ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale degli  articoli  315,
comma 3, e 646, comma 1, del codice  di  procedura  penale,  promosso
dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nel procedimento penale
a carico di N.I. con ordinanza del 25 ottobre 2012,  iscritta  al  n.
303 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell'anno 2013. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del  5  giugno  2013  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza depositata il 25 ottobre 2012, le Sezioni unite
penali della Corte di cassazione hanno sollevato, in riferimento agli
articoli 111, primo comma, e 117, primo  comma,  della  Costituzione,
questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 315, comma  3,
in relazione all'articolo 646,  comma  1,  del  codice  di  procedura
penale, nella parte in cui  non  consentono  che,  su  istanza  degli
interessati,  il  procedimento  per  la   riparazione   dell'ingiusta
detenzione si svolga,  davanti  alla  corte  d'appello,  nelle  forme
dell'udienza pubblica. 
    1.1.- La Corte rimettente premette che il ricorrente nel giudizio
a quo era stato sottoposto alla misura cautelare  della  custodia  in
carcere dal 16 ottobre 2001 al 21 dicembre  2001  e  a  quella  degli
arresti  domiciliari  dal  21  dicembre  2001  al  10  giugno   2002,
nell'ambito di un procedimento penale promosso nei suoi  confronti  e
di altri soggetti per il reato di  illecita  detenzione  di  sostanza
stupefacente a fini di spaccio, conclusosi con la sua assoluzione per
non aver commesso il fatto. Il prosciolto aveva chiesto,  quindi,  la
riparazione per l'ingiusta detenzione subita, a norma  dell'art.  314
cod. proc. pen. 
    La Corte d'appello di Catania, con ordinanza del 26  marzo  2010,
aveva  respinto  la  domanda,  ravvisando  la   condizione   ostativa
rappresentata dall'avere l'istante  tenuto  «un  comportamento  [...]
connotato da colpa grave tale da integrare  condizione  sinergica  ai
fini dell'emissione e del mantenimento dell'ordinanza cautelare». 
    A seguito di  ricorso  dell'interessato,  l'ordinanza  era  stata
annullata con rinvio dalla Corte di cassazione con  sentenza  del  1°
febbraio 2011  per  difetto  di  motivazione,  non  avendo  la  Corte
d'appello spiegato con quale condotta, dolosa o  gravemente  colposa,
l'interessato avesse  concretamente  indotto  in  errore  l'autorita'
procedente riguardo alla destinazione  ad  uso  non  personale  della
sostanza stupefacente  da  lui  detenuta,  cosi'  da  determinarla  a
emettere e a mantenere il provvedimento  restrittivo  della  liberta'
personale. 
    Nuovamente investita della domanda quale giudice del  rinvio,  la
Corte di appello di Catania era pervenuta  ad  analoga  decisione  di
rigetto  con  ordinanza  del  5  luglio   2011,   contro   la   quale
l'interessato aveva proposto ulteriore ricorso per cassazione. 
    Secondo il ricorrente, anche il nuovo provvedimento  risulterebbe
carente sul piano della motivazione.  Ai  fini  della  decisione,  la
Corte di merito avrebbe preso, infatti, in considerazione  telefonate
intercettate tra  altri  soggetti,  irrilevanti  agli  effetti  della
configurazione di  una  condotta  gravemente  colposa  a  carico  del
ricorrente. Di nuovo,  dunque,  il  giudice  di  merito  non  avrebbe
spiegato perche'  l'avvenuto  acquisto,  da  parte  dell'istante,  di
sostanza stupefacente per  uso  personale  costituisca  comportamento
atto  ad  escludere  il   diritto   all'indennizzo   per   l'ingiusta
detenzione. 
    La terza sezione penale della Corte di cassazione, cui il ricorso
era stato assegnato, lo ha rimesso alle Sezioni unite,  in  relazione
ad un profilo in rito ritenuto idoneo a dar luogo  a  interpretazioni
contrastanti. Nelle more, e' infatti intervenuta  la  sentenza  della
Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  10  aprile  2012,  sul  caso
Lorenzetti  contro  Italia,   che,   proprio   con   riferimento   al
procedimento  per  la  riparazione   dell'ingiusta   detenzione,   ha
ravvisato la violazione dell'art. 6 della Convenzione europea per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con
legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora in avanti: «CEDU»), a causa  della
mancanza di pubblicita' del procedimento camerale con  il  quale,  in
base alle norme censurate, la  domanda  di  riparazione  e'  trattata
davanti alla corte d'appello. 
    Rilevato che, nel caso oggetto  del  giudizio  a  quo,  la  Corte
d'appello di Catania ha proceduto anch'essa in camera di consiglio  e
che la stessa  Corte  di  cassazione  sarebbe  parimenti  chiamata  a
pronunciarsi con rito camerale - nella specie «non  partecipato»,  ai
sensi dell'art. 611 cod. proc. pen. - la Sezione ha ritenuto  che  la
citata sentenza della Corte di Strasburgo ponga un duplice  problema:
da un lato, di stabilire se la pubblicita' dell'udienza debba  essere
assicurata anche nel procedimento davanti alla Corte  di  cassazione;
dall'altro, di chiarire se, stante  il  difetto  di  pubblicita'  del
procedimento seguito davanti alla Corte territoriale, debba  disporsi
l'annullamento  con  rinvio  della  decisione  di  quest'ultima   per
violazione dell'art. 6 della CEDU. 
