ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di  legittimita'  costituzionale  dell'articolo  275,
comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2,
comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in
materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza  sessuale,
nonche' in tema di atti persecutori), convertito, con  modificazioni,
dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, promossi dal  Tribunale  di  Lecce
con ordinanze del 16 maggio e del 7 giugno  2012  e  dalla  Corte  di
cassazione con due ordinanze del 10 settembre  2012,  rispettivamente
iscritte ai nn. 131, 175, 269 e 270 del  registro  ordinanze  2012  e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 27, 36 e 48,
prima serie speciale, dell'anno 2012. 
    Visti gli atti di costituzione di P.A.C., di  L.M.,  nonche'  gli
atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica  del  12  febbraio  2013  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi; 
    uditi gli avvocati Ladislao Massari per P.A.C., Giuliano Dominici
e Fabio Calderone per L.M. e l'avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi
per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza depositata il 16 maggio 2012 (r.o. n.  131  del
2012), il Tribunale di  Lecce,  sezione  riesame,  ha  sollevato,  in
riferimento  agli  articoli  3,  13  e  27,  secondo   comma,   della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale  dell'articolo
275, comma 3, del codice di procedura  penale  nella  parte  in  cui,
prescrivendo che «quando sussistono gravi indizi di  colpevolezza  in
ordine ai  delitti  commessi  avvalendosi  delle  condizioni  di  cui
all'art. 416 bis c.p. e' applicata la misura cautelare della custodia
in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti  che
non sussistono esigenze cautelari, non  fa  salva  l'ipotesi  in  cui
siano acquisiti elementi specifici, in relazione  al  caso  concreto,
dai  quali  risulti  che  le  esigenze   cautelari   possono   essere
soddisfatte con altre misure». 
    Il  rimettente  riferisce  di  essere  investito  degli   appelli
presentati dal pubblico ministero e dalla difesa avverso  l'ordinanza
del 6 dicembre 2012 con la quale il Giudice dell'udienza  preliminare
del Tribunale di Lecce aveva disposto la sostituzione con gli arresti
domiciliari   della   custodia   cautelare   in   carcere   applicata
all'imputato, gia' condannato con rito abbreviato per un episodio  di
estorsione con l'aggravante dell'art. 7 del decreto-legge  13  maggio
1991,  n.  152  (Provvedimenti  urgenti  in  tema   di   lotta   alla
criminalita'  organizzata  e  di   trasparenza   e   buon   andamento
dell'attivita' amministrativa), convertito, con modificazioni,  dalla
legge 12 luglio 1991, n. 203. 
    Il pubblico ministero  ha  impugnato  l'ordinanza  lamentando  la
violazione del comma 3 dell'art. 275 cod. proc. pen.,  in  forza  del
quale, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza  in  ordine  ai
delitti di cui all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc.  pen.,
e' applicata la  custodia  cautelare  in  carcere,  salvo  che  siano
acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono  esigenze
cautelari. 
    Anche la difesa  ha  impugnato  l'ordinanza  deducendo  il  ruolo
marginale rivestito dall'imputato in un unico episodio di  estorsione
risalente nel tempo  e  l'ingiustificata  sperequazione  rispetto  al
trattamento  riservato   ad   altri   coimputati.   Nell'ipotesi   di
accoglimento dell'appello del  pubblico  ministero,  la  difesa,  con
un'articolata serie di considerazioni, ha  eccepito  l'illegittimita'
costituzionale della presunzione di adeguatezza posta dall'art.  275,
comma  3,  cod.  proc.  pen.   La   norma   censurata   costituirebbe
irragionevole  esercizio  della  discrezionalita'  del   legislatore,
violando gli artt. 3, 13, primo comma, e 27,  secondo  comma,  Cost.:
verrebbe, infatti, sottratto al giudice  il  potere  di  adeguare  la
misura al caso concreto, sicche',  in  violazione  del  principio  di
uguaglianza, la norma si  risolverebbe  nell'«appiattire»  situazioni
oggettivamente e soggettivamente diverse,  con  una  uguale  risposta
cautelare. Inoltre, dalla lettura combinata degli artt. 13 e 27 Cost.
emergerebbe l'esigenza di circoscrivere allo strettamente  necessario
le misure  limitative  della  liberta'  personale,  attribuendo  alla
custodia in carcere il connotato  del  rimedio  estremo,  laddove  la
norma censurata  stabilirebbe  un  automatismo  applicativo  tale  da
rendere inoperanti i criteri di proporzionalita' e di adeguatezza. 
    Posto che l'art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 prevede  due
articolazioni  della  circostanza  aggravante,  quella  del   "metodo
mafioso" e quella dell'"agevolazione mafiosa", per la prima  verrebbe
in evidenza il carattere di preponderante autonomia rispetto al reato
associativo mafioso: il ricorso al  metodo  mafioso  potrebbe  essere
addebitato tanto come  generale  connotato  di  struttura  del  reato
associativo  e/o  dei  suoi  delitti-scopo,  quanto   come   concreta
modalita' di esecuzione di taluno dei delitti  previsti  dalla  legge
penale che nulla condividono con  il  fenomeno  associativo  mafioso;
soggetti attivi dei delitti aggravati dal metodo  mafioso  potrebbero
essere tanto gli intranei, quanto gli estranei al sodalizio mafioso. 
    Richiamati alcuni orientamenti  dottrinali  e  l'indirizzo  della
giurisprudenza di legittimita'  secondo  cui  l'aggravante  in  esame
prescinde di per se' dall'appartenenza all'associazione criminale, la
cui compresenza resta comunque con essa  compatibile,  la  difesa  ha
osservato  ancora  che,  al  di  la'  della  coincidenza   letterale,
l'elemento costitutivo previsto dall'art.  416-bis  cod.  pen.  e  la
circostanza aggravante ex art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 si
collocherebbero in ordini  di  grandezza  incommensurabili,  tali  da
imporne una ricostruzione in termini di reciproca  autonomia.  Mentre
la  previsione  legale  di  una  presunzione  iuris  et  de  iure  di
adeguatezza della custodia carceraria per i delitti  aggravati  dalla
finalita' di agevolare l'associazione mafiosa e per quelli  aggravati
dal metodo mafioso commessi  dagli  intranei  al  sodalizio  potrebbe
apparire ragionevole, in quanto giustificata dalla effettiva esigenza
di   stroncare   il   vincolo   particolarmente    qualificato    tra
l'associazione mafiosa radicata in un certo ambito territoriale e  il
proprio affiliato, altrettanto non potrebbe dirsi nel caso dei  reati
commessi con il metodo mafioso da persone prive di  qualsiasi  legame
con un sodalizio mafioso, come nel caso  dell'imputato  nel  giudizio
principale. 
    Richiamata la piu' recente  giurisprudenza  costituzionale  sulla
norma censurata, la difesa ha osservato che l'aggravante  del  metodo
mafioso  potrebbe  ricomprendere  fattispecie  concrete  marcatamente
differenziate  tra  loro  per  quanto  concerne  il  coefficiente  di
pericolosita'   e,   pertanto,   sarebbe   indubbio   il    carattere
accentuatamente  discriminatorio  della  presunzione  in  materia  di
misure  cautelari:  il  carattere  assoluto   di   tale   presunzione
negherebbe rilevanza al principio del "minor sacrificio  necessario",
laddove  la  previsione  di  una  presunzione   solo   relativa   non
eccederebbe i limiti di compatibilita' costituzionale. 
    L'ordinanza  n.  450  del  1995  della  Corte  costituzionale  ha
ritenuto  manifestamente  infondata  la  questione  di   legittimita'
costituzionale dell'art. 275, comma 3, cod.  proc.  pen.  proprio  in
relazione al reato aggravato ex art. 7 del decreto-legge n.  152  del
1991 nella differente forma dell'agevolazione  mafiosa,  ma  la  piu'
recente evoluzione della giurisprudenza costituzionale porrebbe nuovi
problemi di interpretazione della norma in questione, soprattutto nel
peculiare caso  del  reato  aggravato  dal  metodo  mafioso;  nemmeno
dirimente, al riguardo, sarebbe la pronuncia della Corte europea  dei
diritti dell'uomo (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro  Italia),
relativa al solo reato di associazione di tipo mafioso. 
    Ripercorse le argomentazioni difensive, l'ordinanza di rimessione
mette in luce la  potenziale  fondatezza  dell'appello  del  pubblico
ministero, perche' l'imputato  e'  stato  condannato  per  estorsione
aggravata dal metodo mafioso e, in applicazione della presunzione  di
adeguatezza posta dalla norma censurata, si dovrebbe ripristinare  la
misura della custodia in carcere, data l'impossibilita' di  pervenire
a un giudizio di assenza del pericolo di reiterazione di reati  della
stessa specie di quelli per i quali si procede. 
