ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato
sorto a seguito dell'approvazione dell'art. 18, comma 5, del  decreto
legislativo 19 agosto 2016, n. 177, recante «Disposizioni in  materia
di razionalizzazione delle funzioni di  polizia  e  assorbimento  del
Corpo forestale dello Stato,  ai  sensi  dell'articolo  8,  comma  1,
lettera a), della  legge  7  agosto  2015,  n.  124,  in  materia  di
riorganizzazione  delle  amministrazioni  pubbliche»,  promosso   dal
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale  ordinario  di  Bari
nei confronti del «Presidente del Consiglio dei ministri» con ricorso
notificato il 18-22 gennaio 2018, depositato  in  cancelleria  il  1°
febbraio 2018, iscritto al n. 3 del  registro  conflitti  tra  poteri
dello  Stato  2017  e  pubblicato  nella  Gazzetta  Ufficiale   della
Repubblica n. 8,  prima  serie  speciale,  dell'anno  2018,  fase  di
merito. 
    Visto l'atto di costituzione del  Governo  della  Repubblica,  in
persona del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  6  novembre  2018  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon; 
    uditi gli avvocati Alfonso Celotto e Giorgio  Costantino  per  il
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Bari  e
l'avvocato  dello  Stato  Leonello  Mariani  per  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario
di Bari, con ricorso depositato il 25 luglio 2017 ed iscritto al n. 3
del registro conflitti tra  poteri  dello  Stato  2017,  ha  promosso
conflitto di attribuzione tra poteri dello  Stato  -  per  violazione
degli artt. 76, 109 e 112 della  Costituzione  -  nei  confronti  del
«Presidente del Consiglio dei ministri», in  relazione  all'art.  18,
comma 5, del decreto legislativo 19  agosto  2016,  n.  177,  recante
«Disposizioni in  materia  di  razionalizzazione  delle  funzioni  di
polizia e assorbimento del Corpo  forestale  dello  Stato,  ai  sensi
dell'articolo 8, comma 1, lettera a), della legge 7 agosto  2015,  n.
124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche». 
    1.1.- Il ricorrente ricorda  che  la  disposizione  asseritamente
lesiva delle proprie attribuzioni  testualmente  prevede:  «[...]  al
fine di rafforzare  gli  interventi  di  razionalizzazione  volti  ad
evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace  e
omogeneo coordinamento informativo, il capo  della  polizia-direttore
generale della pubblica sicurezza e i vertici delle  altre  Forze  di
polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di
ciascun presidio di polizia  interessato,  trasmettono  alla  propria
scala gerarchica le notizie relative all'inoltro delle informative di
reato all'autorita'  giudiziaria,  indipendentemente  dagli  obblighi
prescritti dalle norme del codice di procedura penale». 
    Tale  disposizione,  a  suo   giudizio,   avrebbe   «parzialmente
abrogato, in parte qua, il segreto investigativo  disposto  dall'art.
329 cod. proc. pen.», la violazione del quale e' sanzionata dall'art.
326 del codice penale. 
    Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale  di  Bari  in
particolare rileva come «l'intervento normativo dell'Esecutivo  abbia
leso prerogative di  rango  costituzionale  pertinenti  all'Autorita'
Giudiziaria   requirente,   con   riferimento   al    principio    di
obbligatorieta' dell'azione penale, ex art. 112 Cost., cui il segreto
investigativo  strettamente  inerisce,  nonche'  in  relazione   alla
statuizione  della  diretta  dipendenza  della  polizia   giudiziaria
dall'autorita' giudiziaria affermata dall'art. 109» Cost. 
    1.2.- Sulla scorta di queste premesse, il ricorrente chiede  alla
Corte costituzionale di dichiarare ammissibile il conflitto. 
    1.2.1.- Al fine di dimostrare, anzitutto, il proprio interesse  a
promuovere il conflitto  di  attribuzione  tra  poteri  dello  Stato,
evidenzia l'ambito applicativo «di estesa  diffusione»  della  norma,
«destinata a trovare indiscriminata applicazione nella totalita'  dei
casi di inoltro di notizie di reato (circa  50.000  nuove  in  totale
ogni anno per questa Procura, in grandissima  percentuale  denunciate
proprio dalla polizia giudiziaria!) ed informative successive». 
    1.2.2.-  Ritenuta   pacifica   la   legittimazione   attiva   del
Procuratore della Repubblica e  quella  passiva  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri «allorquando, come nella specie, si denunci il
conflitto di potere con riferimento  ad  un  atto  del  Governo  (per
tutte: Corte cost., sent. n. 420/1995)», il ricorrente -  richiamando
la giurisprudenza della  Corte  costituzionale  (in  particolare,  le
sentenze n. 221 del 2002 e n. 457  del  1999)  -  sottolinea  che  il
conflitto sarebbe ammissibile anche se promosso per l'annullamento di
una fonte primaria,  in  quanto  si  tratterebbe  dell'unico  rimedio
esperibile. A suo avviso, «la normativa impugnata, con la  previsione
della deroga in parte qua alle disposizioni del codice di rito penale
che vincolano al segreto investigativo, non consente  l'instaurazione
di  un  giudizio,  nell'ambito  del  quale  sia  possibile  sollevare
questione   incidentale   di   costituzionalita'».   In   base   alla
giurisprudenza costituzionale (vengono richiamate le ordinanze n.  16
del 2013 e  n.  343  del  2003),  il  conflitto  di  attribuzione  in
relazione ad una norma «recata da una legge o da un atto avente forza
di legge» risulterebbe ammissibile tutte le  volte  in  cui  da  essa
«possono derivare lesioni dirette  dell'ordine  costituzionale  delle
competenze», ad eccezione dei casi in  cui  esista  un  giudizio  nel
quale la norma debba  trovare  applicazione  e  quindi  possa  essere
sollevata la questione incidentale sulla legge. 
    1.3.- Il ricorrente espone,  quindi,  le  ragioni  per  le  quali
ritiene che  la  disposizione  impugnata  sia  lesiva  delle  proprie
attribuzioni costituzionali, riportando ampi stralci  della  delibera
adottata dal Consiglio superiore della magistratura nella seduta  del
14 giugno 2017 (recte: 15 giugno 2017), recante «Proposta ex art. 10,
comma  2,  legge  n.  195  del  1958  al  Ministro  della   giustizia
finalizzata ad una modifica normativa  dell'art.  18,  comma  5,  del
decreto legislativo 19 agosto 2016,  n.  177».  A  tale  delibera  il
Procuratore  della  Repubblica  presso  il  Tribunale  di   Bari   ha
dichiarato di aderire integralmente. 
    1.3.1.- Il  ricorrente  afferma  anzitutto  che  la  disposizione
impugnata sarebbe viziata da eccesso di delega, non trovando adeguata
copertura nella legge di delega e, in particolare, nell'art. 8, comma
1, lettera a), della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al  Governo
in materia di riorganizzazione delle amministrazioni  pubbliche),  il
quale  autorizzava  il  Governo   a   razionalizzare   e   potenziare
l'«efficacia delle funzioni di  polizia  anche  in  funzione  di  una
migliore   cooperazione   sul   territorio   al   fine   di   evitare
sovrapposizioni di competenze e di favorire la gestione associata dei
servizi  strumentali  [...]».  Tale  previsione  -  preordinata,   in
conformita' alla ratio ispiratrice dell'intera legge  di  delega,  ad
esigenze di semplificazione e razionalizzazione di uffici, servizi ed
impiego del personale - non sarebbe stata sufficiente a  giustificare
l'introduzione della disposizione oggetto del conflitto. 
    Il ricorrente  evidenzia,  inoltre,  che  non  vi  sarebbe  alcun
accenno, nei lavori parlamentari che hanno condotto  all'approvazione
della legge di delega, alla possibilita' di prevedere, a  carico  dei
responsabili  di  ciascun  presidio  di  polizia   giudiziaria,   una
comunicazione in via gerarchica di notizie relative all'inoltro delle
informative di  reato  all'autorita'  giudiziaria,  indipendentemente
dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale.
Tale disposizione trova, invece, origine dall'accoglimento, da  parte
del Governo, di una delle osservazioni avanzate  in  data  12  luglio
2016, in sede di parere sullo schema di  decreto  legislativo,  dalle
Commissioni I e IV della Camera dei deputati. Con decisione assunta a
maggioranza,  le  suddette  Commissioni   riunite   avevano   infatti
suggerito di estendere a tutte le Forze di polizia la  previsione  di
cui all'art. 237 del d.P.R. 15 marzo 2010, n. 90 (Testo  unico  delle
disposizioni regolamentari in  materia  di  ordinamento  militare,  a
norma dell'articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246). 