    Con decreto del 21 agosto 2012, il Primo Presidente ha  assegnato
il ricorso alle Sezioni unite. 
    1.2.- Tutto cio' premesso, il Collegio rimettente  osserva  come,
nella citata sentenza sul caso Lorenzetti,  la  Corte  europea  abbia
ribadito la propria costante  giurisprudenza,  secondo  la  quale  il
principio  di  pubblicita'  delle  udienze,  sancito   dall'art.   6,
paragrafo 1, della CEDU (nella parte  in  cui  stabilisce  che  «ogni
persona  ha  diritto  che  la   sua   causa   sia   esaminata   [...]
pubblicamente»), garantisce i singoli da una giustizia che sfugge  al
controllo del pubblico, rappresentando, dunque, uno  degli  strumenti
destinati a contribuire al mantenimento della fiducia nei  tribunali.
Attraverso la trasparenza che la pubblicita' delle  udienze  fornisce
all'amministrazione  della  giustizia,  il  principio  in   questione
«contribuisce a raggiungere l'obiettivo dell'art. 6, §  1,  ossia  il
processo equo, la cui garanzia fa parte dei principi fondamentali  di
ogni societa' democratica». 
    La norma convenzionale - ha precisato  la  Corte  europea  -  non
impedisce che i giudici, in considerazione delle particolarita' della
causa sottoposta al loro esame,  decidano  di  derogare  al  predetto
principio; ma l'assenza del pubblico, totale o parziale, deve  essere
rigorosamente   giustificata   dalle   circostanze   oggettive    del
procedimento.  L'udienza  pubblica  puo'   essere   considerata   non
necessaria, in particolare, quando la causa non  ponga  questioni  di
fatto o di  diritto  che  non  possano  essere  risolte  in  base  al
fascicolo e alle osservazioni presentate dalle parti, come  nel  caso
in cui essa involga questioni altamente tecniche. 
    Nella procedura per la riparazione  dell'ingiusta  detenzione,  i
giudici nazionali sono chiamati a  valutare  se  l'interessato  abbia
contribuito a provocare la  sua  detenzione  intenzionalmente  o  per
colpa grave:  sicche'  «nessuna  circostanza  eccezionale  giustifica
l'esimersi dal tenere una udienza sotto il  controllo  del  pubblico,
non trattandosi di questioni di natura  tecnica  che  possono  essere
regolate in maniera soddisfacente unicamente in base  al  fascicolo».
La Corte di Strasburgo ha reputato, di conseguenza, «essenziale che i
singoli coinvolti  in  una  procedura  di  riparazione  per  custodia
cautelare "ingiusta" si vedano quanto meno offrire la possibilita' di
richiedere una udienza pubblica innanzi alla corte di appello». 
    Le Sezioni unite ricordano, per altro  verso,  come  la  tematica
della pubblicita' delle udienze abbia  formato  oggetto  di  puntuali
interventi anche da parte della Corte costituzionale, con particolare
riguardo al procedimento in materia di applicazione delle  misure  di
prevenzione. Con la sentenza n. 93 del 2010, la Corte  costituzionale
ha dichiarato, infatti, costituzionalmente illegittimi, per contrasto
con l'art. 117, primo comma, Cost., l'art. 4 della legge 27  dicembre
1956, n. 1423 (Misure di  prevenzione  nei  confronti  delle  persone
pericolose per la sicurezza e per la  pubblica  moralita')  e  l'art.
2-ter della legge 31 maggio 1965,  n.  575  (Disposizioni  contro  le
organizzazioni criminali di tipo  mafioso,  anche  straniere),  nella
parte in cui non consentono che, su  istanza  degli  interessati,  il
predetto procedimento si svolga, davanti al tribunale  e  alla  corte
d'appello, nelle forme dell'udienza pubblica. A tale declaratoria  la
Corte  costituzionale  e'  pervenuta  facendo  leva   proprio   sulla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti  dell'uomo,  la  quale
aveva ravvisato una violazione dell'art. 6, paragrafo 1,  della  CEDU
nel fatto che le persone coinvolte nel  procedimento  di  prevenzione
non avessero la possibilita'  di  sollecitare  una  pubblica  udienza
davanti alle sezioni specializzate dei tribunali  e  delle  corti  di
appello. 