    La  questione  di  legittimita'   costituzionale   proposta   dal
difensore  percio'  sarebbe  rilevante  e  anche  non  manifestamente
infondata. 
    L'orientamento espresso dalla giurisprudenza costituzionale sulla
non riconducibilita' dei delitti contro  la  liberta'  sessuale,  del
reato dell'art. 74 del decreto  del  Presidente  della  Repubblica  9
ottobre  1990,  n.  309  (Testo  unico  delle  leggi  in  materia  di
disciplina degli stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) e  del
reato   dell'art.   575   cod.   pen.   tra    quelli    «espressione
dell'appartenenza  ad  associazioni  di   tipo   mafioso,   o   della
condivisione dei disvalori da queste fatti  propri»  potrebbe  essere
agevolmente ribadito anche  per  «quella  particolare  manifestazione
della condotta criminosa consistente nell'avvalersi delle  condizioni
di assoggettamento indicate dall'art. 416  bis  c.p.».  Anche  questi
delitti avrebbero o potrebbero avere una struttura individuale e, per
le loro connotazioni, sarebbero tali da non postulare necessariamente
esigenze cautelari affrontabili esclusivamente  con  la  custodia  in
carcere. 
    Consistendo   in   una   peculiare   manifestazione   dell'azione
antigiuridica,  l'aggravante  in   questione,   osserva   ancora   il
rimettente, puo' accompagnare la commissione di qualsiasi fattispecie
delittuosa.  La  locuzione  "delitti  di  mafia"   richiamata   dalla
giurisprudenza costituzionale finirebbe con «il parificare nella  sua
genericita', sotto il profilo  del  disvalore  sociale  e  giuridico,
manifestazioni delittuose del  tutto  differenti  tra  loro  sia  con
riferimento alla loro portata  criminale  che  con  riferimento  alla
pericolosita'  dell'agente».  Per  integrare   l'aggravante   sarebbe
sufficiente «la mera evocazione, al fine  di  accrescere  la  portata
intimidatoria della condotta posta in  essere,  di  un'organizzazione
criminale reale o supposta ma con la quale in  realta'  l'agente  non
abbia alcun collegamento». 
    La giurisprudenza di legittimita' sarebbe costante  nel  ritenere
che la circostanza aggravante in esame  qualifica  l'uso  del  metodo
mafioso, fondato sull'esistenza in  una  data  zona  di  associazioni
mafiose, anche riguardo alla condotta di un soggetto non appartenente
a tali associazioni e la fattispecie oggetto del giudizio  principale
sarebbe esemplificativa di tale orientamento, posto che  all'imputato
e' contestato di avere prospettato alla vittima, in caso  di  mancato
pagamento dei debiti, gravi ritorsioni con  l'intervento  di  "amici"
appartenenti alla criminalita' organizzata. 
    Alla posizione dell'imputato, al quale  in  nessun  modo  sarebbe
attribuita l'appartenenza o la contiguita' a  un  sodalizio  mafioso,
non  si  attaglierebbero  le  considerazioni   svolte   dalla   Corte
costituzionale e  dalla  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  per
giustificare  la  presunzione  assoluta  di  adeguatezza  della  sola
custodia cautelare in carcere: «non si vede,  infatti,  quali  legami
con l'associazione di tipo mafioso l'appellante debba recidere  posto
che essi non sono stati in alcun  modo  ritenuti  esistenti».  Se  la
presunzione assoluta e' stata ritenuta ingiustificata  nei  confronti
di appartenenti ad associazioni dedite al traffico  di  stupefacenti,
«non si vede come essa possa operare nei confronti di chi in  ipotesi
agisca individualmente e  si  "limiti"  ad  evocare  -  a  meri  fini
funzionali al successo  dell'azione  delittuosa  -  un'entita'  della
quale  non  fa  parte».  Ad  avviso   del   rimettente,   tale   sola
manifestazione di una condotta che altrimenti sarebbe  sfuggita  alla
presunzione in esame non  potrebbe  far  ritenere  una  pericolosita'
sociale del suo autore cosi' elevata  da  richiedere  inevitabilmente
l'applicazione della custodia in carcere, sicche' la possibilita'  di
formulare un'ipotesi concreta idonea a smentire  la  generalizzazione
posta a base della presunzione  stessa  renderebbe  conto  della  sua
irragionevolezza. 
    Se la legittimita' costituzionale dell'art. 275,  comma  3,  cod.
proc.  pen.  e'  stata  ravvisata  solo  per  la  peculiarita'  della
fattispecie e delle sue connotazioni criminologiche (l'una e le altre
connesse alla circostanza che l'appartenenza ad associazioni di  tipo
mafioso implicherebbe un'adesione permanente a un sodalizio criminoso
di norma fortemente radicato nel territorio,  caratterizzato  da  una
fitta rete di collegamenti personali e dotato  di  particolare  forza
intimidatrice)  e  per  l'esistenza  di  una  regola  di   esperienza
sufficientemente  condivisa  circa   l'insufficienza   delle   misure
"minori"  a  recidere  i  rapporti   tra   l'indiziato   e   l'ambito
delinquenziale di appartenenza, dovrebbe concludersi che questa ratio
non e' riscontrabile nel caso in  cui  tali  condizioni  mancano.  Ne
conseguirebbe un'ingiustificata parificazione tra chi  abbia  aderito
ad associazioni di tipo mafioso o intenda agevolarle e  chi,  invece,
«senza appartenere ad esse intenda approfittare della  condizione  di
assoggettamento dalle medesime creato per portare piu'  efficacemente
a compimento il proprio proposito criminoso». 
    L'art. 275, comma 3, cod. proc.  pen.,  conclude  il  rimettente,
nell'imporre necessariamente l'applicazione della custodia  cautelare
in carcere  all'autore  di  un  delitto  commesso  avvalendosi  delle
condizioni previste  dall'art.  416-bis  cod.  pen.,  impedirebbe  al
giudice di valutare se nel caso concreto risultino elementi specifici
che facciano ritenere altrettanto idonee misure meno  afflittive.  La
norma censurata sarebbe quindi in contrasto con l'art. 3 Cost.,  «sia
per l'irragionevole parificazione  di  situazioni  tra  loro  diverse
(all'interno delle ipotesi  per  le  quali  la  presunzione  assoluta
opera) che per l'altrettanto irragionevole disparita' di  trattamento
tra  soggetti  che  esprimano  il  medesimo  grado  di  pericolosita'
sociale»;  con  l'art.  13  Cost.,  «per  la  lesione  dell'affermato
principio del minor  sacrificio  possibile  al  bene  della  liberta'
personale»;  con  l'art.  27,  secondo  comma,  Cost.,   «in   quanto
l'applicazione della custodia in carcere in mancanza di una effettiva
e concreta esigenza cautelare costituisce una indebita  anticipazione
di una pena prima ancora di  un  giudiziale  definitivo  accertamento
della responsabilita' penale». 
    2.- Nel giudizio di legittimita' costituzionale e' intervenuto il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato; anche l'imputato  nel  giudizio
principale  si  e'  costituito  con  atto  depositato   dal   proprio
difensore. 
    2.1.- L'Avvocatura dello Stato ha chiesto che  la  questione  sia
dichiarata   infondata.   Richiamata    l'ordinanza    della    Corte
costituzionale n. 450 del 1995, l'Avvocatura dello Stato osserva  che
la sentenza n. 265 del 2010 ha ritenuto l'impossibilita' di estendere
alle figure criminose interessate da  quel  giudizio  la  ratio  gia'
considerata idonea a giustificare la deroga alla disciplina ordinaria
stabilita per i procedimenti relativi ai delitti di  mafia  in  senso
stretto: secondo l'Avvocatura, tale ratio sarebbe riferibile anche ai
procedimenti relativi ai delitti connotati dalla contestazione  della
circostanza aggravante dell'art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991,
essendo  ragionevolmente  sostenibile  che  la  mera  evocazione   di
un'associazione criminale, reale o supposta, al fine di accrescere la
portata intimidatoria della condotta renda la disposizione  censurata
conforme allo standard di legittimita'  costituzionale  della  scelta
legislativa sul tipo di misura cautelare da adottare. 