    1.3.2.- In secondo luogo, il ricorrente lamenta la violazione del
principio di obbligatorieta' dell'azione penale di cui  all'art.  112
Cost. 
    A suo avviso,  sussisterebbe  un  «nesso  strumentale»  tra  tale
principio e la direttiva della disponibilita' diretta  della  polizia
giudiziaria in favore dell'autorita' giudiziaria. 
    L'art. 112 Cost., infatti, garantirebbe l'indipendenza funzionale
del pubblico ministero da ogni altro potere e,  in  particolare,  dal
potere esecutivo, ma  il  principio  di  obbligatorieta'  dell'azione
penale  «potrebbe  essere  sostanzialmente   eluso   dalla   concreta
organizzazione della polizia giudiziaria»: a parere  del  ricorrente,
infatti, «chi gestisce  la  polizia  giudiziaria  puo'  condizionarne
l'iniziativa determinando un rafforzamento della sua  dipendenza  dal
potere esecutivo», in quanto gli organi di polizia giudiziaria, nelle
loro  diverse  articolazioni,  integrano  strutture   gerarchicamente
dipendenti dal Governo. 
    Altrettanto evidente sarebbe la  stretta  correlazione  esistente
tra azione penale obbligatoria e segretezza delle indagini, la deroga
alla quale  sarebbe  «in  concreto  foriera  di  rischi  per  l'esito
positivo delle investigazioni e, per cio'  stesso,  dell'effettivita'
ed efficacia dell'esercizio dell'azione penale», a tutela delle quali
sarebbero appunto posti, dal codice di procedura  penale,  «limiti  e
tempi precisi e rigorosi per la segretezza»:  tali  regole  sarebbero
«disinvoltamente» superate dalla disposizione oggetto  del  sollevato
conflitto,  «peraltro  a  beneficio  di  organi  dell'Amministrazione
neppure  dotati  della  connotazione  di  appartenenti  alla  polizia
giudiziaria»,  come  tali   privi   di   legittimazione   all'accesso
all'attivita' d'indagine. 
    1.3.3.- Il ricorrente  prospetta,  infine,  la  violazione  delle
prerogative costituzionali di cui all'art. 109 Cost. 
    Richiamando  alcune  pronunce  della  Corte  costituzionale   (in
particolare le sentenze n. 94  del  1963  e  n.  114  del  1968),  il
ricorrente  evidenzia   che   l'art.   109   Cost.,   nel   conferire
all'autorita' giudiziaria il potere di  disporre  direttamente  della
polizia giudiziaria, troverebbe la sua  piena  giustificazione  nelle
superiori esigenze della funzione requirente e  giudiziaria  e  nella
necessita' di garantire alla magistratura la piu' sicura  e  autonoma
disponibilita' dei  mezzi  d'indagine.  La  norma  costituzionale,  a
prescindere   dalle   sue   possibili   implicazioni   di   carattere
organizzativo, istituirebbe  un  rapporto  di  dipendenza  funzionale
della  polizia  giudiziaria  dall'autorita'  giudiziaria,  escludendo
interferenze di altri poteri nella condotta delle indagini,  in  modo
che la direzione di queste ultime  risulti  effettivamente  riservata
alla autonoma iniziativa dell'autorita' giudiziaria medesima. 
    La comunicazione in via gerarchica delle  informazioni,  prevista
dalla disposizione  oggetto  del  conflitto,  senza  alcun  filtro  o
controllo  del  pubblico  ministero  procedente,  a  beneficio,   fra
l'altro,  anche  di  soggetti  che  non  rivestono  la  qualifica  di
ufficiale di  polizia  giudiziaria  e  che,  per  la  loro  posizione
apicale, vedono particolarmente stretto  il  rapporto  di  dipendenza
organica dalle articolazioni del  potere  esecutivo,  non  appare  al
ricorrente in linea  con  le  prerogative  riconosciute  al  pubblico
ministero nell'esercizio dell'attivita' d'indagine. Tali informazioni
sarebbero infatti  portate  a  conoscenza  di  «soggetti  esterni  al
perimetro dell'indagine stessa, e non per determinazione autonoma del
magistrato (come pure puo' accadere per le necessita' organizzative o
logistiche delle indagini)», ma per vincolo di legge, con il  rischio
di possibili interferenze nell'esercizio dell'azione penale. 
    1.3.4.-   Il    ricorrente,    conclusivamente,    osserva    che
l'espressione, contenuta nella disposizione  impugnata,  «trasmettono
alla propria scala gerarchica le notizie relative  all'inoltro  delle
informative  di  reato»,  potrebbe  essere  intesa   in   senso   sia
restrittivo che estensivo. 
    Nel primo significato, si  tratterebbe  di  trasmettere,  non  le
informative, ma solo le «notizie relative» ad esse, ossia il fatto di
aver  inoltrato  all'autorita'  giudiziaria  «una  certa  informativa
riguardante un certo reato, il tutto ai soli fini del coordinamento».
Cosi' intesa, la disposizione non violerebbe alcun segreto  o  alcuna
prerogativa dell'autorita' giudiziaria, ma - ad avviso del ricorrente
- si rivelerebbe priva di senso, poiche' il coordinamento  presuppone
la  conoscenza  del  contenuto  e   degli   sviluppi   dell'attivita'
investigativa. 
    Nel secondo significato, la  disposizione  imporrebbe  invece  la
trasmissione  ai  superiori  gerarchici  delle  notizie  relative  al
contenuto ed agli sviluppi dell'attivita' investigativa,  proprio  ai
fini  dell'effettivo  coordinamento,  con   cio'   pregiudicando   le
attribuzioni dell'autorita' giudiziaria. 
    In ogni caso - osserva ancora il ricorrente - il  «coordinamento»
affidato alla «gerarchia» delle Forze di polizia si  risolverebbe  in
una interferenza nelle indagini condotte dal pubblico ministero, come
dimostrato dal fatto che l'ordinamento gia' affida tale compito  alla
sola autorita' giudiziaria (ad esempio, alle Direzioni,  nazionale  e
distrettuali, antimafia, e alle Procure presso la Corte di cassazione
e le corti d'appello), in virtu' di specifiche  norme  sui  conflitti
positivi e negativi di competenza, «al limite con  la  partecipazione
consultiva delle Forze dell'Ordine». 
    1.4.- Per le ragioni illustrate, il Procuratore della  Repubblica
presso il Tribunale di  Bari  chiede  che  la  Corte  costituzionale,
considerato ammissibile il conflitto, dichiari che «non  spettava  al
Presidente del Consiglio dei Ministri, poiche' incompetente alla luce
dei disposti degli articoli 112  e  109  Costituzione,  adottare,  in
violazione di dette norme della Carta costituzionale, le disposizioni
dell'art. 18, co. 5, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 177», nella  parte  in
cui prevedono:  «[...]  al  fine  di  rafforzare  gli  interventi  di
razionalizzazione volti ad evitare  duplicazioni  e  sovrapposizioni,
anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento  informativo,  il
capo della polizia-direttore generale della pubblica  sicurezza  e  i
vertici delle altre Forze di  polizia  adottano  apposite  istruzioni
attraverso  cui  i  responsabili  di  ciascun  presidio  di   polizia
interessato trasmettono alla  propria  scala  gerarchica  le  notizie
relative  all'inoltro  delle  informative  di   reato   all'autorita'
giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle  norme
del codice di procedura penale». 
    Conseguentemente, chiede alla Corte costituzionale  di  annullare
tale disposizione. 
    2.- In data 30 ottobre  2017,  il  Procuratore  della  Repubblica
presso il Tribunale di Bari ha depositato una memoria, con  la  quale
ha ulteriormente illustrato le ragioni a sostegno dell'ammissibilita'
del sollevato conflitto. 
    Nell'approfondire la  questione  relativa  alla  sussistenza  del
requisito  della   residualita',   richiesto   dalla   giurisprudenza
costituzionale in caso di conflitto sollevato contro un  atto  avente
forza di legge, rileva come, a suo avviso, non vi  sarebbero  giudizi
nei quali la questione di  legittimita'  costituzionale  della  norma
denunciata potrebbe essere sollevata. 