    La  Corte  costituzionale  ha  anche  rilevato   che   la   norma
internazionale convenzionale, cosi' come interpretata dalla Corte  di
Strasburgo, non puo' ritenersi in contrasto con le tutele offerte  in
materia dalla  Costituzione  italiana.  L'assenza  di  uno  specifico
richiamo  non  scalfisce,  infatti,  il  valore  costituzionale   del
principio di pubblicita' delle udienze giudiziarie: «principio che  -
consacrato  anche  in  altri  strumenti  internazionali,  quale,   in
particolare, il Patto internazionale di New York relativo ai  diritti
civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo  con
legge 25 ottobre 1977, n.  881  (art.  14)  -  trova  oggi  ulteriore
conferma  nell'art.  47,  paragrafo  2,  della  Carta   dei   diritti
fondamentali  dell'Unione  europea  (cosiddetta  Carta   di   Nizza),
recepita dall'art. 6, paragrafo 1, del Trattato sull'Unione  europea,
nella  versione  consolidata  derivante  dalle  modifiche   ad   esso
apportate dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ed entrata  in
vigore il 1° dicembre 2009». La stessa giurisprudenza costituzionale,
d'altro canto, ha avuto modo di sottolineare in piu'  occasioni  come
la pubblicita' del giudizio, specie  di  quello  penale,  costituisca
«principio connaturato ad un ordinamento  democratico  fondato  sulla
sovranita' popolare, cui  deve  conformarsi  l'amministrazione  della
giustizia, la quale - in forza dell'art. 101, primo  comma,  Cost.  -
trova in quella sovranita' la sua legittimazione». 
    Con la successiva sentenza n. 80 del 2011 - prosegue il giudice a
quo - la Corte costituzionale ha dichiarato  invece  non  fondata  la
questione di legittimita' costituzionale dei medesimi artt.  4  della
legge n. 1423 del 1956 e 2-ter della legge n.  575  del  1965,  nella
parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il ricorso per
cassazione in materia di misure  di  prevenzione  venga  trattato  in
udienza pubblica. Nell'occasione, la  Corte  costituzionale  -  sulla
base di una disamina della giurisprudenza della Corte di Strasburgo -
ha   rilevato   come   il   giudizio   legittimita',   per   le   sue
caratteristiche, e segnatamente  per  il  fatto  di  essere  dedicato
«esclusivamente alla trattazione di questioni di diritto»,  fuoriesca
dalla platea dei momenti di esercizio della giurisdizione in  cui  e'
necessaria la garanzia della pubblicita' dell'udienza.  Infatti,  «la
valenza  del  controllo  immediato  del  quisque  de   populo   sullo
svolgimento delle attivita' processuali, reso  possibile  dal  libero
accesso all'aula di udienza  [...]  si  apprezza  [...],  secondo  un
classico, risalente ed acquisito principio, in modo specifico  quando
il   giudice   sia   chiamato   ad   assumere   prove,   specialmente
orali-rappresentative, e comunque ad accertare o  ricostruire  fatti;
mentre si attenua grandemente allorche' al giudice  competa  soltanto
risolvere questioni interpretative». 
    1.3.-  Al  riguardo,  le  Sezioni  unite   ritengono   pienamente
condivisibile la conclusione per cui la pubblicita' delle udienze non
rappresenta,  in  riferimento  al  giudizio   di   legittimita',   un
corollario  indefettibile  della  norma  convenzionale   considerata,
quantomeno in  rapporto  ai  procedimenti  speciali  che  vengono  in
rilievo. A conferma di cio' starebbe anche la considerazione - svolta
dalla stessa sentenza n. 80 del 2011 - che ove si sia verificata  una
violazione dell'art. 6, paragrafo 1, della CEDU nei gradi di  merito,
l'eventuale  trattazione  del  ricorso  per  cassazione  in   udienza
pubblica non varrebbe comunque a sanarla.  Come  precisato,  infatti,
dalla  Corte  europea,  lo  svolgimento  pubblico  del  giudizio   di
impugnazione che sia a cognizione limitata - come nel caso in cui  il
sindacato risulti circoscritto  ai  soli  motivi  di  diritto  -  non
compensa la mancanza di pubblicita' nel giudizio anteriore,  «proprio
perche' sfuggono all'esame del giudice di legittimita' gli aspetti in
rapporto ai quali l'esigenza di pubblicita'  delle  udienze  e'  piu'
avvertita, quali  l'assunzione  delle  prove,  l'esame  dei  fatti  e
l'apprezzamento della proporzionalita' tra fatto e sanzione». 
    Di  conseguenza,  la  circostanza  che  il  procedimento  per  la
riparazione dell'ingiusta detenzione si svolga, in sede  di  giudizio
di  legittimita',  nelle  forme  della  trattazione   camerale   "non
partecipata", e dunque in assenza del  pubblico,  non  contrasterebbe
ne' con il principio dettato dall'art. 6, paragrafo 1, della  CEDU  e
dalle fonti internazionali e sovranazionali che sanciscono una regola
consimile, ne' con il precetto della pubblicita' dei  giudizi  insito
nella tavola dei valori tracciati dalla Costituzione. 
    A diversa conclusione dovrebbe pervenirsi con riguardo  al  grado
di merito che caratterizza il procedimento di cui si discute.  L'art.
315,  comma  3,  cod.  proc.  pen.  stabilisce,  infatti,   che   nel
procedimento  per  la   riparazione   dell'ingiusta   detenzione   si
applicano,  in  quanto  compatibili,  le  norme   previste   per   la
riparazione dell'errore giudiziario. Le forme del  relativo  giudizio
sono, pertanto, quelle descritte dall'art. 646, comma 1,  cod.  proc.
pen., il quale  richiama,  a  sua  volta,  il  generale  modello  del
procedimento in camera di consiglio, disciplinato dall'art.  127  del
codice di rito: vale a dire, la trattazione camerale "partecipata" in
assenza del pubblico. Di qui l'evidente frizione del  modello  con  i
principi enunciati dalla Corte di Strasburgo, nonche' con  lo  stesso
principio del «giusto processo» stabilito dall'art. 111, primo comma,
Cost. 
