazionale, di talche' essa sollecita questo Giudice a dichiarare «la propria incompetenza per materia ed a rimettere le parti dinanzi al Giudice competente che ... indica nel Giudice del lavoro presso il Tribunale di Pordenone». L'eccezione in esame in primo luogo e' argomentata in termini inesatti ed in secondo luogo appare ad ogni modo infondata. Sotto il primo profilo va, infatti, rilevato che, non tanto di incompetenza per materia puo' disquisirsi nel caso di specie, quanto - al piu' - di distribuzione degli affari civili all'interno del Tribunale di Pordenone. E', del resto, noto (cfr. Cassazione civile, sezione VI - 1, 27 ottobre 2016, n. 21774) che «La ripartizione delle funzioni tra le sezioni specializzate e le sezioni ordinarie del medesimo Tribunale non implica l'insorgenza di una questione di competenza, attenendo piuttosto alla distribuzione degli affari giurisdizionali all'interno dello stesso ufficio. Ne consegue che l'ordinanza con la quale il Giudice istruttore trasmette al Presidente del Tribunale gli atti relativi ad un causa per la sua assegnazione alla sezione specializzata dello stesso Tribunale in materia d'impresa - istituita ai sensi dell'art. 3 del decreto legislativo n. 168 del 2003, come modificato dall'art. 2 del decreto-legge n. 1 del 2012, convertito con modificazioni nella legge n. 27 del 2012 - non e' qualificabile come una vera e propria decisione sulla competenza, configurandosi piuttosto come un provvedimento a valenza meramente amministrativa, e non e', quindi, impugnabile, ai sensi dell'art. 42 del codice di procedura civile, con il regolamento di competenza». Ed, andando sullo specifico tema che ci occupa (cfr. Cassazione civile, sezione I, 19 luglio 2016, n. 14790), anche «La ripartizione delle funzioni tra la sezione lavoro e le sezioni ordinarie del medesimo Tribunale non implica l'insorgenza di una questione di competenza, attenendo piuttosto alla distribuzione degli affari giurisdizionali all'interno dello stesso ufficio». Invero, «A seguito dell'istituzione del Giudice unico di primo grado, la ripartizione delle funzioni tra le sezioni lavoro e le sezioni ordinarie del Tribunale non implica l'insorgenza di una questione di' competenza, attenendo piuttosto alla distribuzione degli affari giurisdizionali all'interno dello stesso ufficio; ne consegue che, ove il Tribunale ordinario abbia impropriamente dichiarato la propria incompetenza per essere competente il Giudice del lavoro presso lo stesso ufficio, e' inammissibile il regolamento di competenza proposto avverso l'indicata pronuncia, poiche' il Tribunale avrebbe dovuto disporre soltanto il cambiamento del rito e la conseguente rimessione al capo dell'ufficio per la relativa assegnazione al Giudice del lavoro» (cfr. Cassazione civile, sezione III, 23 settembre 2009, n. 20494). Quanto, invece, al secondo profilo (infondatezza dell'eccezione in esame), diversamente da quanto sostiene la resistente, la presente controversia non e' relativa alla «tutela del diritto del cittadino alla salute ed alle correlate prestazioni assistenziali e previdenziali nei confronti della pubblica amministrazione». La lettura del ricorso rende, difatti, di tutta evidenza che la questione sottoposta all'attenzione di questo Tribunale non e' l'erogazione di' una prestazione sanitaria a tutela di un diritto (in se' incontestato) ad una specifica cura, quanto l'esatta individuazione dei limiti e delle facolta' connessi al diritto alla genitorialita', diritto che, solo incidentalmente, verrebbe veicolato attraverso il ricorso ad un determinato percorso terapeutico. Per le ragioni che precedono, l'eccezione va, dunque, disattesa. 1.e Venendo, ora, al merito della domanda cautelare, S. B., dopo aver contratto il 14 maggio 2017 unione civile presso il Comune di Porcia con C. D. (cfr. documento 2 del fascicolo di parte delle ricorrenti), si e' rivolta nei marzo 2018, unitamente alla compagna, all'Azienda per l'assistenza sanitaria n. 5 Friuli Occidentale per accedere al percorso di PMA (ibidem documento 3), sottoponendosi alle visite/indagini mediche ed ematologiche richieste (ib. documento 4). L'Azienda, con comunicazioni del 2 e del 3 maggio 2018, ha, tuttavia, informato le ricorrenti di non poter consentire l'accesso alla tecnica sopra indicata, in quanto «la legge 4012004 all'art. 