    Sarebbe  anzitutto  impossibile  che  si  instauri  un   giudizio
amministrativo di impugnazione delle «istruzioni» dei  vertici  delle
Forze di polizia, la cui  adozione  e'  prevista  dalla  disposizione
censurata, in quanto tale giudizio  presuppone  che  le  «istruzioni»
siano contenute in un  atto  o  in  un  provvedimento  amministrativo
impugnabile. Ma - osserva  il  ricorrente  -  nonostante  notizie  di
stampa in relazione ad una circolare che sarebbe  stata  emanata  dal
Capo della polizia-direttore generale  della  pubblica  sicurezza  in
data 8 ottobre 2016, nessun atto di questo  tipo  sarebbe  mai  stato
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale o comunicato alle  procure  della
Repubblica presso i tribunali ordinari, sicche' eventuali  istruzioni
diramate rivestirebbero il valore di  «atto  meramente  interno  alla
pubblica amministrazione», con conseguente inconfigurabilita'  di  un
interesse  del  ricorrente  alla  loro  impugnazione,  non  potendosi
considerare alla stregua di  regolamenti  amministrativi,  come  tali
impugnabili innanzi al giudice amministrativo. 
    Quanto ad  un  ipotetico  giudizio  penale,  per  violazione  del
segreto investigativo, contro l'ufficiale di polizia giudiziaria  che
abbia trasmesso alla propria scala  gerarchica  le  notizie  relative
all'inoltro delle informative di reato all'autorita' giudiziaria,  il
ricorrente qualifica tale ipotesi «di dubbia  rilevanza  penale»,  in
quanto, rispetto al reato di cui all'art. 326 cod. pen.,  opererebbe,
in funzione di scriminante, proprio la disposizione censurata. 
    Ad avviso del ricorrente, dovrebbe in radice escludersi anche  un
giudizio  penale  per  omissione  di  atti  di  ufficio,  in   quanto
l'ufficiale di polizia  giudiziaria  potrebbe  sempre  obiettare  che
l'atto rifiutato non era compreso nel novero di quelli  da  compiersi
senza ritardo e «per ragioni di giustizia», come richiesto dal  primo
comma dell'art. 328 cod. pen., e che l'omissione o il  ritardo  nella
trasmissione alla  scala  gerarchica  erano  pienamente  giustificati
dall'esigenza di «rendere possibile o piu'  agevole  l'attivita'  ...
del pubblico ministero». Anche in tal caso,  dunque,  l'ufficiale  di
polizia  giudiziaria  non  sarebbe  punibile  e  non  esisterebbe  un
giudizio nell'ambito del quale sollevare la questione di legittimita'
costituzionale sulla norma denunciata. 
    A non diverse  conclusioni  il  ricorrente  giunge  in  relazione
all'ipotesi,  astrattamente  configurabile,  del  giudizio  civile  o
amministrativo conseguente al procedimento disciplinare nei confronti
dell'ufficiale di polizia giudiziaria che abbia omesso di operare  la
trasmissione alla  scala  gerarchica.  Alla  controversia  instaurata
dall'ufficiale di polizia giudiziaria, innanzi al giudice fornito  di
giurisdizione  e  per  contestare  la  legittimita'  della   sanzione
irrogata, sarebbe  infatti  estraneo  il  pubblico  ministero  e  non
avrebbero alcuna rilevanza le  questioni  relative  alle  prerogative
costituzionali di quest'ultimo.  Inoltre,  il  giudice,  ordinario  o
speciale, avrebbe sempre «il potere di disapplicare  le  disposizioni
secondarie» poste a fondamento della sanzione irrogata. 
    3.- Il ricorso per conflitto di attribuzione e' stato  dichiarato
ammissibile con ordinanza n. 273 del 2017. La Corte, in base all'art.
24, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale,  ha  assegnato  al   ricorrente   Procuratore   della
Repubblica presso il Tribunale di Bari il termine di sessanta giorni,
con decorso dalla comunicazione  dell'ordinanza,  per  notificare  al
Governo della Repubblica, in persona del Presidente del Consiglio dei
ministri, il ricorso e l'ordinanza dichiarativa  dell'ammissibilita',
e  ha  assegnato  l'ulteriore  termine   di   trenta   giorni   dalla
notificazione per il deposito dei medesimi atti nella cancelleria  di
questa Corte. 
    L'ordinanza n. 273 del 2017 e' stata comunicata dalla cancelleria
di questa Corte al ricorrente il 19 dicembre 2017. 
    Il ricorrente ha proceduto alla notifica al Governo il 18 gennaio
2018 e ha poi depositato il 1° febbraio 2018 nella cancelleria  della
Corte costituzionale il ricorso e l'ordinanza notificati. 
    4.- Il Governo della Repubblica, in persona  del  Presidente  del
Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso   dall'Avvocatura
generale dello Stato, ha depositato in data  9  marzo  2018  atto  di
costituzione in giudizio, eccependo l'inammissibilita' del  conflitto
e, nel merito, la non fondatezza dei motivi di ricorso. 
    4.1.- Assume, in primo luogo,  il  resistente  che  il  conflitto
sarebbe inammissibile, in quanto il ricorrente non  lamenterebbe  una
lesione attuale,  concreta  e  diretta  delle  proprie  attribuzioni,
bensi' una possibile lettura della disposizione impugnata. 
    Ad avviso dell'Avvocatura generale, il ricorrente avrebbe  invece
dovuto dapprima verificare se l'art. 18, comma 5, del d.lgs.  n.  177
del 2016 sia stato effettivamente inteso e univocamente applicato nel
senso temuto dal ricorrente - ossia quale disposizione che impone  la
trasmissione, da parte della polizia giudiziaria alla  propria  scala
gerarchica, non solo di mere notizie relative all'avvenuto  invio  di
informative  di  reato,  bensi'  anche  di  ragguagli  in  merito  al
contenuto    e    agli    sviluppi    dell'attivita'    investigativa
conseguentemente avviata - e, solo in seguito, in  caso  di  risposta
affermativa, promuovere il conflitto. 
    L'ipoteticita' del conflitto risulterebbe avvalorata dallo stesso
contenuto precettivo della disposizione  legislativa  impugnata,  che
rimanda «a future  istruzioni  operative  [...]  l'indicazione  delle
concrete modalita' con cui i  responsabili  di  ciascun  presidio  di
polizia interessato sono tenuti  a  trasmettere  alla  propria  scala
gerarchica le notizie relative all'inoltro delle informative di reato
all'autorita' giudiziaria». Ad avviso  dell'Avvocatura  generale,  il
conflitto avrebbe dovuto semmai essere sollevato nei confronti  delle
istruzioni operative, quando adottate dalle varie Forze di polizia, e
non avverso la disposizione legislativa, di per se'  suscettibile  di
plurime interpretazioni. 
    Eccepisce, in secondo  luogo,  il  resistente  che  il  conflitto
sarebbe inammissibile per carenza «del requisito della residualita'»,
avendo ad oggetto una disposizione legislativa suscettibile di essere
censurata,  sotto  il  profilo  della  legittimita'   costituzionale,
nell'ambito di un giudizio ordinario. 
    A dimostrazione di tale assunto, l'Avvocatura  generale  menziona
la  pendenza  di  un  giudizio  avente  ad   oggetto   una   sanzione
disciplinare irrogata ad un dipendente della Polizia di Stato per  la
violazione  delle  indicazioni  operative  adottate   in   attuazione
dell'impugnato art. 18, comma 5, del d.lgs.  n.  177  del  2016,  nel
quale sarebbe stata eccepita proprio  la  questione  di  legittimita'
costituzionale di quest'ultimo. 
    Potendo, dunque, la disposizione  impugnata  venire  in  rilievo,
oltre che in procedimenti penali concernenti violazioni  del  segreto
investigativo,  anche  in  giudizi  in  cui  siano  in  contestazione
provvedimenti disciplinari, il conflitto sarebbe inammissibile,  alla
luce della giurisprudenza costituzionale che esclude  l'esperibilita'
del conflitto  di  attribuzioni  in  relazione  ad  atti  legislativi
ogniqualvolta sia ipotizzabile un giudizio comune nel quale la  norma
sia suscettibile di trovare  applicazione  e  possa,  dunque,  essere
promosso un giudizio in via incidentale. 
    Eccepisce,  infine,  il  resistente  che  il  conflitto   sarebbe
altresi' inammissibile  per  difetto  di  motivazione,  essendosi  il
ricorrente limitato a trascrivere acriticamente parti della  delibera
assunta dal Consiglio superiore della magistratura in data 14  giugno
2017 (recte: 15 giugno 2017), senza specificare  le  ragioni  per  le
quali l'atto impugnato comporterebbe un effettivo vulnus alle proprie
attribuzioni. Nel ricorso mancherebbe  -  ad  avviso  dell'Avvocatura
generale - un'autonoma elaborazione ed argomentazione dei  motivi  di
ricorso e, in particolare, dei profili di lesione delle  attribuzioni
del ricorrente. 