    Le  Sezioni  unite  ritengono,  pertanto,  di   dover   sollevare
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 315, comma  3,  in
relazione all'art. 646, comma 1, cod. proc. pen., in termini analoghi
a   quelli   che   hanno   dato   luogo   alla    dichiarazione    di
incostituzionalita' pronunciata dalla sentenza n. 93 del 2010: ossia,
nella parte in cui le disposizioni censurate non consentono  che,  su
istanza  degli  interessati,  il  procedimento  per  la   riparazione
dell'ingiusta detenzione si svolga,  davanti  alla  corte  d'appello,
nelle forme dell'udienza pubblica. 
    1.4.- Ad avviso del Collegio  rimettente,  la  questione  sarebbe
rilevante nel giudizio a  quo,  ancorche'  il  ricorrente  non  abbia
formulato alcuna richiesta di trattazione pubblica del  procedimento,
tanto nei gradi di merito - primo grado e giudizio di rinvio - che in
sede  di  legittimita',  ne'  abbia  sollevato  alcuna  eccezione  di
legittimita'   costituzionale   delle   norme   che   inibiscono   la
proposizione di una simile richiesta. 
    Al riguardo, il giudice  a  quo  si  dichiara  consapevole  della
contraria affermazione rinvenibile sul punto nella ricordata sentenza
n. 80  del  2011.  Detta  sentenza  ha  dichiarato  inammissibile  la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4 della  legge  n.
1423 del 1956 e dell'art. 2-ter della legge n. 575  del  1965,  nella
parte  in  cui  non  consentono  che,  a  richiesta  di   parte,   il
procedimento di prevenzione  si  svolga,  nei  gradi  di  merito,  in
udienza pubblica: nelle more, infatti,  la  normativa  censurata  era
gia' stata dichiarata costituzionalmente illegittima, in  parte  qua,
dalla sentenza n. 93 del 2010, sicche' la questione restava priva  di
oggetto. Pur ritenendo «assorbente» tale profilo di inammissibilita',
la Corte costituzionale non ha mancato di rilevare come, a fianco  di
esso, ne fosse ravvisabile anche un altro, legato proprio al «difetto
di rilevanza della questione  nel  giudizio  a  quo,  non  risultando
dall'ordinanza  di  rimessione  che  l'interessato,  ricorrente   per
cassazione, [avesse]  formulato  nei  precedenti  gradi  di  giudizio
alcuna istanza di trattazione in forma pubblica del procedimento». 
    Ad avviso  delle  Sezioni  unite,  l'affermazione  ora  ricordata
rifletterebbe l'orientamento piu' volte espresso dalla giurisprudenza
di legittimita', circa gli effetti delle sentenze  di  illegittimita'
costituzionale di norme processuali  nei  procedimenti  in  corso  di
trattazione.  In  base  a  detto  indirizzo,   la   declaratoria   di
incostituzionalita' - cui deve annettersi efficacia invalidante e non
gia' abrogativa - spiega effetti non solo per  il  futuro,  ma  anche
retroattivamente, in relazione a fatti e  rapporti  instauratisi  nel
periodo in cui la norma incostituzionale era vigente, fatta eccezione
per le situazioni  giuridiche  ormai  «esaurite»,  non  suscettibili,
cioe', di essere rimosse  o  modificate,  quali  quelle  coperte  dal
giudicato  o  in  rapporto  alle  quali  operino  le  sanzioni  della
decadenza o della preclusione processuale. 
    Una simile prospettiva si giustificherebbe, tuttavia,  solo  «nel
quadro di un raffronto, per cosi'  dire  "nazionale",  tra  la  fonte
normativa ed il parametro  costituzionale  di  riferimento»,  ma  non
terrebbe conto «del ben diverso assetto che quello scrutinio  e  quel
raffronto ricevono ove venga in discorso - quale normativa interposta
- un principio di natura convenzionale».  La  pronuncia  della  Corte
europea che - come nel caso Lorenzetti - censuri non gia' un concreto
«difetto» dello specifico processo, ma una carenza «strutturale»  del
quadro  normativo  "domestico",  sarebbe,  infatti,  dotata  di  «una
efficacia   espansiva   "esterna"   rispetto   al   caso   giudicato,
riverberandosi quale canone di legittimita' di ogni processo in corso
di trattazione  che  risultasse  attinto  da  quel  difetto  di  tipo
"strutturale"». 
    In forza dell'art. 46  della  CEDU,  gli  Stati  contraenti  sono
tenuti a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte
europea nelle controversie delle quali sono parti.  Quando  la  Corte
constata una violazione, lo Stato  convenuto  ha,  quindi,  l'obbligo
giuridico non soltanto di versare agli interessati le somme assegnate
a titolo di equa soddisfazione ai sensi dell'art. 41 della  CEDU,  ma
anche di scegliere, sotto il controllo del Comitato dei ministri,  le
misure generali o  individuali  per  porre  termine  alla  violazione
constatata e cancellarne, per quanto possibile, le conseguenze.  Tale
obbligo di «cancellazione delle conseguenze»  non  potrebbe  rimanere
condizionato da istituti destinati a regolare  l'ordine  processuale,
quali  decadenze  e  preclusioni,  presupponendo  tale  istituti  «un
processo secundum ius», tanto alla luce dei valori costituzionali che
della normativa convenzionale. 