    2.2.- La difesa dell'imputato nel giudizio principale ha  chiesto
che  la  questione  di  legittimita'  costituzionale  sollevata   dal
Tribunale  di  Lecce  sia   accolta.   Ribadite   le   argomentazioni
diffusamente riportate nell'ordinanza  di  rimessione  e  aderendo  a
quelle prospettate dal giudice  rimettente,  la  medesima  difesa  ha
osservato che, secondo la giurisprudenza di  legittimita',  affinche'
la circostanza aggravante de qua possa dirsi integrata e' sufficiente
il riferimento a un'organizzazione criminale, reale o  supposta,  con
la quale, in realta', l'agente non  abbia  alcun  collegamento  e  ha
messo in luce il contrasto della norma censurata: con l'art. 3 Cost.,
sussistendo l'ingiustificata parificazione - denunciata  dal  giudice
rimettente - tra persona appartenente e persona  non  appartenente  a
un'associazione di tipo mafioso; con l'art. 13 Cost., che  imporrebbe
di circoscrivere allo strettamente necessario  le  misure  limitative
della liberta' personale, attribuendo alla  custodia  in  carcere  il
connotato di estremo rimedio; con l'art. 27, secondo comma, Cost., in
quanto l'applicazione della custodia in carcere, in mancanza  di  una
effettiva e concreta esigenza cautelare, rappresenterebbe un'indebita
anticipazione della pena prima del definitivo accertamento giudiziale
della responsabilita' penale. 
    3.- Con ordinanza depositata il 7 giugno 2012 (r.o.  n.  175  del
2012), il Tribunale di Lecce, sezione del riesame, ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 3, 13 e 27, secondo comma, Cost., questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, cod.  proc.  pen.
«nella parte in cui prescrivendo che quando sussistono  gravi  indizi
di colpevolezza  in  ordine  a  delitti  commessi  avvalendosi  delle
condizioni di cui all'art.  416  bis  c.p.  e'  applicata  la  misura
cautelare della  custodia  in  carcere,  salvo  che  siano  acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non
fa salva l'ipotesi in cui  siano  acquisiti  elementi  specifici,  in
relazione al  caso  concreto,  dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure». 
    Il  rimettente  riferisce  di   essere   investito   dell'appello
presentato dalla difesa avverso l'ordinanza del 27 giugno  2011,  con
la quale il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale  di  Lecce
aveva rigettato l'istanza  di  revoca  della  custodia  cautelare  in
carcere o di sostituzione con gli  arresti  domiciliari.  Su  appello
dell'indagato, il tribunale del riesame aveva  sostituito  la  misura
originariamente applicata con quella degli  arresti  domiciliari,  ma
non aveva accolto l'istanza di revoca della prima. La  decisione  del
tribunale del riesame era stata impugnata con ricorso per  cassazione
sia dal pubblico ministero, lamentando la violazione  dell'art.  275,
comma 3, cod. proc. pen., sia dalla difesa, che aveva  denunciato  il
vizio di motivazione sull'attualita'  delle  esigenze  cautelari.  La
Corte  di  cassazione  aveva  accolto  entrambi  i  ricorsi  e  aveva
censurato l'ordinanza impugnata per aver  «disatteso  la  presunzione
iuris et de iure  di  adeguatezza  della  coercizione  intramuraria»,
ritenendo  irrilevante,  nel   caso   di   specie,   l'eccezione   di
illegittimita'  costituzionale  proposta  dalla   difesa,   dato   il
carattere  preliminare  della  decisione  sulla   sussistenza   delle
esigenze cautelari. 
    Il giudice rimettente afferma  di  dover  procedere  a  un  nuovo
scrutinio dell'impugnazione dell'ordinanza reiettiva dell'istanza  di
revoca  o  di  sostituzione  della  custodia  cautelare  in  carcere,
precisando,  per  un  verso,  che  l'indagato  aveva   sostenuto   la
sopravvenuta insussistenza di qualsiasi esigenza  cautelare,  e,  per
altro verso, che la Corte  di  cassazione  aveva  disatteso  la  tesi
difensiva dell'applicabilita' degli arresti  domiciliari  nella  fase
successiva all'adozione della misura cautelare carceraria.  Dovendosi
uniformare alla sentenza di annullamento, il Tribunale del riesame di
Lecce afferma  di  non  potere,  «in  presenza  di  residue  esigenze
cautelari anche di minimo grado, adottare in relazione ai delitti  di
cui all'art. 51, commi 3 bis e  3  quater  c.p.p.,  misure  cautelari
diverse da quella della custodia in carcere». 
    Il rimettente ritiene poi che debba essere confermato il giudizio
gia' espresso dall'ordinanza annullata circa la perdurante  esistenza
di esigenze  cautelari  e  che,  tuttavia,  tenuto  conto  del  ruolo
marginale dell'imputato  e  dell'assenza  di  precedenti  penali,  le
esigenze cautelari potrebbero essere  fronteggiate  con  misure  meno
afflittive della custodia cautelare in carcere. Percio' la  questione
di  legittimita'  costituzionale  prospettata  dalla  difesa  sarebbe
rilevante e, a sostegno della  ritenuta  non  manifesta  infondatezza
della questione, il rimettente ripropone le  medesime  argomentazioni
gia' svolte nell'ordinanza del 16 maggio 2012 (r.o. n. 131 del 2012). 
    4.- E' intervenuto nel giudizio di legittimita' costituzionale il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione  sia
dichiarata  manifestamente  infondata.  La  scelta   legislativa   di
imporre, in presenza di esigenze cautelari, il ricorso alla  custodia
cautelare,   non   sarebbe   irragionevole   e   non   determinerebbe
un'ingiustificata parificazione del trattamento stabilito per chi  fa
parte di un'associazione di tipo mafioso con quello di chi si  limiti
ad  approfittare  della  condizione  di  assoggettamento  creata   da
un'associazione di  tale  tipo.  La  norma  censurata,  inoltre,  non
sarebbe in contrasto ne' con l'art. 13, primo comma,  Cost.,  essendo
rispettata la riserva di giurisdizione in  materia  di  provvedimenti
limitativi della liberta'  personale,  ne'  con  l'art.  27,  secondo
comma, Cost., data l'estraneita' di tale parametro all'assetto e alla
conformazione delle misure operanti sul piano cautelare. 
    5.- Con ordinanza depositata il 10 settembre 2012  (r.o.  n.  269
del  2012),  la  Corte  di  cassazione,  sezioni  unite  penali,   ha
sollevato, in riferimento agli  artt.  3,  13,  primo  comma,  e  27,
secondo  comma,  Cost.,  questione  di  legittimita'   costituzionale
dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., nella parte
in cui -  nel  prevedere  che,  quando  sussistono  gravi  indizi  di
colpevolezza in ordine ai delitti commessi al fine  di  agevolare  le
attivita' delle associazioni previste dall'art. 416-bis cod. pen., e'
applicata la custodia in carcere, salvo che siano acquisiti  elementi
dai quali risulti che non sussistono  esigenze  cautelari  -  non  fa
salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici,
in relazione al caso concreto, dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. 
    La Corte rimettente riferisce che il  Tribunale  di  Palermo,  in
sede di appello  cautelare,  aveva  accolto,  con  ordinanza  del  14
ottobre  2011,  l'impugnazione  del  pubblico  ministero  avverso  la
decisione del  giudice  per  le  indagini  preliminari  dello  stesso
tribunale  che  aveva  sostituito  con  la   misura   degli   arresti
domiciliari quella della custodia cautelare in  carcere  inizialmente
disposta nei confronti dell'imputato. Questi, all'esito del  giudizio
abbreviato, era stato condannato per il  delitto  di  favoreggiamento
personale  aggravato  dal  fine  di  agevolare  le  attivita'   delle
associazioni   previste   dall'art.   416-bis   cod.   pen.,    cosi'
riqualificata   l'originaria   imputazione   di   partecipazione   ad
un'associazione di tipo mafioso. 
    Riferisce ancora la Corte di cassazione che  avverso  l'ordinanza
del 14  ottobre  2011  e'  stato  proposto  ricorso  per  cassazione.
Deducendo violazione di legge e difetto di motivazione,  il  ricorso,
dopo aver ricordato  la  riqualificazione  del  fatto  operata  dalla
sentenza di condanna,  che  aveva  messo  in  evidenza  l'assenza  di
significativi contatti tra l'imputato e  l'associazione  mafiosa,  ha
richiamato     la     recente      giurisprudenza      costituzionale
sull'illegittimita' di presunzioni di adeguatezza non  rispondenti  a
dati di esperienza generalizzabili, sottolineando  l'irragionevolezza
della presunzione nel caso di specie, data l'assenza di  collegamenti
con la criminalita' organizzata di tipo mafioso. Con successive  note
la  difesa  ha  eccepito   in   via   subordinata,   l'illegittimita'
costituzionale degli artt. 275, comma 3, e 299, comma 2,  cod.  proc.
pen., sia nella parte in  cui  e'  prevista  l'obbligatorieta'  della
custodia cautelare in carcere per ogni delitto aggravato dall'art.  7
del decreto-legge n. 152 del  1991,  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge n. 203 del 1991 ovvero, in piu'  ristretta  relazione  al
caso di  specie,  per  il  delitto  commesso  al  fine  di  agevolare
l'attivita' delle associazioni previste dall'art. 416-bis  cod.  pen.
sia nella parte in cui non e' previsto  che  l'obbligatorieta'  della
custodia  cautelare  in  carcere  operi   solo   in   occasione   del
provvedimento genetico della misura cautelare e non gia' quando siano
successivamente acquisiti elementi specifici dai quali risulti che le
esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. 