    4.2.- Quanto al primo motivo di doglianza,  ossia  la  violazione
dell'art. 76 Cost., il resistente ne eccepisce l'inammissibilita'  e,
in subordine, la non fondatezza. 
    Argomenta, anzitutto, l'Avvocatura generale che, nel conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato, e' possibile lamentare  solo  la
lesione dei parametri costituzionali che delineano le competenze  del
potere  cui  appartiene  l'organo  ricorrente.   Al   contrario,   il
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari lamenterebbe
«un  vizio  di  eccesso  di  delega  ex  art.  77  Cost.»,  afferente
«all'astratta   legittimita'   costituzionale   della    disposizione
censurata, di per se' non idoneo a  determinare  alcuna  invasione  o
minaccia di lesione delle proprie attribuzioni». 
    Qualora dichiarato ammissibile, tale motivo di doglianza  sarebbe
comunque non fondato. 
    Osserva l'Avvocatura generale che il d.lgs. n. 177  del  2016  e'
stato emanato sulla base della delega recata nell'art.  8,  comma  1,
lettera a), della legge n. 124 del 2015, con cui il Governo e'  stato
autorizzato a realizzare, attraverso l'adozione di uno o piu' decreti
legislativi,   un   ampio   processo   riformatore   della   pubblica
amministrazione statale «e, nello specifico, delle Forze di polizia».
Il citato art. 8 prevede che gli interventi legislativi  delegati  si
ispirino   a   criteri   di   «razionalizzazione   e    potenziamento
dell'efficacia delle funzioni di polizia, anche in  funzione  di  una
migliore  cooperazione   sul   territorio,   al   fine   di   evitare
sovrapposizioni di competenze». A  tale  finalita'  risponderebbe  la
disposizione  impugnata,  nella   parte   in   cui   intensifica   il
coordinamento informativo tra le Forze di polizia. 
    Ricorda quindi il resistente che furono le Commissioni riunite  I
e IV della Camera dei deputati,  nel  parere  reso  sullo  schema  di
decreto legislativo, a chiedere al Governo di valutare l'opportunita'
di  estendere  a  tutte  le  Forze  di  polizia  le  previsioni  gia'
stabilite, solo per l'Arma dei carabinieri, dall'art. 237 del  d.P.R.
n. 90  del  2010,  il  quale  dispone  che,  indipendentemente  dagli
obblighi  prescritti  dal  codice  di  procedura  penale,  i  comandi
dell'Arma dei carabinieri danno notizia alla propria scala gerarchica
delle informative di reato, secondo modalita'  fissate  con  apposite
istruzioni dal Comandante generale.  La  disposizione  ora  impugnata
sarebbe stata  dunque  inserita  nel  testo  definitivo  del  decreto
legislativo  per  dare  seguito  alla  richiesta  avanzata  in   sede
parlamentare. 
    Osserva l'Avvocatura generale che, del  resto,  la  legge  delega
invitava il Governo ad introdurre disposizioni che  migliorassero  la
«cooperazione sul territorio» tra le varie Forze di polizia; che tale
finalita' puo' essere perseguita, oltre che con misure  di  carattere
organizzativo o logistico,  anche  sul  versante  del  «coordinamento
informativo  ed  operativo»;  che  il  circuito   del   coordinamento
informativo non riguarda solo il rapporto tra autorita'  di  pubblica
sicurezza e Forze di polizia, bensi' anche il rapporto tra  Forze  di
polizia e autorita' giudiziaria (come testimoniato da altre norme del
codice di procedura penale  e  da  disposizioni  contenute  in  altre
leggi); che, in definitiva, la  previsione  contenuta  nell'art.  18,
comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016 si inserisce a pieno  titolo  nel
quadro di rafforzamento delle misure di coordinamento  informativo  a
cui fa riferimento la legge delega, afferendo ad  uno  degli  aspetti
principali del sistema della pubblica sicurezza e ponendosi  altresi'
in un rapporto di assoluta coerenza e continuita' con la legislazione
precedente. 
    Conclude  sul  punto  il  resistente  rilevando  che  la   delega
conferita  al  Governo  era  «particolarmente   ampia»,   in   quanto
suscettibile    di    investire    diversi    e    plurimi    aspetti
dell'organizzazione e del funzionamento  dell'intero  comparto  della
pubblica sicurezza; che, rispetto a deleghe legislative «c.d.  "vaste
o con plurimi  oggetti"»,  la  stessa  Corte  costituzionale  avrebbe
riconosciuto  al  Governo  una  discrezionalita'  altrettanto   ampia
nell'individuare le soluzioni piu' idonee a dare concreta  attuazione
ai criteri direttivi; che, «[i]n questo senso», il limite  al  potere
legislativo delegato non si  rinverrebbe  «tanto  nella  lettera  dei
medesimi criteri, bensi' nel dovere di "non porsi in  contrasto"  con
le finalita' indicate dal Parlamento». 
    4.3.-  Quanto  alle   prospettate   lesioni   delle   prerogative
costituzionali presidiate dagli artt. 109 e 112  Cost.,  l'Avvocatura
generale ne sostiene l'insussistenza. 
    4.3.1.-  In  relazione  all'art.  112  Cost.,   in   particolare,
evidenzia come  non  sia  corretto  l'assunto  secondo  il  quale  il
fondamento del segreto di indagine si  debba  rinvenire  nell'evocato
parametro costituzionale, venendo in rilievo un istituto  processuale
posto a presidio di un valore diverso, rappresentato dalla necessita'
di garantire il buon esito dell'azione penale, sotto il profilo della
ricerca  della  verita',  dell'acquisizione  delle  prove   e   della
genuinita' di queste ultime. 
    In questa prospettiva, allora, il segreto  di  indagine  dovrebbe
ascriversi, a parere dell'Avvocatura generale, ai principi recati  in
generale  dall'art.  111  Cost.  in  materia   di   esercizio   della
giurisdizione penale. 
    A sostegno della valutazione  di  non  conferenza  del  parametro
evocato dal ricorrente, aggiunge che,  nonostante  l'art.  112  Cost.
assolva anche ad  una  funzione  di  garanzia  dell'indipendenza  del
pubblico  ministero,  la  posizione  di   questi   sarebbe   tuttavia
caratterizzata  da  specifiche  peculiarita'  rispetto   agli   altri
magistrati appartenenti all'ordine giudiziario, in quanto la garanzia
della sua indipendenza - a prescindere dagli ambiti nei quali la  sua
posizione sarebbe «omologa a quella del giudice» e come tale tutelata
dagli artt. 105, 106  e  107  Cost.  -  sarebbe  rimessa  alla  legge
ordinaria,  la  quale  non  detterebbe   «norme   volte   a   sancire
l'intangibilita' in assoluto» del segreto investigativo,  prevedendo,
anzi,  numerose  deroghe  volte  alla  tutela  di   altri   interessi
costituzionalmente rilevanti, addirittura "esterni" al  processo,  di
cui sarebbero portatori altri poteri dello Stato. 
    A  titolo  esemplificativo,  l'Avvocatura  generale  richiama  le
deroghe  al  segreto  investigativo  previste  in  favore  di  alcune
commissioni parlamentari dalle relative leggi istitutive  oppure,  in
favore del Ministro dell'interno e del Presidente del  Consiglio  dei
ministri, rispettivamente dagli artt. 118 e 118-bis cod. proc. pen. 
    Cio' sarebbe indicativo  del  fatto  che  la  deroga  al  segreto
investigativo, prevista per legge, non implicherebbe, di per se', una
lesione ai principi che governano l'azione penale, sotto  il  profilo
dell'obbligatorieta'   del    suo    esercizio:    la    legittimita'
costituzionale di simili limiti e deroghe dipenderebbe unicamente dal
rispetto del principio di  ragionevolezza,  il  quale  imporrebbe  di
calibrarne l'esercizio sui parametri di  effettiva  necessita'  e  di
«non ostacolo» all'esercizio dell'azione penale. Sotto tale  profilo,
si sarebbe in presenza di una deroga al  segreto  investigativo  «del
tutto ragionevole e proporzionata,  in  quanto  sottoposta  a  limiti
esterni (in ragione delle finalita' perseguite) ed interni  (riferiti
al contenuto delle informazioni suscettibili di essere trasmesse alla
scala  gerarchica),  tali  da  evitare  qualsiasi  interferenza   con
l'esercizio dell'azione penale». A tali limiti si sarebbero  attenuti
i  vertici  delle  Forze  di  polizia   nell'emanare   le   direttive
autorizzate  dalla  disposizione  impugnata,  essendosi,   in   esse,
precisato «che la comunicazione alla  scala  gerarchica  deve  essere
circoscritta ai  dati  e  alle  notizie  strettamente  indispensabili
all'esercizio delle funzioni di coordinamento», pure strumentali - al
pari del segreto investigativo - al fruttuoso  esercizio  dell'azione
penale. 