5 prevede - tra i requisiti soggettivi - l'accesso a tecniche di riproduzione assistita, solo a coppie di sesso diverso» (ib. documento 5). Con il ricorso introduttivo del presente giudizio le signore B. e D. chiedono, pertanto, al Tribunale di ordinare in via d'urgenza alla locale Azienda sanitaria di consentire loro l'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, alle quali dovrebbe sottoporsi la B. Le ricorrenti, con specifico riguardo al requisito del fumus boni iuris, lamentano che l'unica ragione per cui la resistente ha rigettato la loro istanza e' rappresentata dall'art. 5 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui detta norma prescrive che i richiedenti l'accesso alla PMA debbano essere «di sesso diverso», posto che tutti gli altri requisiti soggettivi previsti da tale disposizione risultano rispettati. Il citato art. 5 (rubricato, appunto, «Requisiti soggettivi») dispone, piu' nel dettaglio, che «Fermo restando quanto stabilito dall'art. 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in eta' potenzialmente fertile, entrambi viventi». Ed, in effetti, le ricorrenti sono «maggiorenni», «coniugate o conviventi» (avendo costituito un'unione civile), «in eta' potenzialmente fertile» (essendo nate la B. nel 1982 e la D. nel 1979), «entrambe viventi». Esse, pertanto, denunciano anzitutto che la restrizione prevista dal predetto art. 5, ove non sia in principalita' ritenuta superata in forza del piu' recente intervento giurisprudenziale e legislativo pronunciatosi nella materia de qua, e' illegittima ed in evidente contrasto con quanto previsto dagli articoli 2, 3, 31 comma 2° e 32 comma 1° della Costituzione, nonche' con le previsioni degli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti umani. Osservano, in subordine, le ricorrenti che potrebbe porsi in contrasto con l'art. 3 della Costituzione anche l'art. 4, comma 1° della legge n. 40/2004, nella parte in cui limita l'accesso alle tecniche di PMA «ai casi di sterilita' o infertilita'» anche per le coppie formate da persone dello stesso sesso, laddove in principalita' non si ritenga sostanzialmente soddisfatto tale requisito gia' in ragione della loro omosessualita'. Quanto, invece, al requisito del periculum in mora, le ricorrenti chiariscono che, avendo la B. compiuto 36 anni a gennaio 2018, vi e' oggettivo interesse della coppia ad accedere prima possibile alle tecniche de quibus, essendo la possibilita' di utilizzare con successo la fecondazione non illimitata nel tempo ed aumentando anche i rischi di insorgenze disfunzionali per il concepito con l'avanzare dell'eta' della madre. L'Azienda reputa, invece, che non ricorrano i presupposti previsti dall'art. 700 del codice di procedura civile, sotto il versante del fumus per la chiara lettera del piu' volte citato art. 5 della legge n. 40/2004, la cui violazione risulta, oltretutto, sanzionata dal successivo art. 12 commi 2°, 9° e 10° della medesima legge, e con riguardo al periculum potendo la fecondazione assistita a carico del Servizio sanitario nazionale essere effettuata sino ai 43 anni della donna. La stessa Azienda dichiara, infine, di non comprendere come le ricorrenti abbiano scelto lo strumento del ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile, che prevede l'emanazione di un provvedimento d'urgenza, nel momento in cui chiedono anche al Tribunale di sollevare questione di legittimita' costituzionale degli articoli 4 e 5 della legge n. 40/2004. 1.f Partendo, per comodita' espositiva, dalla questione da ultimo riportata, non puo' disconoscersi il diritto delle ricorrenti di avvalersi del procedimento cautelare innominato, sol perche' le stesse hanno chiesto al Tribunale di sollevare eventualmente una questione di legittimita' costituzionale, laddove tale questione non fosse in principalita' superabile gia' in via interpretativo/analogica. Come ha correttamente ricordato la difesa delle signore B. e D., la miglior smentita e' fornita dalla vicenda processuale (per certi tratti, analoga) affrontata dal Tribunale di Roma con le ordinanze del 15 gennaio e del 28 febbraio 2014, con cui, proprio nell'ambito di un procedimento promosso ai sensi dell'art. 700 del codice di procedura civile, e' stata sollevata la questione di incostituzionalita' dell'art. 4 della legge n. 40/2004, poi decisa dalla Consulta con la sentenza n. 96/2015 che tale norma ha dichiarato, appunto, incostituzionale. Per quanto si chiarira' infra, la questione di incostituzionalita' e' ammissibile, ancorche' sollevata nel contesto del presente procedimento d'urgenza ante causam, poiche', non potendo questo Giudice provvedere in via definitiva sull'istanza cautelare delle ricorrenti, non puo', dunque, ritenersi consumata la sua potestas iudicandi (cfr., per tutte, sullo specifico tema, la sentenza della Corte costituzionale n. 200/2014). 