    Il ricorso e' stato assegnato alle sezioni unite della  Corte  di
cassazione in relazione al tema controverso  dell'operativita'  della
presunzione di adeguatezza della custodia  cautelare  in  carcere  ex
art. 275, comma 3, cod. proc. pen. solo  in  occasione  dell'adozione
del provvedimento genetico della misura coercitiva  ovvero  anche  in
rapporto alle vicende  successive  afferenti  alla  permanenza  delle
esigenze  cautelari.  Ricostruiti  i   diversi   orientamenti   della
giurisprudenza di legittimita' sul punto, le sezioni unite confermano
l'indirizzo prevalente, affermando il principio di diritto  in  forza
del  quale  la  presunzione  deve  operare  «non  solo  in  occasione
dell'adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva,  ma
anche nelle vicende successive che attengono  alla  permanenza  delle
esigenze cautelari». 
    Muovendo dal principio  di  diritto  cosi'  enunciato,  la  Corte
rimettente ritiene  non  manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale prospettata dalla  difesa  dell'imputato,
in considerazione dell'evoluzione della giurisprudenza costituzionale
sulla presunzione di cui all'art.  275,  comma  3,  cod.  proc.  pen.
Ripercorsa  tale  evoluzione,  le  sezioni  unite  della   Corte   di
cassazione individuano un duplice ordine di ragioni a sostegno  della
non manifesta infondatezza della questione. Per un  verso  richiamano
gli argomenti posti a fondamento  delle  pronunce  di  illegittimita'
costituzionale  sulla  disciplina  in   questione,   intervenute   in
relazione ad alcuni reati - come quelli  previsti  dall'art.  74  del
d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e dall'art. 416 cod.  pen.,  realizzato
allo scopo di commettere i delitti previsti dagli  artt.  473  e  474
cod.  pen.  -  caratterizzati  da  un  vincolo  di  appartenenza   ad
organizzazioni malavitose, ritenuto, di per  se'  solo,  «inidoneo  a
giustificare  la  presunzione  assoluta  di  adeguatezza  della  piu'
afflittiva misura cautelare,  in  assenza  delle  altre  connotazioni
specifiche  del  legame  che   caratterizza   gli   appartenenti   ad
un'associazione di tipo mafioso». Per altro verso, le  sezioni  unite
rilevano che  anche  i  delitti  aggravati  dall'art.  7  del  citato
decreto-legge n.  152  del  1991  -  avendo,  o  potendo  avere,  una
struttura individuale - «potrebbero per le loro caratteristiche,  non
postulare    necessariamente    esigenze    cautelari    affrontabili
esclusivamente con la custodia in carcere». La circostanza aggravante
in  esame,  infatti,  potrebbe  accompagnare  qualsiasi   fattispecie
delittuosa, sicche', ove si volessero  ricomprendere  anche  i  reati
cosi' aggravati nella locuzione "delitti di  mafia"  contenuta  nelle
pronunce della Corte costituzionale, «si finirebbe con  l'assimilare,
sotto il profilo del disvalore sociale  e  giuridico,  manifestazioni
delittuose del  tutto  differenti,  sia  con  riferimento  alla  loro
portata   criminale   sia   con   riferimento   alla    pericolosita'
dell'agente». 
    La presunzione di adeguatezza  della  misura  della  custodia  in
carcere per delitti commessi al fine di agevolare  l'attivita'  delle
associazioni previste  dall'art.  416-bis  cod.  pen.  comporterebbe,
secondo  le  sezioni  unite,  «una  parificazione  tra  chi  a  dette
associazioni abbia aderito e chi invece, senza appartenere  ad  esse,
abbia inteso agevolare le attivita' delle associazioni stesse» e tale
parificazione sarebbe ingiustificata, alla luce della  giurisprudenza
costituzionale che ritiene legittima la presunzione in argomento solo
in  presenza  di  un  legame  associativo  connotato  da   specifiche
caratteristiche, quali la forza intimidatrice del vincolo associativo
e la condizione di  assoggettamento  e  di  omerta'  che  ne  deriva.
Siffatte caratteristiche non sarebbero riscontrabili in una  condotta
delittuosa pur aggravata a norma dell'art. 7 del decreto-legge n. 152
del  1991,  condotta  grave  e  indice  di  pericolosita',   ma   non
necessariamente e in ogni caso maggiore di quella  del  partecipe  ad
un'associazione dedita al traffico di  sostanze  stupefacenti,  posto
che  «in  relazione  all'aggravante  contestata  sotto   il   profilo
dell'agevolazione  delle  attivita'   delle   associazioni   previste
dall'art. 416 bis cod. pen. - situazione corrispondente alla concreta
fattispecie  (...)  -  e'  escluso  un  vincolo  o  un   legame   con
l'associazione». 
    La questione sarebbe, inoltre, rilevante, posto che l'appello del
pubblico ministero  avverso  l'ordinanza  applicativa  degli  arresti
domiciliari e'  stato  accolto,  con  il  provvedimento  oggetto  del
ricorso per cassazione,  proprio  sulla  base  della  presunzione  di
adeguatezza della custodia cautelare  in  carcere  per  il  reato  di
favoreggiamento personale aggravato dall'art. 7 del decreto-legge  n.
152 del 1991. 
    La Corte  rimettente  ricorda  poi  il  precedente  delle  stesse
sezioni unite (sentenza 28 marzo 2001, n. 10) che  ha  dato  risposta
positiva al quesito  relativo  all'applicabilita'  della  circostanza
aggravante,  contestata   per   i   reati-fine,   ai   partecipi   di
un'associazione di tipo mafioso. La sentenza del 2001, ricorda ancora
l'ordinanza di rimessione, ha chiarito che il metodo mafioso  di  cui
all'art.  416-bis  cod.  pen.  e  quello  di  cui  alla   circostanza
aggravante ex art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 integrano  due
distinte entita', in quanto, mentre  il  primo  connota  il  fenomeno
associativo ed e', al pari  del  vincolo,  un  elemento  che  permane
indipendentemente  dalla  commissione  dei  vari  reati,  il  secondo
costituisce  eventuale  caratteristica  di   un   concreto   episodio
delittuoso, ben potendo accadere che un associato ponga in essere una
condotta penalmente  rilevante,  pur  costituente  reato-fine,  senza
avvalersi  del  potere  intimidatorio   del   gruppo.   Il   medesimo
ragionamento  e'  stato  sviluppato  dalla  sentenza  del   2001   in
riferimento alla forma soggettiva  della  circostanza  aggravante  in
esame: l'associato risponde di un contributo  permanente  allo  scopo
sociale, che prescinde dalla commissione dei singoli delitti, mentre,
se concorre in essi con il dolo specifico  di  agevolare  l'attivita'
dell'associazione, questo ulteriore elemento  psicologico  gli  viene
addebitato in funzione di aggravamento della pena. 
    Sulla base delle argomentazioni svolte, la  Corte  di  cassazione
dichiara rilevante e non manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo  periodo,
cod. proc. pen., nei termini  sopra  riportati.  La  norma  censurata
sarebbe  in  contrasto  con  l'art.  3  Cost.,  per  l'ingiustificata
parificazione dei procedimenti relativi ai delitti aggravati ai sensi
dell'art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 a quelli concernenti  i
delitti di mafia, nonche'  per  l'irrazionale  assoggettamento  a  un
medesimo   regime   cautelare   delle   diverse   ipotesi    concrete
riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; con l'art. 13, primo
comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle
misure privative della liberta' personale;  con  l'art.  27,  secondo
comma, Cost., per l'attribuzione alla coercizione cautelare di tratti
funzionali tipici della pena. 
    La  Corte   rimettente   ritiene   opportuno,   per   completezza
argomentativa, sottolineare che  analoghe  considerazioni  potrebbero
valere anche con riferimento alla forma aggravatrice del c.d. "metodo
mafioso"  (profilo  non  contestato  all'imputato),  posto   che   la
presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per un
reato cosi' aggravato comporterebbe una parificazione tra  chi  abbia
aderito ad un'associazione prevista dall'art. 416-bis cod. pen. e chi
invece, senza appartenere ad essa, abbia  inteso  approfittare  della
condizione di assoggettamento, dalla  medesima  creato,  per  portare
piu' efficacemente a  compimento  il  proprio,  specifico,  proposito
criminoso. 