    A  tale  proposito,  osserva  ancora  l'Avvocatura  generale,  la
trasmissione alla scala gerarchica della Forza di polizia di  notizie
relative  all'inoltro  delle  informative  di   reato   all'autorita'
giudiziaria non comporterebbe un  mutamento  della  "qualita'"  della
notizia, che continuerebbe ad essere e a rimanere segreta, tanto piu'
considerando che essa verrebbe partecipata a soggetti particolarmente
qualificati, per il ruolo apicale rivestito in  seno  alla  Forza  di
polizia e, comunque, tenuti anch'essi all'osservanza del  segreto  in
ragione dell'ufficio rivestito. 
    4.3.2.- In relazione all'art. 109  Cost.,  l'Avvocatura  generale
evidenzia  come  il  Costituente  abbia  scelto  di  non  imporre  la
creazione di un autonomo corpo  di  polizia  giudiziaria,  svincolato
dall'esecutivo e posto alle esclusive dipendenze della  magistratura,
sicche' il legislatore ordinario avrebbe optato per la  creazione  di
un sistema (giudicato coerente con il  dettato  costituzionale  dalla
Corte costituzionale nelle sentenze n. 114 del 1968 e n. 94 del 1963)
in cui gli organi delle Forze di polizia deputati a svolgere  compiti
di polizia giudiziaria vengono a trovarsi in  un  regime  di  "doppia
dipendenza": di tipo funzionale dall'autorita' giudiziaria e di  tipo
organizzativo dall'esecutivo. 
    Avendo la  Corte  costituzionale  affermato  -  nella  successiva
sentenza n. 122 del 1971, in tema di disciplina  (all'epoca  vigente)
dei poteri disciplinari  e  di  controllo  della  magistratura  sulla
polizia giudiziaria - che non spetterebbe al  giudice  costituzionale
stabilire  se  il  sistema,  cosi'  come  concretamente   realizzato,
corrisponda in tutto all'intento perseguito dal Costituente,  sarebbe
escluso che possano formare  oggetto  del  conflitto  «situazioni  di
ordine meramente pratico e applicativo dei precetti legislativi  che,
a vario titolo, possano chiamare in causa l'attuazione  dei  principi
dell'art. 109», poiche' simili  situazioni  sarebbero  «giustiziabili
con i rimedi "ordinari" previsti dall'ordinamento». 
    La disposizione censurata, in altre parole,  non  inciderebbe  in
alcun modo  sul  rapporto  di  dipendenza  funzionale  della  polizia
giudiziaria dal pubblico ministero - non comportando alcuna ingerenza
sul potere di direzione delle indagini,  per  come  disciplinato  dal
codice di procedura penale - ne' sui poteri di vigilanza e controllo,
anche disciplinare, di cui la magistratura e' titolare nei  confronti
della polizia giudiziaria. 
    Proprio il fatto che la notizia relativa all'informativa di reato
debba  essere  fornita  alla  scala  gerarchica  solo  dopo  la   sua
acquisizione o, comunque, non prima  del  suo  inoltro  all'autorita'
giudiziaria  escluderebbe,  in   radice,   che   l'esecutivo   possa,
attraverso la stessa scala gerarchica, dispiegare forme di  ingerenza
nella conduzione delle indagini. 
    Per questo  motivo,  la  disposizione  impugnata  non  troverebbe
applicazione alle «sezioni» di polizia giudiziaria  di  cui  all'art.
58, comma 3, cod. proc. pen., trattandosi  di  uffici  operanti  alle
esclusive dipendenze del pubblico ministero e,  quindi,  non  facenti
parte della «struttura burocratica» di ciascuna Forza di polizia. 
    L'Avvocatura generale, piuttosto, sottolinea che gli apparati  di
polizia  sono  caratterizzati  da  un'organizzazione   di   carattere
gerarchico, sicche' i responsabili dei vari  uffici  e  comandi  sono
tenuti ad esercitare, in ragione della loro posizione  sovraordinata,
funzioni di vigilanza e controllo che non possono essere  trascurate,
«pena un grave pregiudizio in termini di funzionalita'». 
    Cio' sarebbe dimostrato dalla vigenza nell'ordinamento  di  altra
norma, omologa a quella impugnata, specificamente  riferita  all'Arma
dei carabinieri (e contenuta nell'art. 237 del d.P.R. n. 90 del 2010)
che non avrebbe  mai  creato,  nella  prassi  operativa,  alcuno  dei
problemi paventati dal ricorrente: la disposizione impugnata, allora,
dettando, con forza di legge, una  disciplina  organica  e  comune  a
tutti gli apparati di polizia, introdurrebbe un elemento di chiarezza
e trasparenza, senza incidere in alcun modo sul corretto  svolgimento
delle indagini e sulla tenuta complessiva del segreto investigativo. 
    5.- In data 2 ottobre 2018 il Procuratore della Repubblica presso
il Tribunale di Bari  ha  depositato  un'ulteriore  memoria,  in  cui
approfondisce  le  ragioni  che,  a  suo  avviso,  depongono  per  la
fondatezza del conflitto. 
    5.1.- In merito  all'asserita  lesione  dell'art.  76  Cost.,  il
ricorrente ribadisce che nessuno dei  principi  e  criteri  direttivi
indicati  nella  legge   delega   permette   di   ritenere,   neppure
implicitamente, che il Governo fosse stato autorizzato ad  introdurre
un obbligo di comunicazione in via gerarchica delle notizie  relative
alle informative di reato, ne' -  a  suo  avviso  -  un  principio  o
criterio  direttivo  in  tal  senso  potrebbe  essere  ricavato   per
relationem. 
    Pur  ricordando  che  la   Corte   costituzionale   consente   al
legislatore  delegato  di  introdurre  norme  che  rappresentino   un
«coerente  sviluppo  e  completamento  della  scelta   espressa   dal
legislatore delegante e dalle ragioni ad essa sottese», il ricorrente
evidenzia, inoltre, che,  nel  caso  di  specie,  tale  coerenza  non
sarebbe  in  alcun  modo   ravvisabile,   risultando   al   contrario
irragionevole l'introduzione di una disposizione lesiva  degli  artt.
109 e 112 Cost. 
    Osserva  ancora  il  Procuratore  della  Repubblica   presso   il
Tribunale di  Bari  che  l'incoerenza  della  disposizione  impugnata
rispetto  alla  ratio   della   legge   delega   sarebbe   dimostrata
dall'analisi dei lavori parlamentari e, in particolare, dal fatto che
la norma sarebbe stata introdotta «autonomamente» dal Governo solo  a
seguito di una osservazione proveniente  dalle  Commissioni  I  e  IV
della Camera dei deputati. 
    Precisa infine il ricorrente che la  disposizione  impugnata  non
potrebbe neppure dirsi attuativa  dell'art.  17,  lettera  u),  della
legge  delega,   concernente   la   «razionalizzazione   dei   flussi
informativi  dalle  amministrazioni  pubbliche  alle  amministrazioni
centrali e concentrazione degli stessi in ambiti temporali definiti»,
poiche' trattasi di disposizione chiaramente riferita alla disciplina
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. 
    5.2.- In ordine all'asserita violazione dell'art. 112  Cost.,  il
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale  di  Bari  ribadisce
gli argomenti illustrati nel ricorso  introduttivo  e  nella  memoria
depositati il 30 ottobre 2017. 
    Secondo il ricorrente, il meccanismo di comunicazione  introdotto
dalla  disposizione  impugnata,  avendo   come   destinatari   organi
dell'amministrazione non appartenenti alla  polizia  giudiziaria  (e,
come tali, privi della legittimazione all'accesso  alle  informazioni
concernenti  le  attivita'  d'indagine),  arrecherebbe  un   evidente
pregiudizio all'obbligo previsto a carico del pubblico  ministero  di
attivare l'azione penale davanti a tutte le notizie di reato, finendo
per minare  il  carattere  di  indipendenza  che,  invece,  la  norma
costituzionale  di  cui  all'art.  112  Cost.  garantisce  all'organo
requirente. 
    Tale propalazione di notizie, in particolare, arrecherebbe  danno
all'indipendenza funzionale del pubblico ministero, anche a causa dei
condizionamenti, delle pressioni e/o delle influenze che,  una  volta
diffusa   la   notizia   relativa   all'inoltro   di   un'informativa
all'autorita' giudiziaria, potrebbero provenirgli  dall'esterno,  con
particolare  riguardo  al  potere  esecutivo,  in   occasione   della
decisione sull'esercizio dell'azione penale. Con  conseguente  vulnus
anche ai  principi  dell'effettivita'  e  dell'efficacia  dell'azione
penale. 