1.g Passando ora alla disamina degli specifici presupposti di cui allo strumento cautelare innominato, e' risaputo che l'accoglimento del ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile richiede la contemporanea sussistenza del periculum in mora e del fumus boni iuris, di talche' la constatata assenza di uno dei due requisiti indefettibili giustifica gia' di per se' il rigetto della domanda, rendendo di fatto superflua ogni considerazione sull'altro elemento fondante la pretesa. Per quanto concerne, quindi, il periculum in mora, l'art. 700 del codice di procedura civile richiede, a tale riguardo, la ricorrenza di un pregiudizio imminente ed irreparabile, tale dovendo essere qualificato quel pregiudizio che, non essendo adeguatamente ristorabile per equivalente, cioe' mediante assegnazione di una somma di danaro a titolo risarcitorio, in caso di mancata adozione della cautela innominata determinerebbe la irreversibile lesione del diritto fatto valere nel processo. E tali caratteristiche sussistono indubbiamente nel caso di specie, costituendo fatto notorio, ricavabile dagli studi scientifici intervenuti sulla materia de qua e non a caso recepiti anche dal nostro Istituto superiore della sanita', che la possibilita' di sottoporsi con successo a tecniche di fecondazione e' strettamente legata all'eta' della donna ed e' destinata a diminuire sensibilmente perlomeno dopo i 35 anni della stessa, come pure che i rischi per la salute della madre e del nascituro aumentano esponenzialmente col passare del tempo. Si deve, percio', concludere che per una donna di 36 anni compiuti (qual e' S. B.) l'attesa dei tempi di un ordinario giudizio di cognizione potrebbe di fatto pregiudicare definitamente l'accoglimento della domanda qui azionata dalle ricorrenti. 1.h Quanto sopra consente, percio', di concentrarsi sull'esistenza dell'ulteriore (e, come detto, indefettibile) presupposto, ossia sul requisito del fumus boni iuris, che, notoriamente, viene inteso come la presenza di elementi che, a livello di cognizione sia pure sommaria (come impone il rito), fondino l'opinione positiva in ordine all'esistenza ed alla tutelabilita' del diritto azionato (c.d. verosimiglianza). Ed, in ordine a tale specifico presupposto, la lettura degli scritti difensivi lascia chiaramente comprendere come l'accertamento in concreto della sua sussistenza discenda necessariamente dalla disamina delle previsioni contenute nella legge n. 40/2004 ed, in particolare, nei suoi articoli 5 e 12. Da un lato, infatti, sono le ricorrenti a specificare che tale legge, dopo le modifiche conseguenti alle pronunce della Corte costituzionale (sentenze numeri 162/2014 e 96/2015) e della Corte di cassazione (sentenze numeri 14878/2017, 19599/2016 e 12962/2016), deve essere interpretata nel senso di consentire anche in Italia l'accesso alle tecniche di PMA alle coppie formate da persone dello stesso sesso. Di contro, l'Azienda assume che siffatto accesso e' espressamente vietato dalla legge in commento. Se ne ha che, prima di poter essere concretamente affrontata, nel caso sottoposto all'attenzione del Tribunale di Pordenone, la verifica della sussistenza del fumus boni iuris e, quindi, affinche' il presente giudizio possa essere deciso, deve essere pregiudizialmente superato il sospetto di incostituzionalita' degli articoli 5 e 12, che verra' trattato nei successivi paragrafi. 