    6.- Nel giudizio di legittimita' costituzionale e' intervenuto il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato; anche l'imputato  nel  giudizio
principale si e' costituito con atto depositato dai propri difensori. 
    6.1.- L'Avvocatura dello Stato ha chiesto che  la  questione  sia
dichiarata non fondata e ha richiamato l'ordinanza di questa Corte n.
450 del 1995. Questa ordinanza,  infatti,  ricorda  l'Avvocatura,  ha
escluso che la presunzione in questione violasse  gli  artt.  3,  13,
primo comma, e 27, secondo comma, Cost., sottolineando che  a  favore
della   ragionevolezza   della   soluzione   adottata   deponeva   la
delimitazione  della  norma  all'area  dei  delitti  di  criminalita'
organizzata  di  tipo  mafioso,  tenuto  conto  del  coefficiente  di
pericolosita' per le condizioni di  base  della  convivenza  e  della
sicurezza collettiva connaturato a tali illeciti. La ratio  decidendi
dell'ordinanza n. 450 del  1995  sarebbe  idonea  a  giustificare  la
presunzione di adeguatezza  della  misura  della  custodia  cautelare
anche per i delitti caratterizzati dall'evocazione dell'esistenza  di
un'associazione di tipo mafioso, reale o supposta,  ovvero  connotati
dal fine  di  agevolare  le  attivita'  delle  associazioni  previste
dall'art. 416-bis cod. pen. 
    6.2.- La difesa dell'imputato nel giudizio principale ha  chiesto
l'accoglimento  della  questione   di   legittimita'   costituzionale
sollevata dalla Corte di cassazione. Le cadenze procedimentali  della
specifica  vicenda,   nella   quale   l'originaria   imputazione   di
partecipazione  ad  associazione  mafiosa,  formulata  nei  confronti
dell'imputato, era stata "derubricata" in favoreggiamento aggravato a
norma dell'art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991, si presterebbero
bene  allo   scrutinio   di   costituzionalita'   dello   sfavorevole
automatismo cautelare in questione perche', a seguito della  sentenza
di primo grado, l'imputato doveva  essere  considerato  a  tutti  gli
effetti «estraneo alla compagine associativa  mafiosa,  con  radicale
ridimensionamento dell'ipotesi accusatoria iniziale e delle  relative
esigenze cautelari, sicche' la "presunzione assoluta di  adeguatezza"
della piu' grave misura cautelare - nel caso di specie -  e'  rimasta
affidata  esclusivamente  alla  finalita'  della  condotta  enunciata
nell'aggravante ritenuta in sentenza». 
    Richiamate alcune decisioni della giurisprudenza  costituzionale,
la difesa dell'imputato sottolinea le  condizioni  che,  in  materia,
consentono  l'estrinsecarsi  in  termini  non   irragionevoli   della
discrezionalita' legislativa e rileva che «la  presunzione  non  deve
lasciare spazio a facili confutazioni della "generalizzazione" su cui
si fonda», mentre cio' si verificherebbe «nei casi in cui il fine  di
agevolare l'associazione mafiosa (formalizzata o meno nell'aggravante
di cui all'art. 7 d.l. n. 152  del  1991)  caratterizzi  condotte  di
assai modesto rilievo criminale». 
    La giustificazione dell'eccezione alla regola  individuata  dalla
giurisprudenza costituzionale per i "delitti di mafia"  riguarderebbe
specificamente "l'appartenenza" ovvero  "l'adesione  permanente"  del
soggetto al sodalizio mafioso, in considerazione dei collegamenti che
ne derivano, e non sarebbe adattabile ad ipotesi in cui «un  soggetto
invece estraneo all'associazione, cui e' addebitato  un  qualsiasi  -
eventualmente neppur grave -  delitto»,  di  natura  anche  meramente
individuale,  abbia  agito   al   fine   di   agevolare   l'attivita'
dell'associazione  prevista  dall'art.   416-bis   cod.   pen.   Tale
finalita',   osserva   ancora   la   difesa   dell'imputato,    «puo'
contraddistinguere, cosi' come l'aggravante di cui all'art. 7 d.l. n.
152 del 1991 puo' qualificare, qualsiasi delitto,  anche  della  piu'
modesta entita': tanto basta a far scattare  l'automatismo  cautelare
previsto  dalla  norma  denunciata».  La  presunzione  in  questione,
dunque, finirebbe irragionevolmente  per  operare  anche  qualora  il
reato non sia connotato dal necessario  dato  empirico-sociologico  -
l'esistenza di una "solida e permanente adesione" tra  l'imputato  ed
altri soggetti dediti al crimine in forma organizzata - a  fronte  di
condotte di limitato rilievo criminale; cio' benche' la  razionalita'
della presunzione stessa sia stata esclusa per fattispecie assai piu'
gravi. 
    Come ha rilevato l'ordinanza di  rimessione,  agire  al  fine  di
agevolare le attivita' di  un'associazione  mafiosa  puo'  costituire
comportamento grave  e  indice  di  pericolosita',  ma  la  peculiare
finalita' che nel caso in  esame  rappresenta  soltanto  un  elemento
accidentale  del  reato,  non  potrebbe,  ad  avviso   della   difesa
dell'imputato, connotare, di per se' stessa e in astratto,  qualsiasi
condotta in  termini  tali  da  far  ritenere  che  la  pericolosita'
dell'agente possa essere fronteggiata solo con la piu'  grave  misura
coercitiva. 
    Nella fattispecie delittuosa caratterizzata  dalla  finalita'  di
agevolare l'associazione mafiosa, ovvero aggravata ai sensi dell'art.
7 del decreto-legge n. 152 del 1991, sarebbe  possibile  (certa,  nel
caso di specie, in quanto giudizialmente  accertata)  l'insussistenza
di quei profili di "intraneita'" nell'associazione criminale a fronte
dei quali e'  stata  ribadita  la  ragionevolezza  della  presunzione
d'insufficienza delle misure  "minori"  a  troncare  i  rapporti  tra
l'indiziato/imputato e l'ambito delinquenziale di  appartenenza  e  a
neutralizzarne cosi' la pericolosita'. 
    Contestualmente al deposito dell'atto di costituzione, la  difesa
dell'imputato  nel  giudizio  principale  ha  depositato  istanza  di
riunione al procedimento relativo all'ordinanza r.o. n. 131 del 2012. 
    7.- Con ordinanza depositata il 10 settembre 2012  (r.o.  n.  270
del  2012),  la  Corte  di  cassazione,  sezioni  unite  penali,   ha
sollevato, in riferimento agli  artt.  3,  13,  primo  comma,  e  27,
secondo  comma,  Cost.,  questione  di  legittimita'   costituzionale
dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., nella parte
in cui -  nel  prevedere  che,  quando  sussistono  gravi  indizi  di
colpevolezza  in  ordine  ai  delitti  commessi   avvalendosi   delle
condizioni previste dall'art. 416-bis cod. pen.  ovvero  al  fine  di
agevolare le  attivita'  delle  associazioni  previste  dallo  stesso
articolo, e' applicata  la  custodia  in  carcere,  salvo  che  siano
acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono  esigenze
cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti
elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali  risulti
che le  esigenze  cautelari  possono  essere  soddisfatte  con  altre
misure. 
    La Corte rimettente riferisce che il Tribunale di Napoli, in sede
di appello cautelare, aveva accolto, con ordinanza  del  16  febbraio
2012, l'impugnazione del pubblico ministero avverso la decisione  del
giudice per le  indagini  preliminari  dello  stesso  tribunale  che,
all'esito del giudizio abbreviato, aveva sostituito la  misura  della
custodia cautelare in carcere con quella degli  arresti  domiciliari,
disposta nei confronti  dell'imputato  per  vari  reati  di  illecita
detenzione e  porto  in  luogo  pubblico  di  arma  comune  da  sparo
clandestina, di ricettazione  e  di  estorsione,  con  le  aggravanti
dell'uso  del  metodo  mafioso  e  della  finalita'  di  agevolazione
mafiosa. 
    Avverso  l'ordinanza  del  16  febbraio  2012,  l'imputato  aveva
proposto un ricorso per cassazione,  che  era  stato  assegnato  alle
sezioni unite in relazione al medesimo  tema  controverso  affrontato
dall'ordinanza r.o. n. 269 del 2012. 