    La rilevanza della questione di legittimita' costituzionale volta
a  rimuovere  gli  effetti  di  una  disposizione   processuale   che
«contamini la giustizia del processo, secondo  i  dicta  della  Corte
europea», non potrebbe essere dunque misurata «sulla falsariga  degli
effetti che scaturiscono da categorie  endoprocessuali  che  regolano
l'ordo  iudiciorum,  giacche',  ove  cosi'  fosse,  il   processo   -
strutturalmente "ingiusto" - sarebbe destinato  a  concludersi  senza
alcuna  possibilita'  di  "purgazione"»:  con  il  risultato  che  la
persona, il cui diritto al «giusto processo»  e'  stato  compromesso,
non  avrebbe  altra  via  che  quella  di  ricorrere  alla  Corte  di
Strasburgo  (con  effetti  ampliativi   del   relativo   contenzioso,
ampiamente censurati dalla Corte stessa). 
    L'obiettivo di  garantire  la  compatibilita'  del  processo  coi
principi   convenzionali   sarebbe,   al    contrario,    agevolmente
conseguibile tramite l'incidente di costituzionalita'. Ove  le  norme
censurate fossero dichiarate costituzionalmente illegittime nei sensi
auspicati, l'ordinanza impugnata dovrebbe essere, infatti,  annullata
con rinvio, onde consentire alla parte privata di formulare eventuale
richiesta di trattazione in udienza pubblica nell'ambito del giudizio
di rinvio davanti alla corte d'appello. 
    1.5.-  Quanto,  poi,  alla  non  manifesta   infondatezza   della
questione, il giudice a quo rammenta come, secondo  la  piu'  recente
giurisprudenza costituzionale, le norme della CEDU,  nel  significato
loro  attribuito  dalla  Corte   europea   dei   diritti   dell'uomo,
costituiscano «norme interposte» ai fini della verifica del  rispetto
dell'art. 117, primo comma, Cost.,  nella  parte  in  cui  impone  la
conformazione della legislazione interna ai vincoli  derivanti  dagli
obblighi internazionali. Con  la  conseguenza  che,  ove  il  giudice
comune  ravvisi  un   contrasto,   non   componibile   per   via   di
interpretazione,  tra  la   norma   nazionale   e   la   disposizione
convenzionale, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, egli  non
puo' disapplicare la norma interna, ma deve sottoporla a scrutinio di
costituzionalita' in rapporto al parametro dianzi indicato. 
    Proprio tale ipotesi ricorrerebbe nel caso  in  esame,  a  fronte
della sentenza della Corte europea sul caso Lorenzetti, in precedenza
ricordata. 
    Oltre  all'art.  117,  primo  comma,  Cost.,   sarebbe   violato,
peraltro, anche l'art. 111, primo comma, Cost. I principi  espressivi
del «giusto processo regolato dalla legge» - cui e' riferimento nella
norma costituzionale - non potrebbero ritenersi, infatti,  diversi  o
piu'  circoscritti,  sul  versante  considerato,  rispetto  a  quelli
sanciti dall'art. 6 della CEDU e dalle altre norme sovranazionali  in
precedenza ricordate, che a  loro  volta  riflettono  le  consolidate
tradizioni  costituzionali  dei  Paesi   democratici.   Come   emerge
inequivocamente dai lavori parlamentari,  la  riforma  attuata  dalla
legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi
del giusto processo nell'articolo 111 della Costituzione)  ha  inteso
propriamente recepire nel testo costituzionale il concetto di «giusto
processo» elaborato dalla giurisprudenza di Strasburgo a margine  del
corrispondente principio sancito dalla Convenzione. 
    In questa prospettiva, il «giusto processo» destinato ad  attuare
la giurisdizione nazionale non potrebbe non prevedere la  pubblicita'
dell'udienza come regola generale, derogabile  solo  in  presenza  di
peculiari  connotazioni  dei  singoli  modelli   procedimentali   che
escludano la necessita' del controllo del pubblico: connotazioni  non
riscontrabili, per quanto detto, con riguardo alla fase di merito del
procedimento per la riparazione dell'ingiusta detenzione. 
    A questo riguardo, occorrerebbe d'altra parte considerare  che  -
secondo quanto sottolineato  dalla  giurisprudenza  costituzionale  -
l'art. 314 cod. proc. pen. reca una disciplina concretizzatrice della
disposizione contenuta nell'ultimo comma dell'art. 24 Cost.,  ove  si
enuncia un principio di altissimo valore etico e  sociale,  correlato
al piu' generale principio di  salvaguardia  dei  diritti  involabili
dell'uomo (art. 2 Cost.): disciplina il  cui  risalto  costituzionale
non potrebbe ritenersi sminuito dalla circostanza che la  riparazione
per l'ingiusta detenzione assuma carattere patrimoniale, monetizzando
il  sacrificio  di  una  liberta'  inviolabile   in   difetto   della
possibilita' di far ricorso a strumenti capaci di evitare o  limitare
il danno, ovvero di reintegrarlo in forma specifica. 