2. Il sospetto di incostituzionalita' (ossia le disposizioni di legge di cui si denuncia la incostituzionalita'). Un tanto chiarito, questo Giudice ritiene che non si possa dubitare, per quanto piu' sopra esposto e per quanto si dira' infra, della rilevanza della questione di costituzionalita' dell'art. 5 della legge n. 40/2004 e, di riflesso, dell'art. 12, commi 2°, 9° e 10° della medesima legge n. 40/2004 (norma quest'ultima che, per ragioni di maggior sinteticita', in seguito verra' anche indicata solo con il richiamo all'art. 12, da intendersi, pero', sempre riferito espressamente ai suoi soli commi 2°, 9° e 10°, qui di rilievo). La prima disposizione, poiche' stabilisce che «possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in eta' potenzialmente fertile, entrambi viventi», esclude, infatti, da tale accesso le signore B. e D., in quanto coppia composta da persone dello stesso sesso, seppur biologicamente compatibili con la pratica della PMA. La seconda disposizione, invece, dispone (al suo comma 2° e per quanto qui di rilievo) che «Chiunque a qualsiasi titolo, in violazione dell'art. 5, applica tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie ... che siano composte da soggetti dello stesso sesso ... e' punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro», prevedendo (al suo comma 9°) «la sospensione da uno a tre anni dall'esercizio della professione nei confronti dell'esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti di' cui al presente articolo» e (al suo comma 10°) la sospensione «per un anno» della «autorizzazione concessa ... alla struttura al cui interno e'» stata «eseguita una delle pratiche vietate ai sensi del presente articolo» e la revoca di detta autorizzazione in caso di «piu' violazioni dei divieti o di recidiva». Essa, dunque, rafforza il divieto di accesso alle tecniche di PMA da parte delle ricorrenti, poiche' sanziona (in termini, peraltro, particolarmente incisivi) i sanitari o la struttura che tale accesso volessero, al contrario, consentire. La non manifesta infondatezza della questione emerge, poi, de plano dalle considerazioni che seguiranno, incentrate sul ritenuto contrasto delle due norme sopra indicate con le disposizioni costituzionali di seguito specificate. 3. I parametri del giudizio (ovvero le disposizioni costituzionali che si asseriscono violate). 3.A. Contrasto con l'art. 2 della Costituzione. L'esclusione dall'accesso alle tecniche di PMA delle coppie composte da soggetti dello stesso sesso, nonche' la correlata applicazione di sanzioni a chi (struttura sanitaria o esercente la professione sanitaria) tale esclusione non rispetti, contrastano, in primo luogo, con l'art. 2 della Costituzione, in quanto non garantiscono il diritto fondamentale alla genitorialita' dell'individuo, sia come soggetto singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalita'. Diritto alla genitorialita' consistente nella aspirazione ad avere un figlio, che legittimamente nutre ogni soggetto, specie allorche' ha costituito un legame di coppia stabile (nel caso in esame, risalente a 6 anni fa) e pubblico (avendo, nella specie, le ricorrenti contratto unione civile il 14 maggio 2017, come risulta dai registri dello stato civile del Comune di Porcia). La nozione di formazione sociale (di cui al citato art. 2 della Costituzione) viene, infatti, intesa come «ogni forma di comunita', semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico» (cfr. la sentenza della Corte costituzionale n. 138/2010). Ed in tale nozione va oggi annoverata anche l'unione tra le signore B. e D. avendo la legge 20 maggio 2016, n. 76, al suo art. 1, espressamente istituito «l'unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione». Con siffatta previsione normativa, pertanto, il legislatore italiano ha superato la impostazione tradizionale, che individuava la coppia (fondata su matrimonio o su convivenza di fatto) come formata da soli soggetti di sesso diverso, dunque da un uomo e da una donna, e ha di conseguenza reso omogenee le famiglie sia omosessuali che eterosessuali. 3.B. Contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Il negare l'accesso alle tecniche di PMA alle coppie composte da soggetti dello stesso sesso, biologicamente compatibili con la pratica in oggetto, e, nel contempo, il sanzionare la struttura ed il sanitario che non adottino tale diniego contrastano, in secondo luogo, con l'art. 3 della Costituzione, in quanto comportano una disparita' di trattamento basata sull'orientamento sessuale e sulle condizioni economiche dei cittadini. Risulta, difatti, irragionevole e logicamente contraddittoria la mancata inclusione delle coppie formate da persone dello stesso sesso nell'elenco dei soggetti legittimati ad