    L'ordinanza r.o. n. 270 del 2012 conferma il principio di diritto
in forza del quale la presunzione ex art. 275, comma  3,  cod.  proc.
pen. opera non solo  in  occasione  dell'adozione  del  provvedimento
genetico della misura coercitiva, ma anche nelle  vicende  successive
attinenti alla permanenza delle esigenze  cautelari.  Enunciato  tale
principio la Corte rimettente esamina  i  profili  di  non  manifesta
infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art.
275, comma 3, cod. proc. pen. in relazione ai delitti aggravati dalla
circostanza di cui all'art. 7 del decreto-legge n.  152  del  1991  e
prospetta argomentazioni analoghe a quelle svolte dall'ordinanza r.o.
n. 269 del 2012: la presunzione di  adeguatezza  della  misura  della
custodia in carcere per delitti commessi avvalendosi delle condizioni
previste dall'art. 416-bis cod. pen.  ovvero  al  fine  di  agevolare
l'attivita'   delle   associazioni   previste   da   tale    articolo
comporterebbe una parificazione tra chi a  dette  associazioni  abbia
aderito e chi,  invece,  senza  appartenere  ad  esse,  abbia  inteso
agevolare le attivita' delle associazioni stesse oppure  approfittare
delle condizioni di assoggettamento dalle medesime creato per portare
piu' efficacemente a compimento il proprio proposito criminoso. 
    La questione, inoltre, sarebbe rilevante in quanto l'appello  del
pubblico ministero era stato accolto dal tribunale del  riesame,  con
il provvedimento oggetto del ricorso per cassazione, sul  presupposto
della presunzione di adeguatezza della  sola  custodia  cautelare  in
carcere per i reati aggravati a norma dell'art. 7  del  decreto-legge
n. 152 del 1991. 
    Cio' posto, la Corte  di  cassazione  dichiara  rilevante  e  non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., nei termini
sopra riportati. La norma censurata sarebbe in contrasto: con  l'art.
3 Cost., per l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi
ai delitti aggravati ai sensi dell'art. 7 del  decreto-legge  n.  152
del 1991 a  quelli  concernenti  i  delitti  di  mafia,  nonche'  per
l'irrazionale assoggettamento a un medesimo  regime  cautelare  delle
diverse  ipotesi  concrete  riconducibili   ai   paradigmi   punitivi
considerati; con l'art.  13,  primo  comma,  Cost.,  quale  referente
fondamentale  del  regime  ordinario  delle  misure  privative  della
liberta'  personale;  con  l'art.  27,  secondo  comma,  Cost.,   per
l'attribuzione alla coercizione personale di tratti funzionali tipici
della pena. 
    8.- E' intervenuto nel giudizio di legittimita' costituzionale il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione  sia
dichiarata non fondata sulla base delle medesime argomentazioni  gia'
proposte in riferimento all'ordinanza r.o. n. 269 del 2012. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale di Lecce, sezione  riesame,  con  due  ordinanze
depositate, rispettivamente, il 16 maggio 2012 (r.o. n. 131 del 2012)
e il 7  giugno  2012  (r.o.  n.  175  del  2012),  ha  sollevato,  in
riferimento  agli  articoli  3,  13  e  27,  secondo   comma,   della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale  dell'articolo
275, comma 3, del codice di procedura  penale  nella  parte  in  cui,
prescrivendo che quando sussistono gravi indizi  di  colpevolezza  in
ordine ai  delitti  commessi  avvalendosi  delle  condizioni  di  cui
all'art. 416-bis del codice penale e' applicata la  misura  cautelare
della custodia in carcere, salvo che  siano  acquisiti  elementi  dai
quali risulti che non sussistono esigenze  cautelari,  non  fa  salva
l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione  al
caso concreto, dai quali risulti che le  esigenze  cautelari  possono
essere soddisfatte con altre misure. 
    Con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 (r.o.  n.  269  del
2012), la Corte di cassazione, sezioni unite penali, ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3, 13,  primo  comma,  e  27,  secondo  comma,
Cost., questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275,  comma
3, secondo periodo,  cod.  proc.  pen.  nella  parte  in  cui  -  nel
prevedere che, quando sussistono  gravi  indizi  di  colpevolezza  in
ordine ai delitti commessi al fine di agevolare  le  attivita'  delle
associazioni previste dall'art. 416-bis cod. pen.,  e'  applicata  la
custodia in carcere, salvo che siano  acquisiti  elementi  dai  quali
risulti che  non  sussistono  esigenze  cautelari  -  non  fa  salva,
altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti  elementi  specifici,  in
relazione al  caso  concreto,  dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. 
    Infine,  la  Corte  di  cassazione,  sezioni  unite  penali,  con
ordinanza depositata il 10 settembre 2012 (r.o. n. 270 del 2012),  ha
sollevato, in riferimento agli  artt.  3,  13,  primo  comma,  e  27,
secondo  comma,  Cost.,  questione  di  legittimita'   costituzionale
dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen. nella  parte
in cui -  nel  prevedere  che,  quando  sussistono  gravi  indizi  di
colpevolezza  in  ordine  ai  delitti  commessi   avvalendosi   delle
condizioni previste dall'art. 416-bis cod. pen.  ovvero  al  fine  di
agevolare le  attivita'  delle  associazioni  previste  dallo  stesso
articolo del codice penale, e'  applicata  la  custodia  in  carcere,
salvo  che  siano  acquisiti  elementi  dai  quali  risulti  che  non
sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi  in
cui  siano  acquisiti  elementi  specifici,  in  relazione  al   caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono  essere
soddisfatte con altre misure. 
    2.- Poiche' le questioni hanno ad  oggetto  in  parte  le  stesse
norme, censurate con argomenti analoghi, va disposta la riunione  dei
giudizi ai fini di un'unica trattazione e di un'unica pronuncia. 
    3.- Le questioni sono fondate in riferimento agli  artt.  3,  13,
primo comma, e 27, secondo  comma,  Cost.,  nei  termini  di  seguito
specificati. 
    4.- Fin dalla sua introduzione, da parte dell'art.  5,  comma  1,
del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152  (Provvedimenti  urgenti  in
tema di lotta alla criminalita' organizzata e di trasparenza  e  buon
andamento    dell'attivita'    amministrativa),    convertito,    con
modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, la presunzione  di
adeguatezza  della  sola  misura  custodiale  carceraria,   contenuta
nell'art. 275, comma 3, cod. proc.  pen.,  ha  riguardato,  oltre  al
delitto dell'art. 416-bis cod. pen., i delitti  commessi  avvalendosi
delle condizioni previste da tale disposizione o al fine di agevolare
le attivita' delle associazioni ivi  previste.  Il  riferimento  alle
fattispecie  delittuose  indicate  e'  rimasto  costante  nella   pur
complessa e non lineare  evoluzione  della  normativa  in  questione;
attualmente, il delitto previsto dall'art.  416-bis  cod.  pen.  e  i
delitti commessi avvalendosi  del  "metodo  mafioso"  o  al  fine  di
agevolare  l'attivita'  delle  associazioni  di  tipo  mafioso   sono
assoggettati al regime cautelare speciale per  effetto  del  richiamo
all'art. 51, comma 3-bis, cod. proc.  pen.,  operato  dall'art.  275,
comma 3, secondo periodo, del codice di rito. 
    4.1.- A tali delitti ha fatto riferimento l'ordinanza n. 450  del
1995 di questa Corte, che ha  dichiarato  la  manifesta  infondatezza
della questione di legittimita' costituzionale dell'art.  275,  comma
3, cod. proc. pen., sottolineando, tra l'altro, che «la delimitazione
della norma all'area dei delitti di criminalita' organizzata di  tipo
mafioso» - delimitazione mantenuta dalla legge 8 agosto 1995, n.  332
(Modifiche al codice di procedura penale in tema  di  semplificazione
dei procedimenti, di misure cautelari  e  di  diritto  di  difesa)  -
«rende  manifesta  la  non  irragionevolezza   dell'esercizio   della
discrezionalita' legislativa, atteso il coefficiente di pericolosita'
per  le  condizioni  di  base  della  convivenza  e  della  sicurezza
collettiva che agli illeciti di quel genere e' connaturato». 