    Proprio perche' finalizzato a salvaguardare diritti  fondamentali
della persona, secondo una prospettiva risarcitoria cui non  appaiono
estranei profili di riparazione  anche  morale,  il  procedimento  in
questione  presenterebbe,  dunque,  appieno  i  connotati  idonei   a
giustificare una richiesta di trattazione pubblica. 
    2.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  il  quale  ha  chiesto  che  la  questione   sia   dichiarata
inammissibile o infondata. 
    Ad  avviso  della  difesa  dello  Stato,  la  questione   sarebbe
inammissibile  per  la   ragione   gia'   evidenziata   dalla   Corte
costituzionale  con  la  sentenza  n.  80  del  2011,   in   rapporto
all'omologa questione di legittimita'  costituzionale  relativa  alla
mancata previsione della possibilita' che, a richiesta di  parte,  il
procedimento di prevenzione si svolga, davanti al  tribunale  e  alla
corte d'appello, in udienza pubblica: vale  a  dire,  per  non  avere
l'interessato, ricorrente per cassazione, formulato alcuna istanza di
trattazione  pubblica  del  procedimento  nei  precedenti  gradi   di
giudizio. 
    Quanto  al  merito,  l'Avvocatura  dello  Stato  rileva  che   il
principio convenzionale di  pubblicita'  delle  udienze  trova  delle
espresse deroghe, richiamate dalla stessa Corte europea  dei  diritti
dell'uomo  nella  decisione  evocata  dall'ordinanza  di  rimessione:
deroghe che si attaglierebbero alla fattispecie in esame. 
    Il  procedimento  in  camera  di  consiglio  davanti  alla  corte
d'appello garantirebbe, infatti, la piena partecipazione del soggetto
interessato, consentendogli di fornire  il  proprio  contributo  alla
decisione, anche a mezzo del  difensore.  Non  si  potrebbe,  d'altro
canto, trascurare la circostanza che il procedimento  di  riparazione
per l'ingiusta detenzione, sebbene regolato dal codice  di  procedura
penale,  ha  natura  prettamente  civilistica.   Detto   procedimento
permette, inoltre, al giudice di esercitare poteri  istruttori  anche
officiosi,  in  particolare   sul   versante   dell'acquisizione   di
documenti, rendendo cosi' manifesto che le garanzie sono «piene e del
tutto  puntuali»  anche  nel  caso   in   cui   l'interessato   resti
parzialmente inerte. 
    L'assunto in forza del quale andrebbe concessa la possibilita' di
sollecitare un controllo del pubblico cederebbe, quindi, di fronte  a
siffatte considerazioni, posto  che  tutte  le  questioni  potrebbero
essere risolte tramite il semplice esame del fascicolo processuale  e
in base alle osservazioni delle parti, senza necessita' di  procedere
ad acquisizioni probatorie orali. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Le Sezioni unite della Corte  di  cassazione  dubitano  della
legittimita' costituzionale dell'articolo 315, comma 3, in  relazione
all'articolo 646, comma 1, del  codice  di  procedura  penale,  nella
parte in cui non consentono che, su  istanza  degli  interessati,  il
procedimento per la riparazione dell'ingiusta detenzione  si  svolga,
davanti alla corte d'appello, nelle forme dell'udienza  pubblica.  In
base alle norme denunciate, infatti, il procedimento in questione  e'
trattato in camera di consiglio e, dunque,  «senza  la  presenza  del
pubblico» (art. 127, comma 6, cod. proc. pen.). 
    Ad avviso della Corte rimettente, le  disposizioni  sottoposte  a
scrutinio violerebbero l'art. 117, primo comma,  della  Costituzione,
ponendosi in contrasto con il principio di pubblicita' delle  udienze
sancito dall'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con
legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora in  avanti:  «CEDU»),  cosi'  come
interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale, con
la sentenza 10 aprile 2012, Lorenzetti  contro  Italia,  ha  ritenuto
«essenziale», ai fini del rispetto di detto principio, «che i singoli
coinvolti in una procedura  di  riparazione  per  custodia  cautelare
"ingiusta"  si  vedano  quanto  meno  offrire  la   possibilita'   di
richiedere una udienza pubblica innanzi alla corte di appello». 
    Le medesime  disposizioni  violerebbero,  altresi',  l'art.  111,
primo  comma,  Cost.,  per  contrasto  con  la  regola  del   «giusto
processo», la quale - pur in assenza  di  esplicita  menzione  -  non
potrebbe ritenersi sorretta, per cio' che  attiene  alla  pubblicita'
delle udienze, da principi diversi  o  piu'  circoscritti  di  quelli
desumibili dalla corrispondente norma convenzionale. 
    2.- La questione e' inammissibile per difetto di rilevanza. 
    Questa Corte si e' gia' pronunciata in tal senso,  in  situazione
parzialmente analoga, con la sentenza n. 80 del 2011. 