accedere alle tecniche di PMA, contenuta in una legge che, fra le sue finalita', si pone l'obiettivo di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilita' o dalla infertilita' umana (requisiti questi ultimi che la Suprema Corte, con la sentenza n. 19599/2016, ha ritenuto indiscutibili ed intuitivi in una coppia omosessuale, avendo chiarito come «una coppia ... dello stesso sesso si trovi in una situazione assimilabile a quella di' una coppia di persone di sesso diverso cui sia diagnosticata una sterilita' o infertilita' assoluta e irreversibile»; circostanza questa che rende manifestamente infondata la sollecitata questione di incostituzionalita' anche dell'art. 4, comma 1° della legge n. 4012004, del resto prospettata dalle ricorrenti solo in via di stretto subordine), dovendosi avere, allo scopo, particolare riguardo ai casi in cui la coppia abbia dato vita ad una relazione affettiva tipica del rapporto familiare, come oggi riconosciuto dall'ordinamento. Come pure discriminatoria e' la previsione normativa di cui al combinato disposto degli articoli 5 e 12 della legge n. 40/2004, laddove, vietando in Italia, finanche sanzionandolo, il percorso di PMA alle coppie di cittadini dello stesso sesso, riconosce di fatto il diritto alla filiazione alle sole coppie same sex capaci di sostenere i costi per sottoporsi ad un analogo percorso presso uno dei Paesi esteri (anche all'interno dell'Unione europea) che, viceversa, tale ricorso ammettono. E' chiaro, invero, che, cosi' facendo, viene a realizzarsi «un ingiustificato, diverso trattamento delle coppie ..., in base alla disponibilita' economica delle stesse, che assurge intollerabilmente a requisito dell'esercizio di un diritto fondamentale, negato solo a quelle prive delle risorse finanziarie necessarie per potere fare ricorso a tale tecnica recandosi in altri Paesi. Ed e' questo non un mero inconveniente di fatto, bensi' il diretto effetto delle disposizioni in esame, conseguente ad un bilanciamento degli interessi manifestamente irragionevole» (cfr. la sentenza della Corte costituzionale n. 162/2014, sia pure intervenuta in relazione al ricorso a PMA di tipo eterologo da parte di coppia di cittadini italiani eterosessuali). 3.C. Contrasto con l'art. 31, comma 2° della Costituzione. Impedire, come fa l'art. 5 della legge n. 40/2004, alle coppie composte da persone dello stesso sesso l'accesso alle tecniche di PMA e sanzionare, come fa l'art. 12 della medesima legge, la struttura ed il sanitario che tale accesso, al contrario, consentano sono previsioni che contrastano, in terzo luogo, con l'art. 31, comma 2° della Costituzione. Dal momento che la Repubblica protegge la maternita', favorendo gli istituti necessari a tale scopo, e' del tutto evidente che le norme sopra indicate si pongono in stridente contrasto con la suddetta disposizione di rango costituzionale. 3.D. Contrasto con l'art. 32, comma 1° della Costituzione. Le norme oggetto della odierna censura confliggono, inoltre, con l'art. 32, comma 1° della Costituzione, in quanto il diritto tutelato da tale ultima disposizione e' «comprensivo anche della salute psichica ... la cui tutela deve essere di grado pari a quello della salute fisica ... In relazione a questo profilo ... e', infatti, certo che l'impossibilita' di formare una famiglia con figli assieme al proprio partner, mediante il ricorso alla PMA di tipo eterologo, possa incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia» (cfr. la gia' citata sentenza n. 162/2014 della Corte costituzionale). 3.E. contrasto con l'art. 117, comma 1° della Costituzione in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (c.d. CEDU). I piu' volte richiamati articoli 5 e 12 della legge n. 40/2004 confliggono, infine, con l'art. 117, comma 1° della Costituzione, in relazione alle norme interposte di cui agli articoli 8 (sul diritto al rispetto della vita familiare) e 14 (sul divieto di discriminazione) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, per l'irragionevolezza del divieto di accesso alla PMA delle coppie same sex in ragione della discriminazione gia' evidenziata per il profilo di violazione dell'art. 3 della Costituzione. Invero, le restrizioni della legge italiana sulle tecniche di PMA, non consentite alle coppie formate da persone dello stesso sesso, configura una inammissibile interferenza (dettata da sole distinzioni fondate sul sesso) in una scelta personalissima di vita che compete alla coppia familiare. 