    4.2.- Piu'  di  recente,  questa  Corte  ha  avuto  occasione  di
chiarire che «le presunzioni  assolute,  specie  quando  limitano  un
diritto  fondamentale  della  persona,  violano   il   principio   di
eguaglianza,  se  sono  arbitrarie  e  irrazionali,  cioe'   se   non
rispondono  a  dati  di  esperienza  generalizzati,  riassunti  nella
formula dell'id quod  plerumque  accidit»  (cosi',  ex  plurimis,  la
sentenza  n.  139  del  2010).  In  particolare,  secondo  la  Corte,
l'irragionevolezza della presunzione assoluta si puo' cogliere  tutte
le volte in cui sia "agevole" formulare ipotesi di accadimenti  reali
contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione  stessa
(sentenza n. 41 del 1999), e una irragionevolezza del genere e' stata
riscontrata rispetto alla presunzione assoluta dell'art.  275,  comma
3, cod. proc. pen., nella parte in cui era riferita ad alcuni delitti
a sfondo sessuale (sentenza n. 265 del 2010), all'omicidio volontario
(sentenza n. 164 del 2011), all'associazione finalizzata al  traffico
di stupefacenti (sentenza n.  231  del  2011),  all'associazione  per
delinquere realizzata allo scopo di  commettere  i  delitti  previsti
dagli artt. 473 e 474 cod. pen. (sentenza n. 110 del  2012)  e  anche
rispetto alla presunzione assoluta dell'art.  12,  comma  4-bis,  del
decreto legislativo  25  luglio  1998,  n.  286  (Testo  unico  delle
disposizioni concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e  norme
sulla condizione dello  straniero),  relativa  ad  alcune  figure  di
favoreggiamento delle immigrazioni  illegali  (sentenza  n.  331  del
2011). 
    La sentenza n. 265 del 2010, in particolare, ha osservato che  ai
delitti a sfondo sessuale presi in considerazione non e'  estensibile
la ratio gia' ritenuta dall'ordinanza n. 450 del 1995 (nonche'  dalla
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo 6  novembre  2003,
Pantano  contro  Italia)  «idonea  a  giustificare  la  deroga   alla
disciplina ordinaria quanto ai procedimenti  relativi  a  delitti  di
mafia in senso  stretto».  Tale  ratio  per  l'associazione  di  tipo
mafioso si basa sulla constatazione che «dalla struttura stessa della
fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche -  connesse  alla
circostanza  che  l'appartenenza  ad  associazioni  di  tipo  mafioso
implica un'adesione permanente ad un  sodalizio  criminoso  di  norma
fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta  rete
di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice
- deriva, nella generalita' dei casi concreti ad  essa  riferibili  e
secondo una regola  di  esperienza  sufficientemente  condivisa,  una
esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe  adeguata  solo  la
custodia in carcere (non essendo le  misure  "minori"  sufficienti  a
troncare i rapporti tra  l'indiziato  e  l'ambito  delinquenziale  di
appartenenza, neutralizzandone la pericolosita')». 
    Nella  stessa  prospettiva,  la  sentenza  n.  164  del  2011  ha
sottolineato che, nonostante la gravita' del delitto di omicidio, «la
presunzione assoluta di cui si  discute  non  puo'  considerarsi,  in
effetti,  rispondente  a  un  dato   di   esperienza   generalizzato,
ricollegabile  alla   "struttura   stessa"   e   alle   "connotazioni
criminologiche" della  figura  criminosa.  Non  si  e',  difatti,  al
cospetto di un reato che implichi o  presupponga  necessariamente  un
vincolo di appartenenza  permanente  a  un  sodalizio  criminoso  con
accentuate caratteristiche di pericolosita'  -  per  radicamento  nel
territorio,   intensita'   dei   collegamenti   personali   e   forza
intimidatrice - vincolo che solo la misura piu' severa  risulterebbe,
nella generalita' dei casi, in grado di interrompere». 
    Neanche la natura associativa  del  reato  e'  stata  considerata
sufficiente, di per se' sola, a legittimare la presunzione  contenuta
nella norma censurata, dato che nelle altre  fattispecie  associative
considerate dalla Corte non  e'  stata  riscontrata  la  peculiarita'
dell'associazione di tipo mafioso «che, sul piano  concreto,  implica
ed e' suscettibile di produrre, da un lato, una solida  e  permanente
adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una
rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall'altro, una
diffusivita' dei  risultati  illeciti,  a  sua  volta  produttiva  di
accrescimento della  forza  intimidatrice  del  sodalizio  criminoso»
(sentenza n. 231 del 2011). 
    Connotazioni analoghe non caratterizzano le figure criminose  che
hanno  formato  oggetto  delle  diverse  pronunce  di  illegittimita'
costituzionale gia' ricordate e che  abbracciano  fatti  marcatamente
eterogenei tra loro e suscettibili di  proporre,  in  un  numero  non
marginale di casi, esigenze  cautelari  adeguatamente  fronteggiabili
con misure diverse e meno afflittive di quella carceraria. 
    E' per questa ragione che l'art. 275, comma 3,  cod.  proc.  pen.
(cosi' come l'art. 12, comma 4-bis, del  d.lgs.  n.  286  del  1998),
nella parte in cui si riferiva a tali figure, e'  stato  ritenuto  in
contrasto con gli artt. 3, 13, primo  comma,  e  27,  secondo  comma,
Cost. Il  contrasto  pero'  non  e'  risultato  tale  da  far  cadere
completamente  la  presunzione  di  adeguatezza  della  custodia   in
carcere, ma ne  ha  determinato  la  trasformazione  da  assoluta  in
relativa,  rendendola   superabile   attraverso   l'acquisizione   di
«elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti
che le  esigenze  cautelari  possono  essere  soddisfatte  con  altre
misure» (sentenze n. 110 del 2012; n. 331, n. 231 e n. 164 del  2011;
n. 265 del 2010). 
    5.- Alle  indicazioni  offerte  dalle  parziali  declaratorie  di
illegittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen.
si sono ricollegati i giudici rimettenti nel censurare il  regime  di
presunzione assoluta relativo ai  delitti  commessi  avvalendosi  del
cosiddetto  "metodo  mafioso"  e  ai  delitti  commessi  al  fine  di
agevolare le attivita' delle associazioni previste dall'art.  416-bis
cod. pen. La prospettazione delle censure  e',  inoltre,  argomentata
sulla base degli indirizzi formatisi nella  giurisprudenza  comune  a
proposito dell'art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991,  convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 203 del 1991,  che  configura  come
circostanze aggravanti le medesime fattispecie  cui  l'art.  5  dello
stesso decreto-legge n. 152 del 1991 ha ricollegato la presunzione di
adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere. 
    In linea con questa impostazione, particolarmente  significative,
ai fini dello scrutinio  delle  questioni  in  esame,  risultano  due
indicazioni offerte dagli orientamenti della  giurisprudenza  comune.
Per un verso, infatti, la giurisprudenza  di  legittimita'  ha  fatto
riferimento,  nell'individuazione  della  ratio  dell'art.  7,  a  un
intento legislativo  «teso  a  colpire  qualsiasi  manifestazione  di
attivita'  mafiosa,   dalla   partecipazione   all'associazione,   al
favoreggiamento ed al semplice impiego di metodo mafioso o di isolata
e minima agevolazione» (sentenza della Corte di  cassazione,  sezioni
unite penali, 28 marzo 2001, n. 10); per altro verso, e'  consolidato
l'indirizzo secondo  cui  la  circostanza  aggravante  in  esame,  in
entrambe le forme in cui puo' atteggiarsi, «e'  applicabile  a  tutti
coloro che, in concreto, ne realizzano gli  estremi»,  sia  che  essi
siano «partecipi di un sodalizio di stampo mafioso sia che  risultino
ad esso estranei» (sentenza della Corte di cassazione, sezione  prima
penale, 2 aprile 2012, n. 17532). 
    6.- Le indicazioni della giurisprudenza comune appena  richiamate
mettono in luce come la presunzione assoluta sulla quale fa  leva  il
regime cautelare speciale non risponda, con  riferimento  ai  delitti
commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis cod.
pen. o al fine di agevolare le attivita' delle associazioni  previste
dallo stesso articolo, a dati di  esperienza  generalizzati,  essendo
"agevole"  formulare  ipotesi  di  accadimenti  reali  contrari  alla
generalizzazione posta a base della presunzione stessa.  Infatti,  la
possibile estraneita' dell'autore di tali delitti  a  un'associazione
di tipo mafioso fa escludere che si sia  sempre  in  presenza  di  un
«reato che implichi  o  presupponga  necessariamente  un  vincolo  di
appartenenza permanente  a  un  sodalizio  criminoso  con  accentuate
caratteristiche di pericolosita' - per  radicamento  nel  territorio,
intensita' dei collegamenti personali e forza intimidatrice - vincolo
che solo la misura piu' severa risulterebbe,  nella  generalita'  dei
casi, in grado di interrompere» (sentenza n. 164 del 2011). Se,  come
si e' visto,  la  congrua  "base  statistica"  della  presunzione  in
questione e' collegata  all'«appartenenza  ad  associazioni  di  tipo
mafioso» (sentenza n. 265 del 2010), una fattispecie  che,  anche  se
collocata in un contesto  mafioso,  non  presupponga  necessariamente
siffatta "appartenenza" non assicura  alla  presunzione  assoluta  di
adeguatezza  della  custodia  cautelare  in  carcere  un   fondamento
giustificativo costituzionalmente valido. 