    In quell'occasione, una Sezione singola della Corte di cassazione
aveva  denunciato   l'illegittimita'   costituzionale   delle   norme
regolative del procedimento in materia di applicazione  delle  misure
di prevenzione, nella parte  in  cui  non  riconoscevano  alla  parte
interessata  la  facolta'  di  chiederne  la  trattazione  in   forma
pubblica. Anche nella circostanza, era stata  dedotta  la  violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con il principio  di
pubblicita' delle udienze di cui all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU,
nella interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, la quale,  in
plurime pronunce,  aveva  affermato  che  le  persone  coinvolte  nei
procedimenti  di  prevenzione  (parimenti  soggetti   a   trattazione
camerale) debbono godere almeno della possibilita' di sollecitare una
udienza pubblica davanti ai tribunali e alle corti d'appello. 
    Nonostante tale riferimento limitativo, la  questione  era  stata
sollevata dal giudice a quo non solo in relazione ai gradi di  merito
del procedimento, ma anche a quello di legittimita'. Con riguardo  ai
primi,  la  questione   e'   stata   dichiarata   inammissibile   per
sopravvenuta carenza di  oggetto,  giacche',  nelle  more,  le  norme
denunciate   erano   gia'   state    dichiarate    costituzionalmente
illegittime, in parte qua, con la sentenza n. 93 del 2010.  La  Corte
ha  rilevato,  tuttavia,  come,  a  fianco   di   tale   profilo   di
inammissibilita',  pur  «assorbente»,  ve  ne  fosse  un  altro:  per
l'appunto,  il  difetto  di  rilevanza,   connesso   al   fatto   che
l'interessato,  ricorrente  per  cassazione,   non   risultava   aver
formulato, nei  precedenti  gradi  di  giudizio,  alcuna  istanza  di
trattazione in forma pubblica del procedimento. 
    La  suddetta  istanza  di  trattazione  pubblica  era  stata,  in
effetti, proposta per la prima volta dal difensore dell'interessato -
con contestuale eccezione di violazione del  principio  convenzionale
di pubblicita' - solo nell'ambito  del  giudizio  di  cassazione.  La
Corte  ha  proceduto,  pertanto,  all'esame  nel  merito  della  sola
questione relativa  al  difetto  di  pubblicita'  di  tale  giudizio,
dichiarandola  infondata  per  le  ragioni   ricordate   nell'odierna
ordinanza di rimessione. 
    3.- La  situazione  oggi  in  esame  va  oltre  tale  precedente,
risultando piu' radicale. 
    Nella specie, infatti, la Corte di cassazione ha  gia'  annullato
con rinvio una precedente ordinanza della Corte d'appello di  Catania
e si trova attualmente a dover pronunciare sull'ulteriore ricorso per
cassazione proposto  contro  la  nuova  ordinanza  di  rigetto  della
domanda di riparazione, adottata dalla medesima Corte d'appello quale
giudice del rinvio. 
    Secondo  quanto  espressamente  si   deduce   nell'ordinanza   di
rimessione, peraltro, la parte privata non solo non  ha  mai  chiesto
l'udienza pubblica nei gradi di merito (prima istanza e  giudizio  di
rinvio), ma neppure ha chiesto  o  eccepito  alcunche'  sul  punto  -
diversamente che nel caso esaminato dalla citata sentenza n.  80  del
2011 - nelle due occasioni  in  cui  il  procedimento  e'  transitato
innanzi al giudice di legittimita'.  Istanze  o  eccezioni  del  tipo
considerato non risultano essere state formulate - per quanto  consta
dall'ordinanza di  rimessione  -  addirittura  nemmeno  dopo  che  il
secondo ricorso per cassazione dell'interessato e' stato rimesso alle
Sezioni unite, allo specifico scopo di stabilire come i  dicta  della
Corte di Strasburgo, riguardo  alla  pubblicita'  delle  udienze  nel
procedimento per la riparazione dell'ingiusta detenzione, incidessero
sul giudizio principale. 
    4.- Gli argomenti sulla cui base il  Collegio  rimettente  reputa
superabile l'evidenziato profilo di inammissibilita', se pure sottili
e suggestivi, non possono essere condivisi. 
    Ad avviso  delle  Sezioni  unite,  la  posizione  espressa  dalla
sentenza n. 80 del  2011  rispecchierebbe  il  corrente  orientamento
giurisprudenziale  riguardo  agli  effetti  della  dichiarazione   di
illegittimita' costituzionale di norme processuali: orientamento alla
luce del quale detta dichiarazione incide anche su fatti  e  rapporti
anteriori, ma con salvezza delle  cosiddette  situazioni  "esaurite",
quali  quelle  "coperte"  dal  giudicato,  ovvero  da  preclusioni  o
decadenze. 
    Tale indirizzo si giustificherebbe, peraltro, solo nel quadro  di
un raffronto puramente "interno" all'ordinamento nazionale, tra norma
censurata e  parametro  costituzionale.  La  prospettiva  cambierebbe
quando venga in gioco la contrarieta' a un  parametro  convenzionale.
La  pronuncia  della  Corte  di  Strasburgo,  che  -  come  nel  caso
Lorenzetti - censuri non un concreto «difetto» del singolo  processo,
ma una carenza dipendente dalla  disciplina  normativa  del  relativo
modulo procedimentale (dunque, «strutturale»), avrebbe, infatti,  una
efficacia espansiva "esterna" rispetto al caso considerato. 