4. In conclusione quanto alla rilevanza della questione, alla non manifesta infondatezza della domanda alla Corte costituzionale, alla impraticabilita' dell'interpretazione conforme ed alla impossibilita' di una diretta disapplicazione delle norme censurate. In conclusione di quanto sopra illustrato, la questione di legittimita' appare rilevante nel caso di specie, ponendosi in rapporto di strumentalita' rispetto alla concreta definizione della presente controversia, oltre che non manifestamente infondata. 4.A. La rilevanza della questione. Invero, la richiesta delle ricorrenti, idonee biologicamente ad accedere alla PMA, trova insuperabile ostacolo nel disposto dell'art. 5 della legge n. 40/2004, che consente alle sole coppie formate da persone di sesso diverso l'accesso alle tecniche di PMA, nonche' nelle conseguenti sanzioni che l'art. 12, commi 2°, 9° e 10° della stessa legge commina alle strutture ed ai sanitari che, viceversa, quell'accesso consentano. Per poter decidere, infatti, sulla richiesta delle ricorrenti di ordinare in via d'urgenza, attesa l'eta' di S. B. alla locale Azienda di consentire loro l'accesso alle tecniche in esame, occorre applicare la legge 19 febbraio 2004, n. 40. 4.B. La non manifesta infondatezza della domanda alla Corte costituzionale. Il ricorso alla PMA espressamente vietato dalle citate due norme di tale legge anche alle coppie same sex biologicamente compatibili con tale pratica appare in contrasto con gli articoli 2, 3, 31, comma 2° e 32, comma 1° della Costituzione, nonche' con l'art. 117, comma 1° della Costituzione, in relazione agli articoli 8 e 14 della CEDU, in quanto esso, in estrema sintesi: reca un vulnus ai diritti inviolabili della persona, quali sono il diritto alla genitorialita' ed il diritto alla procreazione, nell'ambito di una unione civile legalmente riconosciuta dallo Stato italiano; discrimina i cittadini per il loro orientamento sessuale ed in considerazione delle condizioni patrimoniali delle coppie; non si cura di favorire gli istituti necessari destinati allo scopo di proteggere la maternita'; incide sulla salute psicofisica del genitore; introduce, anche avuto riguardo al panorama della legislazione europea, un irragionevole divieto basato su discriminazioni per mere ragioni legate all'orientamento sessuale dei componenti la coppia. 4.C. La impraticabilita' dell'interpretazione conforme. Ne' appare, d'altro canto, possibile conferire alle norme sopra riportate un significato assoggettabile ad una interpretazione costituzionalmente orientata (o «adeguatrice», che dir si voglia), nel senso auspicato dalle ricorrenti, come le stesse propongono in principalita' allorche' assumono che la legge n. 40/2004 «prevedrebbe agevolmente tale possibilita' anche in Italia». Nonostante, infatti, la «apertura» verso le coppie formate da persone dello stesso sesso dimostrata negli ultimi tempi dal legislatore e dalla giurisprudenza (di merito e di legittimita'), l'univoco tenore lessicale delle specifiche norme qui in questione segna il confine in presenza del quale il tentativo di interpretazione esperito dal Giudice deve cedere il passo al sindacato di legittimita' costituzionale (cfr., in tal senso, le sentenze numero 270 e 315 del 2010 della Corte costituzionale). Detto altrimenti, le disposizioni in commento escludono espressamente che le coppie same sex possano accedere in Italia alle tecniche di PMA, sanzionando finanche la struttura ed i sanitari che a tali coppie applichino le suddette tecniche, e non v'e' modo alcuno per dare una diversa interpretazione estensiva, giustappunto costituzionalmente orientata, ad un dato letterale cosi' chiaro e cristallino, interpretazione estensiva diretta insomma a consentire anche a quelle coppie escluse dalla legge il ricorso alle tecniche in esame. 