    Il  semplice  impiego  del  cosiddetto  "metodo  mafioso"  o   la
finalizzazione   della   condotta   criminosa   all'agevolazione   di
un'associazione mafiosa  (la  quale,  secondo  la  giurisprudenza  di
legittimita', «non richiede anche che il fine particolare, perseguito
con  la  commissione  del  delitto,  debba  in  qualche  modo  essere
realizzato»:  sentenza  della  Corte  di  cassazione,  sezione  sesta
penale,  19  settembre  1996,  n.  9691)  non  sono   necessariamente
equiparabili,  ai  fini  della   presunzione   in   questione,   alla
partecipazione all'associazione, ed e' a questa partecipazione che e'
collegato  il  dato   empirico,   ripetutamente   constatato,   della
inidoneita' del processo, e delle stesse misure cautelari, a recidere
il vincolo associativo e a  far  venir  meno  la  connessa  attivita'
collaborativa,  sicche',  una  volta   riconosciuta   la   perdurante
pericolosita' dell'indagato  o  dell'imputato  del  delitto  previsto
dall'art. 416-bis cod. pen.,  e'  legittimo  presumere  che  solo  la
custodia in carcere sia idonea a contrastarla efficacemente. 
    Ne' in senso contrario puo' ritenersi, come sostiene l'Avvocatura
dello Stato, che la mera  evocazione  di  un'associazione  criminale,
reale o supposta, al fine  di  accrescere  la  portata  intimidatoria
della  condotta,  renda  costituzionalmente   legittima   la   scelta
legislativa  della  misura  cautelare  carceraria:  tale  evocazione,
infatti, si riflette sulla gravita' del fatto-reato e, coerentemente,
integra  la  fattispecie  circostanziale  prevista  dall'art.  7  del
decreto-legge n. 152 del 1991, ma, per quanto concerne  l'adeguatezza
della misura cautelare, non puo' essere equiparata  alla  commissione
di un «reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di
appartenenza permanente  a  un  sodalizio  criminoso  con  accentuate
caratteristiche di pericolosita'» (sentenza n. 164 del 2011). 
    Sotto un altro aspetto - e con particolare riferimento ai delitti
commessi  al  fine  di  agevolare  le  attivita'  delle  associazioni
previste dall'art. 416-bis cod. pen. - deve osservarsi che, mentre le
declaratorie di parziale illegittimita' costituzionale dell'art. 275,
comma  3,  cod.  proc.  pen.  gia'  pronunciate  hanno  investito  la
presunzione de qua con riguardo a singole fattispecie  criminose,  la
disciplina   oggi   censurata   e'   applicabile,   per    riprendere
l'espressione  della  difesa  dell'imputato  in   uno   dei   giudizi
principali, con riferimento a «qualsiasi delitto,  anche  della  piu'
modesta entita'», purche' connotato dalla finalita' di  "agevolazione
mafiosa" (o dalla realizzazione mediante  il  "metodo  mafioso").  In
altri termini, il regime cautelare speciale e' collegato, nei casi in
esame, non gia' a singole  fattispecie  incriminatrici,  in  rapporto
alle quali possa valutarsi l'adeguatezza della custodia cautelare  in
carcere, ma a circostanze aggravanti, riferibili a piu' vari reati  e
correlativamente alle piu' diverse situazioni oggettive e soggettive. 
    Oltre a mettere in luce le ricadute della disciplina in esame sul
criterio di proporzionalita', secondo  il  quale  «ogni  misura  deve
essere proporzionata all'entita' del fatto e alla  sanzione  che  sia
stata o si ritiene possa essere irrogata» (art. 275,  comma  2,  cod.
proc. pen.), l'ampio numero dei reati-base suscettibili di  rientrare
nell'ambito di applicazione del regime cautelare speciale segnala  la
possibile diversita' del "significato" di ciascuno di essi sul  piano
dei  pericula  libertatis,  il  che   offre   un'ulteriore   conferma
dell'insussistenza di una congrua "base statistica" a sostegno  della
presunzione censurata. 
    Anche sotto questo profilo, dunque, la posizione dell'autore  dei
delitti commessi avvalendosi del cosiddetto  "metodo  mafioso"  o  al
fine di agevolare le attivita' delle associazioni  di  tipo  mafioso,
delle quali egli non faccia  parte,  si  rivela  non  equiparabile  a
quella   dell'associato   o   del   concorrente   nella   fattispecie
associativa, per la quale la  presunzione  delineata  dall'art.  275,
comma 3, cod. proc. pen. risponde,  come  si  e'  detto,  a  dati  di
esperienza generalizzati. 
    Infine, ribadendo quanto e' stato gia' affermato da questa Corte,
deve escludersi che l'inserimento dei  delitti  commessi  avvalendosi
del cosiddetto "metodo mafioso", o al fine di agevolare le  attivita'
delle associazioni previste dall'art. 416-bis cod. pen., tra i  reati
indicati dall'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.  sia  idoneo,  di
per se' solo, a offrire legittimazione costituzionale alla  norma  in
esame:  la  disciplina  stabilita  da  tale  disposizione,   infatti,
risponde a «una logica distinta  ed  eccentrica»  rispetto  a  quella
sottesa alle disposizioni sottoposte a scrutinio, trattandosi di  una
normativa «ispirata da ragioni di  opportunita'  organizzativa  degli
uffici del pubblico ministero, anche in relazione  alla  tipicita'  e
alla qualita' delle tecniche di indagine richieste da  taluni  reati,
ma che non consentono inferenze in  materia  di  esigenze  cautelari,
tantomeno al fine di omologare quelle relative a  tutti  procedimenti
per i quali quella deroga e' stabilita» (sentenza n. 231 del 2011; in
senso conforme, sentenza n. 110 del 2012). 
    7.- Deve, pertanto, concludersi che le norme  censurate  sono  in
contrasto sia con l'art. 3 Cost., per l'ingiustificata  parificazione
dei  procedimenti  relativi  ai  delitti  in   questione   a   quelli
concernenti il delitto di  cui  all'art.  416-bis  cod.  pen.  e  per
l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime  cautelare  delle
diverse ipotesi riconducibili alle due fattispecie in esame; sia  con
l'art. 13, primo  comma,  Cost.,  quale  referente  fondamentale  del
regime ordinario delle  misure  cautelari  privative  della  liberta'
personale; sia, infine, con  l'art.  27,  secondo  comma,  Cost.,  in
quanto attribuisce alla  coercizione  processuale  tratti  funzionali
tipici della pena. 
    Come e' stato  gia'  precisato,  cio'  che  vulnera  i  parametri
costituzionali richiamati non e' la presunzione in  se',  ma  il  suo
carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione
di rilevanza al principio  del  «minore  sacrificio  necessario».  La
previsione, invece, di una presunzione solo relativa  di  adeguatezza
della custodia carceraria - atta a realizzare una semplificazione del
procedimento probatorio, suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno
criminoso considerato, ma comunque superabile da  elementi  di  segno
contrario - non eccede i  limiti  di  compatibilita'  costituzionale,
rimanendo per tale verso non censurabile l'apprezzamento  legislativo
circa la ordinaria configurabilita' di esigenze cautelari  nel  grado
piu' intenso (sentenze n. 110 del 2012, n. 331, n. 231 e n.  164  del
2011, e n. 265 del 2010). 
    Va,   pertanto,   dichiarata   l'illegittimita'    costituzionale
dell'art. 275, comma  3,  secondo  periodo,  cod.  proc.  pen.,  come
modificato dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio  2009,
n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto
alla  violenza  sessuale,  nonche'  in  tema  di  atti  persecutori),
convertito, con modificazioni, dalla legge 23  aprile  2009,  n.  38,
nella parte in cui -  nel  prevedere  che,  quando  sussistono  gravi
indizi di colpevolezza in  ordine  ai  delitti  commessi  avvalendosi
delle condizioni previste dall'art. 416-bis cod. pen. o  al  fine  di
agevolare  l'attivita'  delle  associazioni  previste  dallo   stesso
articolo del codice penale, e' applicata  la  custodia  cautelare  in
carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi  in
cui  siano  acquisiti  elementi  specifici,  in  relazione  al   caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono  essere
soddisfatte con altre misure.  Nell'apprezzamento  di  queste  ultime
risultanze, il giudice dovra' valutare  gli  elementi  specifici  del
caso concreto, tra i quali l'appartenenza dell'agente ad associazioni
di tipo mafioso ovvero la sua estraneita' ad esse.