    5.3.-  Con  riferimento  all'asserita  violazione  dell'art.  109
Cost., il ricorrente richiama tutti gli argomenti gia' illustrati  in
ricorso. 
    Ribadisce,  in  particolare,  che  il  rapporto   di   dipendenza
funzionale, che la Costituzione  stabilisce  debba  intercorrere  tra
autorita' giudiziaria e polizia  giudiziaria,  sarebbe  primariamente
finalizzato  a  evitare  qualsivoglia  tipo  di  interferenza,  nella
conduzione delle indagini, da parte di poteri  altri  e  distinti  da
quello  della  magistratura  inquirente,  sicche'   la   disposizione
impugnata, «determinando la fuoriuscita di informazioni sensibili  al
di fuori del circuito  costituzionalmente  previsto»,  finirebbe  per
ledere le prerogative costituzionalmente  riconosciute  all'autorita'
requirente, ingenerando il concreto rischio che il potere  esecutivo,
da cui sono strettamente dipendenti, da un punto di vista organico, i
destinatari  dell'informativa,  in  quanto  collocati  in   posizione
apicale,   possa   indebitamente    ingerirsi    nello    svolgimento
dell'attivita' investigativa. 
    6.- In prossimita' dell'udienza  pubblica,  in  data  16  ottobre
2018, il Governo della Repubblica,  in  persona  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri, ha depositato una memoria, in cui chiede  che
il ricorso per conflitto sia dichiarato inammissibile e, nel  merito,
non fondato. 
    6.1.- Quanto all'ammissibilita', l'Avvocatura  generale  insiste,
con   ulteriori   argomenti,   sull'assenza   del   requisito   della
residualita'. In particolare, replicando alle osservazioni  contenute
nella memoria del ricorrente del 30 ottobre  2017,  contesta  che  le
istruzioni emanate dalle autorita'  di  polizia  non  possano  essere
impugnate in sede giurisdizionale, ritenendo che si  debba  piuttosto
distinguere tra atti interni meramente interpretativi, effettivamente
non impugnabili in via immediata e diretta, e  atti  interni  recanti
istruzioni  vincolanti,  i  quali,  invece,   essendo   destinati   a
conformare  l'azione  dei  pubblici  poteri  nei  rapporti   esterni,
assumono i caratteri dell'immediata lesivita' e  possono,  per  cio',
essere impugnati. Poiche' gli atti amministrativi emanati dalle Forze
di polizia ai sensi dell'art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016
assumerebbero - ad avviso dell'Avvocatura generale  -  la  natura  di
istruzioni operative vincolanti per i pubblici ufficiali,  come  tali
idonee a conformarne  l'azione  rispetto  a  soggetti  esterni,  essi
sarebbero immediatamente censurabili in sede giudiziaria. 
    Osserva,  inoltre,   l'Avvocatura   generale   che   la   mancata
pubblicazione  o  comunicazione  non  assume  rilevanza  al  fine  di
ricostruire  il  regime  giuridico   degli   atti   con   particolare
riferimento alla sindacabilita' in sede giurisdizionale. Nel caso  di
specie, peraltro, le istruzioni sarebbero certamente conosciute dalle
autorita' giudiziarie. 
    Sempre al fine  di  argomentare  l'assenza  di  residualita'  del
conflitto, l'Avvocatura generale afferma di non condividere  la  tesi
del  ricorrente,   secondo   cui   la   questione   di   legittimita'
costituzionale del citato art.  18,  comma  5,  non  potrebbe  essere
sollevata  nell'ambito  di  un  processo  penale  promosso  ai  sensi
dell'art. 326 cod. pen., in quanto la Corte costituzionale  ben  puo'
essere investita del giudizio sulle norme penali di favore. 
    Osserva ancora l'Avvocatura generale -  a  differenza  di  quanto
sostenuto  dalla  difesa  del  ricorrente  -  che  la  questione   di
legittimita'   costituzionale   potrebbe   essere   promossa    anche
nell'ambito di giudizi penali nei confronti di ufficiali  di  polizia
giudiziaria imputati del reato di cui all'art.  328  cod.  pen.,  non
potendo tali soggetti invocare l'esimente  costituita  dall'art.  18,
comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016. 
    Parimenti, la  questione  di  legittimita'  costituzionale  della
disposizione  impugnata  potrebbe  essere  eccepita  in  un  giudizio
amministrativo avverso il provvedimento  disciplinare  emesso  contro
l'ufficiale di polizia giudiziaria che abbia rifiutato  di  inoltrare
alla scala gerarchica la comunicazione delle notizie  di  reato.  Sul
punto,  ricorda  ancora  l'Avvocatura  generale  che  tuttora  pende,
innanzi al Consiglio di Stato, un giudizio di questo tipo. 
    Rileva, infine, che  il  difetto  di  residualita'  non  potrebbe
comunque essere escluso dalla circostanza che  il  Procuratore  della
Repubblica non e' parte del giudizio amministrativo, in  quanto  -  a
suo avviso - il requisito  della  residualita'  non  potrebbe  essere
inteso in senso soggettivo «come impossibilita' per il ricorrente  di
sollevare personalmente la questione di  legittimita'  costituzionale
in altro giudizio  in  via  incidentale»,  dovendo  piuttosto  essere
ricostruito «in senso oggettivo in ragione, del resto,  della  natura
di diritto oggettivo della giurisdizione costituzionale, la quale  e'
esercitata  non  tanto  per  la  tutela  di   situazioni   giuridiche
soggettive attive dei singoli, quanto a garanzia dell'unita' e  della
legittimita' dell'ordinamento». Cio' sarebbe confermato dal fatto che
il giudizio incidentale di costituzionalita', anche nei  processi  in
cui e' parte il pubblico ministero,  non  viene  comunque  introdotto
dalla parte pubblica, bensi' solo dal giudice procedente. 
    6.2.- Quanto al merito del conflitto, l'Avvocatura  generale,  al
fine di argomentare la non violazione dell'art. 76 Cost.,  sottolinea
ancora come la disposizione impugnata risponda solo  a  finalita'  di
coordinamento informativo ed operativo. Essa si limiterebbe, infatti,
a riprodurre, «con formula sostanzialmente identica», la disposizione
gia' contenuta nell'art. 237 del d.P.R. n. 90 del 2010, la quale «non
risulta  aver  mai  determinato  alcuna  lesione  delle  attribuzioni
costituzionalmente  garantite  degli  Uffici  di  Procura»,  ma  anzi
«dimostra l'essenzialita' del coordinamento informativo  in  funzione
del buon andamento degli uffici pubblici». 
    Si  tratterebbe,   dunque,   di   una   disposizione   certamente
compatibile con la legge delega, la quale ha autorizzato il Governo a
razionalizzare e potenziare l'esercizio  delle  funzioni  di  polizia
anche nell'ottica di una migliore «cooperazione sul territorio». 
    In merito alla asserita violazione degli artt. 109 e  112  Cost.,
l'Avvocatura  generale  ribadisce  gli  argomenti   gia'   illustrati
nell'atto di costituzione in giudizio. 
    Aggiunge, con riferimento alla prospettata violazione di entrambi
i parametri da ultimo citati, che  l'obbligo  di  comunicazione  alla
scala gerarchica di notizie relative alle informative di reato  sorge
«solo dopo l'acquisizione e la comunicazione di queste  all'autorita'
giudiziaria», in tal modo «evitando  qualsivoglia  previa  (illecita)
interferenza da parte dei superiori gerarchici dei segnalanti». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario
di Bari ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato
nei confronti  del  «Presidente  del  Consiglio  dei  ministri»,  per
violazione degli articoli  76,  109  e  112  della  Costituzione,  in
relazione all'art. 18, comma 5, del  decreto  legislativo  19  agosto
2016, n. 177, recante «Disposizioni in materia  di  razionalizzazione
delle funzioni di polizia e assorbimento del  Corpo  forestale  dello
Stato, ai sensi dell'articolo 8, comma 1, lettera a), della  legge  7
agosto  2015,  n.  124,  in   materia   di   riorganizzazione   delle
amministrazioni pubbliche». 
    Tale  disposizione  prevede  che,  a  scopo  di  rafforzare   gli
interventi  di  razionalizzazione,  per   evitare   «duplicazioni   e
sovrapposizioni»,   anche   mediante    forme    di    «coordinamento
informativo», il Capo della polizia-direttore generale della pubblica
sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottino «apposite
istruzioni», affinche' i «responsabili di ciascun presidio di polizia
interessato» trasmettano alla «propria scala  gerarchica  le  notizie
relative  all'inoltro  delle  informative  di   reato   all'autorita'
giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle  norme
del codice di procedura penale». 