    Il generale vincolo di adeguamento degli  Stati  contraenti  alle
sentenze definitive della Corte europea (art. 46 della CEDU)  farebbe
allora scattare, in rapporto a tutti i processi attinti dal  rilevato
difetto strutturale,  l'obbligo  di  porre  termine  alla  violazione
contestata e di cancellarne, per quanto  possibile,  le  conseguenze.
Tale  obbligo  di  "cancellazione  delle  conseguenze"  non  potrebbe
rimanere  condizionato  da  istituti  volti   a   regolare   l'ordine
processuale, quali  decadenze  e  preclusioni.  Se  cosi'  fosse,  il
processo in corso, "strutturalmente ingiusto",  sarebbe  destinato  a
concludersi senza alcuna possibilita' di  «purgazione»  dell'elemento
di "ingiustizia": col risultato che l'interessato non  avrebbe  altra
via che quella di ricorrere alla Corte  di  Strasburgo,  con  effetti
ampliativi del relativo contenzioso. 
    Tale  risultato  sarebbe,  per  converso,  agevolmente  evitabile
tramite  la   proposizione   di   una   questione   di   legittimita'
costituzionale che conduca alla  rimozione  della  norma  legislativa
interna, generativa  dell'elemento  di  "ingiustizia".  Nel  caso  di
specie,  l'invocata  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale
consentirebbe (sempre secondo il Collegio  rimettente)  di  annullare
con rinvio il provvedimento impugnato, dando modo cosi' al ricorrente
di formulare «eventuale» richiesta di udienza pubblica  nel  giudizio
di rinvio davanti alla Corte d'appello. 
    5.- In direzione contraria, va peraltro rilevato che la  sentenza
n.  80  del  2011   -   nell'evidenziare   l'anzidetto   profilo   di
inammissibilita' della questione sottoposta al suo vaglio  -  non  ha
fatto, in realta', applicazione dei principi ricordati dall'ordinanza
di rimessione in tema di limiti alla  retroattivita'  delle  sentenze
dichiarative dell'illegittimita' costituzionale di norme processuali.
Essa si e' limitata a ribadire, sullo specifico tema, un postulato di
evidenza logica, gia' largamente utilizzato nella  giurisprudenza  di
questa Corte: e, cioe', che una questione finalizzata  a  riconoscere
una  determinata  facolta'  a  una  parte  processuale  e'  priva  di
rilevanza attuale se, nel giudizio a quo, quella  parte  non  ha  mai
manifestato la volonta' di esercitare la facolta' in discussione  (ex
plurimis, con particolare riguardo a questioni volte ad  ampliare  le
possibilita' di accesso dell'imputato a riti  alternativi,  ordinanze
n. 55 del 2010, n. 69 del 2008, n. 129 del 2003 e n. 584 del 2000). 
    In assenza di  tale  manifestazione  di  volonta',  la  rilevanza
dell'odierna questione  risulta,  in  effetti,  meramente  ipotetica.
L'applicabilita', nel  giudizio  principale,  della  "norma"  che  le
Sezioni unite  vorrebbero  vedere  introdotta  tramite  una  sentenza
"additivo-manipolativa"  di   questa   Corte   resterebbe,   infatti,
subordinata ad un accadimento non solo futuro,  ma  anche  del  tutto
incerto: e, cioe', alla circostanza che, a seguito di  una  pronuncia
di  accoglimento,  l'interessato  si  avvalga  effettivamente   della
facolta' attribuitagli (in termini analoghi,  ordinanza  n.  129  del
2003). La stessa ordinanza di rimessione, del resto,  qualifica  come
solo «eventuale» la richiesta di udienza pubblica  che  l'interessato
potrebbe  avanzare  nel  caso  di   annullamento   con   rinvio   del
provvedimento impugnato. 
    La conclusione vale a maggior ragione nel  caso  di  specie,  nel
quale,  come  dianzi  evidenziato,  il  ricorrente  -  omettendo   di
formulare qualsiasi richiesta o eccezione sul punto, persino dopo che
il suo ricorso e' stato rimesso alle  Sezioni  unite  allo  specifico
fine di stabilire in qual modo la  sentenza  Lorenzetti  della  Corte
europea interferisse con il procedimento in corso  -  ha  chiaramente
dimostrato di non avere alcun concreto interesse allo svolgimento  in
forma pubblica del giudizio. 
    Tale  circostanza  esclude,   a   prescindere   da   ogni   altra
considerazione,  che  possa  ravvisarsi,  nel  giudizio  a  quo,   la
prospettata  esigenza  della   «purgazione»   di   un   elemento   di
"ingiustizia" del processo in base  a  quanto  rilevato  dalla  Corte
europea e che, correlativamente, venga  in  considerazione  l'evocato
obbligo di adeguamento previsto dall'art. 46, paragrafo 1, della CEDU
(obbligo rispetto al quale non e'  comunque  pertinente  la  denuncia
della violazione delle regole del «giusto processo», di cui  all'art.
111, primo comma, Cost., che  le  Sezioni  unite  reputano  parimenti
lese, a fianco del precetto dell'art. 117, primo comma, Cost.).