4.D. La impossibilita' di una diretta disapplicazione delle norme censurate. Va, altresi', escluso che le norme oggetto di censura possano essere direttamente non applicate da questo Giudice, per contrasto con gli articoli 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (c.d. CEDU). Il Giudice, infatti, non puo' disapplicare la norma di diritto nazionale che si ponga in conflitto con le previsioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ma deve, invece, previamente sollevare questione di costituzionalita' dinanzi alla Corte costituzionale. Invero, a questo Giudice, in ragione del sospettato contrasto dei sopra citati articoli 5 e 12 della legge n. 40/2004 con gli articoli 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, non e' consentita una applicazione «in via diretta delle norme convenzionali in luogo di quelle nazionali, in tesi con esse non compatibili, atteso che, diversamente dal diritto comunitario, la Convenzione europea dei diritti dell'uomo non crea un ordinamento giuridico sovranazionale ma costituisce un modello di diritto internazionale pattizio, idoneo a vincolare lo Stato, ma improduttivo di effetti diretti nell'ordinamento interno (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007, e successive conformi). Collocazione, questa, delle disposizioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali che, nel sistema delle fonti, resta immutata anche dopo il richiamo operatone dall'art. 6, paragrafo 3, del Trattato sull'Unione europea (TUE), come modificato dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009» (cfr., per tutte, la sentenza della Corte costituzione n. 96/2015). I Giudici della Consulta hanno «gia' avuto, infatti, occasione di chiarire che "dalla qualificazione dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali come principi generali del diritto comunitario non puo' farsi discendere la riferibilita' alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali del parametro di cui all'art. 11 Cost., ne', correlativamente, la spettanza al Giudice comune del potere-dovere di non applicare le norme interne contrastanti con la predetta Convenzione" (sentenze n. 303 del 2011 e n. 349 del 2007). Ragione per cui "i principi in questione rilevano unicamente in rapporto alle fattispecie cui il diritto comunitario (oggi, il diritto dell'Unione) e' applicabile" (sentenze n. 210 del 2013, n. 303 e n. 80 del 2011) e, poiche' le fattispecie, oggetto dei giudizi a quibus, non sono riconducibili al diritto comunitario, non vi era, dunque, effettivamente, spazio per un'eventuale disapplicazione della normativa nazionale da parte del Tribunale rimettente, da ritenersi oltretutto limitata ai casi in cui il diritto comunitario rilevante sia dotato di effetti diretti" (cfr. sempre la citata sentenza n. 96/2015 della Corte costituzionale). Ed ancor piu' recentemente la Corte costituzionale (cfr. la sentenza n. 269/2017) ha ribadito che, anche dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, «quando una disposizione di diritto interno diverge da norme dell'Unione europea prive di effetti diretti, occorre sollevare una questione di legittimita' costituzionale, riservata alla esclusiva competenza di questa Corte, senza delibare preventivamente i profili di incompatibilita' con il diritto europeo. In tali ipotesi spetta a questa Corte giudicare la legge, sia in riferimento ai parametri europei (con riguardo alle priorita', nei giudizi in via di azione, si veda ad esempio la sentenza n. 197 del 2014, ove si afferma che «la verifica della conformita' della norma impugnata alle regole di competenza interna e' preliminare al controllo del rispetto dei principi comunitari (sentenze n. 245 del 2013, n. 127 e n. 120 del 2010)"». Di fronte, dunque, a casi di c.d. doppia pregiudizialita', la Corte costituzionale ha ritenuto che, «laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimita' tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimita' costituzionale, fatto salvo il ricorso, al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidita' del diritto dell'Unione, ai sensi dell'art. 267 del TFUE» (cfr. la sopra citata sentenza n. 269/2017 della Corte costituzionale). Da ultimo, la possibilita' di sollevare questioni di legittimita' costituzionale in sede cautelare e' stata riconosciuta in piu' occasioni dai Giudici della Consulta (cfr., fra le altre, le sentenze della Corte costituzionale numeri 151/2009 e 96/2015). Non potendo, per tutte le ragioni sopra illustrate, essere definito indipendentemente dalla risoluzione della superiore questione di costituzionalita', il presente giudizio cautelare va, quindi, sospeso, con rimessione degli atti alla Corte costituzionale.