    Ritiene il ricorrente che la citata disposizione  del  d.lgs.  n.
177 del 2016 sarebbe stata adottata in eccesso di delega, con lesione
dell'art. 76 Cost., e al tempo stesso avrebbe violato prerogative  di
ordine   costituzionale   direttamente    pertinenti    all'autorita'
giudiziaria requirente. In particolare, introducendo  una  penetrante
deroga al segreto investigativo disposto dall'art. 329 del codice  di
procedura penale, essa avrebbe leso il principio  di  obbligatorieta'
dell'azione penale tutelato  dall'art.  112  Cost.,  cui  il  segreto
investigativo  sarebbe  strettamente  inerente,  nonche'  l'art.  109
Cost., secondo il quale l'autorita' giudiziaria dispone  direttamente
della polizia giudiziaria. 
    L'eccesso  di  delega  risulterebbe   palese,   ad   avviso   del
ricorrente, poiche' nessuno dei principi e criteri della legge delega
7  agosto  2015,  n.  124  (Deleghe  al   Governo   in   materia   di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) avrebbe autorizzato
il Governo a introdurre  una  disposizione  quale  quella  impugnata.
L'art. 8, comma 1, lettera a), di tale legge avrebbe bensi'  delegato
il Governo a razionalizzare e potenziare le  funzioni  delle  diverse
Forze di polizia previste dall'ordinamento, anche  in  vista  di  una
loro  migliore  cooperazione  sul  territorio,  al  fine  di  evitare
sovrapposizioni di competenze e di favorire la gestione associata dei
servizi  strumentali.  Ma  tale  criterio  direttivo  -   rivolto   a
soddisfare, in conformita' alla ratio ispiratrice  dell'intera  legge
di delega, esigenze di semplificazione e razionalizzazione di uffici,
servizi  ed  impiego  del  personale  -  non  sarebbe  sufficiente  a
giustificare  l'introduzione   di   una   disciplina   in   tema   di
coordinamento informativo avente ad oggetto la trasmissione ai propri
superiori gerarchici, da  parte  dei  responsabili  degli  uffici  di
polizia,  delle  informative   di   reato   inoltrate   all'autorita'
giudiziaria. 
    Sostiene inoltre il ricorrente che le informazioni di cui ragiona
l'art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016  sarebbero  portate  a
conoscenza di «soggetti esterni al perimetro dell'indagine stessa,  e
non per  determinazione  autonoma  del  magistrato  (come  pure  puo'
accadere  per  le  necessita'  organizzative   o   logistiche   delle
indagini)», ma  per  vincolo  di  legge,  con  conseguenti  possibili
interferenze nell'esercizio dell'azione penale. Anche in virtu' della
stretta  correlazione  esistente  tra  azione  penale   obbligatoria,
tutelata dall'art. 112 Cost., e segretezza delle indagini, la  deroga
a quest'ultima sarebbe in concreto  foriera  di  rischi  per  l'esito
positivo  delle  investigazioni  e  minaccerebbe,  per  cio'  stesso,
l'effettivita' ed  efficacia  dell'esercizio  dell'azione  penale,  a
protezione  delle  quali  sarebbero  appunto  poste,  dal  codice  di
procedura penale, regole che prescrivono «limiti e  tempi  precisi  e
rigorosi  per  la  segretezza».  Regole,  invece,   «disinvoltamente»
superate  dalla  disposizione  oggetto  del  conflitto,  «peraltro  a
beneficio  di  organi  dell'Amministrazione  neppure   dotati   della
connotazione di appartenenti alla  polizia  giudiziaria»,  come  tali
privi di legittimazione all'accesso all'attivita' d'indagine. 
    In  terzo  luogo,  ad  avviso  del  ricorrente,  emergerebbe   la
violazione  dell'art.  109  Cost.,  e  cioe'  del   principio   della
dipendenza  funzionale  della  polizia   giudiziaria   dall'autorita'
giudiziaria. 
    La comunicazione in via gerarchica delle  informazioni,  prevista
dalla disposizione  oggetto  del  conflitto,  senza  alcun  filtro  o
controllo  del  pubblico  ministero  procedente,  a  beneficio,  come
ricordato, anche di  soggetti  che  non  rivestono  la  qualifica  di
ufficiale di  polizia  giudiziaria  e  che,  per  la  loro  posizione
apicale, vedono particolarmente stretto  il  rapporto  di  dipendenza
organica dalle articolazioni  del  potere  esecutivo,  finirebbe  per
rafforzare,  nella  polizia  giudiziaria,   tale   ultimo   tipo   di
dipendenza, a tutto danno della dipendenza funzionale  dall'autorita'
giudiziaria scolpita nell'art. 109 Cost., la cui lesione viene dunque
lamentata. 
    2.- Va confermata, ai sensi dell'art. 37  della  legge  11  marzo
1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), l'ammissibilita' del conflitto - gia' dichiarata  da
questa  Corte,  in  sede  di  prima  e  sommaria   delibazione,   con
l'ordinanza n. 273 del 2017 - sussistendone i presupposti  soggettivi
e oggettivi. 
    2.1.- In relazione al profilo soggettivo, deve essere ribadita la
natura di potere dello Stato del pubblico ministero, e in particolare
del Procuratore della  Repubblica  (art.  1,  comma  1,  del  decreto
legislativo 20  febbraio  2006,  n.  106,  recante  «Disposizioni  in
materia di riorganizzazione dell'ufficio del  pubblico  ministero,  a
norma dell'articolo 1, comma 1, lettera d),  della  legge  25  luglio
2005,  n.  150»),  in  quanto  autorita'  giudiziaria   che   dispone
direttamente della polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 109  Cost.,
e   percio'   titolare   delle   attivita'   d'indagine   finalizzate
all'esercizio obbligatorio dell'azione penale in virtu' dell'art. 112
Cost. (sentenze n. 1 del 2013, n. 88 e n. 87 del 2012 e  n.  420  del
1995; ordinanza n. 17 del 2013). 
    Nessun dubbio, inoltre, sussiste in  ordine  alla  legittimazione
del Governo, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri, ad
essere parte nel conflitto, posto che l'atto asseritamente  lesivo  -
la disposizione di un decreto legislativo - e' imputabile  al  potere
esecutivo nella sua interezza (sentenza n. 420 del 1995; ordinanze n.
16 del 2013, n. 23 del 2000 e n. 323 del 1999). 
    2.2.- Quanto al profilo oggettivo, nella ricordata  ordinanza  n.
273 del 2017 questa Corte ha affermato che  l'idoneita'  di  un  atto
avente natura legislativa a determinare conflitto sussiste  tutte  le
volte in cui dalla norma primaria «derivino in  via  diretta  lesioni
dell'ordine  costituzionale  delle   competenze»,   salvo   che   sia
configurabile  un  giudizio  nel  quale  la  norma  primaria  risulti
applicabile e quindi possa  essere  su  di  essa  sollevata,  in  via
incidentale,  questione  di  legittimita'  costituzionale.   Si   era
aggiunto, sempre nell'ordinanza in parola, che, nel caso  di  specie,
l'«effettiva configurabilita' di un tale giudizio» non emergeva prima
facie, ma che  ogni  diversa  valutazione  restava  impregiudicata  e
avrebbe dovuto essere approfondita in seguito al  «pieno  dispiegarsi
del contraddittorio tra le parti». 
    Proprio in virtu' del  dispiegarsi  del  contraddittorio,  questa
Corte e' chiamata ad  affrontare,  in  via  preliminare,  l'eccezione
d'inammissibilita' del conflitto per carenza del requisito oggettivo,
avanzata dall'Avvocatura generale dello Stato in  rappresentanza  del
Governo, costituitosi in  giudizio  in  persona  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri. 
    Rileva, in particolare,  l'Avvocatura  generale  la  carenza  del
«requisito della residualita'», poiche' il ricorso avrebbe ad oggetto
una disposizione legislativa suscettibile di essere censurata,  sotto
il profilo  della  legittimita'  costituzionale,  nell'ambito  di  un
comune giudizio. 
    Riferisce, tra l'altro, l'Avvocatura generale che - a seguito  di
un provvedimento disciplinare inflitto ad  un  ufficiale  di  polizia
giudiziaria, incolpato del rifiuto di trasmettere ai propri superiori
gerarchici la comunicazione di notizie emerse nell'ambito di indagini
preliminari - il  giudice  amministrativo,  di  fronte  al  quale  il
provvedimento  disciplinare  e'   stato   impugnato,   e'   risultato
effettivamente     investito     dell'eccezione      d'illegittimita'
costituzionale  della  stessa  disposizione  oggetto   del   presente
conflitto,  posta  a  fondamento  del   provvedimento   disciplinare.
Aggiunge la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri  che  il
giudice amministrativo di primo grado ha  ritenuto  la  questione  di
legittimita'  costituzionale  non  rilevante  per  la  decisione  del
ricorso (Tribunale amministrativo regionale  per  il  Lazio,  sezione
prima-quater, sentenza del 26  giugno  2018,  n.  7147),  ma  che  la
sentenza e' stata appellata, sicche' di fronte al Consiglio di  Stato
l'eccezione ben  potrebbe  essere  ripresentata,  e  la  carenza  del
requisito  di  "residualita'  del  conflitto",  nel  caso  in  esame,
risulterebbe percio' evidente. 
    L'eccezione non e' fondata e l'ammissibilita'  del  conflitto  va
percio' confermata anche sotto il profilo oggettivo. 
    Secondo la  giurisprudenza  di  questa  Corte,  un  conflitto  di
attribuzione tra poteri dello Stato ben puo' essere  originato  anche
dall'approvazione di un  atto  avente  valore  di  legge,  in  quanto
l'istituto del conflitto tra poteri e'  primariamente  preordinato  a
garantire l'integrita' della sfera di attribuzioni determinata per  i
vari poteri dalle disposizioni costituzionali,  a  prescindere  dalla
natura dell'atto che si assume lesivo di tali attribuzioni  (sentenze
n. 221 del 2002, n. 139 del 2001 e n. 457 del 1999). La giurisdizione
costituzionale sui conflitti tra poteri si fonda, infatti,  in  primo
luogo, sulla natura dei soggetti che confliggono e  sulle  competenze
costituzionali che essi difendono in giudizio. 
    Ben vero che nel nostro sistema di giustizia  costituzionale  gli
atti aventi valore di legge sono solitamente sottoposti al  controllo
di  costituzionalita'  attraverso   il   giudizio   di   legittimita'
costituzionale (a seconda dei casi, in via incidentale o principale).
Per questo, nella generalita' dei casi va esclusa l'esperibilita' del
ricorso  per  conflitto  tra  poteri,  tutte  le  volte  che   l'atto
legislativo - al  quale  sia  in  ipotesi  imputata  una  lesione  di
attribuzioni costituzionali - puo' pacificamente trovare applicazione
in un  giudizio,  nel  corso  del  quale  la  relativa  questione  di
legittimita' costituzionale puo' essere eccepita, e sollevata. Ed  e'
pure vero, con riferimento a casi rispetto  ai  quali  nessun  dubbio
poteva in proposito essere  prospettato,  che  la  giurisprudenza  di
questa Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso  per  conflitto  su
atto legislativo, appunto sul presupposto che «esista un giudizio» in
cui l'atto legislativo puo' trovare applicazione (sentenza n. 284 del
2005; ordinanze n. 17 e n. 16 del 2013, n. 38 del 2008,  n.  343  del
2003 e n. 144 del 2000; nello stesso senso ordinanze n. 14 e n. 1 del
2009). 
    Tuttavia, in altre pronunce, questa Corte ha gia' avuto  modo  di
precisare che l'ammissibilita' del  ricorso  per  conflitto  su  atto
legislativo e' altresi' subordinata alla circostanza che  la  lesione
delle attribuzioni costituzionali non possa  essere  rilevata,  sotto
forma di eccezione di legittimita' costituzionale nel giudizio in via
incidentale, proprio dal soggetto direttamente interessato  (sentenza
n. 457 del 1999; ordinanza n. 38 del 2001). Da questo punto di vista,
non  e'  la  mera  configurabilita'  di  un  giudizio  nel  quale  la
disposizione puo' trovare applicazione a ostacolare  l'ammissibilita'
del conflitto: deve trattarsi di un giudizio in cui  il  soggetto  (o
meglio: il potere dello Stato),  che  ha  ritenuto  di  lamentare  la
lesione della propria sfera di attribuzioni attraverso il ricorso per
conflitto,  avrebbe  la  possibilita'  di  proporre  l'eccezione   di
legittimita' costituzionale. Deve cioe' trattarsi di un  giudizio  in
cui quel soggetto sia o possa essere a tutti gli effetti parte. 
    Cosi', ad esempio, nella sentenza n. 284 del  2005,  pronunciando
l'inammissibilita' di un conflitto tra poteri dello  Stato  sollevato
dal Consiglio superiore della Magistratura nei confronti delle Camere
e  del  Governo,  in  relazione  a  disposizioni  contenute   in   un
decreto-legge  e  in  una  legge,  questa  Corte  motivo'  non   solo
riferendosi alle varie ipotesi in cui  sulle  disposizioni  impugnate
avrebbe  potuto  essere  sollevata  una  questione  di   legittimita'
costituzionale  in  via  incidentale,  ma  anche  precisando  che  si
trattava sempre di giudizi comuni nell'ambito dei quali «il Consiglio
superiore puo' far valere le proprie ragioni». 
    A  ben  vedere,  tuttavia,   solo   l'autorita'   giurisdizionale
giudicante, e purche' nell'esercizio delle proprie  funzioni,  ha  la
sicura potesta' di attivare effettivamente, promuovendolo  d'ufficio,
il giudizio di legittimita' costituzionale  in  via  incidentale,  ai
sensi dell'art. 23 della legge n. 87 del 1953 (ordinanza n.  144  del
2000), alla condizione che la  questione  o  le  questioni  sollevate
risultino dotate del requisito della rilevanza (sentenza n.  164  del
2017). E, percio', solo in relazione ad  essa,  non  gia'  invece  in
relazione all'autorita' giudiziaria requirente, potrebbe  in  via  di
principio esser predicato il rispetto del requisito della  cosiddetta
residualita' del conflitto su atto avente valore legislativo. 
    Stando  cosi'  le  cose,  non  e'  sufficiente,  per   accogliere
l'eccezione  d'inammissibilita'  ora  in  discussione,  enumerare  le
diverse ipotesi, peraltro di non  facile  realizzazione,  in  cui  la
disposizione  impugnata  per  conflitto  risulterebbe  applicabile  e
percio' eventuale  oggetto  di  una  questione  di  costituzionalita'
sollevabile  in  via  incidentale,  si   tratti   di   giudizi   solo
astrattamente ipotizzabili o effettivamente instaurati e  addirittura
pendenti. 
    Infatti,  in  questa  prospettiva,  la  possibile  tutela   delle
attribuzioni costituzionali  del  pubblico  ministero  finirebbe  per
essere  affidata  alla  volonta'  di  altro  soggetto,  che  dovrebbe
eccepire  una  questione  di  legittimita'  costituzionale,  la   cui
rilevanza e  non  manifesta  infondatezza  dovrebbero  essere  infine
vagliate  dal  giudice.  Con  la  conseguenza   che   questa   Corte,
concretamente investita da un potere dello Stato, quale e'  l'ufficio
del pubblico ministero, del giudizio sull'asserita lesione delle  sue
attribuzioni costituzionali, dovrebbe  considerare  inammissibile  il
conflitto, sulla base della futura e solo eventuale possibilita'  che
altro soggetto eccepisca la questione e che  il  giudice  ritenga  di
sollevarla: conseguenza, come si  vede,  contraria  al  principio  di
effettivita' della tutela delle attribuzioni costituzionali. 
    Ma  quel  che  piu'  conta  e'  che  il  ricorso  presentato  dal
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari  porta  alla
valutazione di questa Corte un vero e proprio  conflitto  tra  poteri
dello  Stato,  in  cui  una  disposizione  contenuta  in  un  decreto
legislativo e' supposta pregiudicare immediatamente  le  attribuzioni
costituzionali dell'autorita' giudiziaria requirente, prevedendo,  in
capo agli appartenenti alla polizia giudiziaria  e  a  beneficio  dei
superiori gerarchici  di  quest'ultimi,  obblighi  informativi  sulle
notizie di reato,  ponendo  quindi  le  relative  informazioni  nella
disponibilita' di una "scala gerarchica" che  conduce  potenzialmente
fino ai  vertici  del  potere  esecutivo.  In  una  tale  situazione,
considerare inammissibile il ricorso in  ragione  della  sola  natura
dell'atto in ipotesi lesivo (quello con valore  legislativo)  nonche'
in ragione della eventuale, futura, configurabilita', su  quell'atto,
di un giudizio in via incidentale, risulterebbe contrario alla logica
e alla natura stessa dell'istituto del conflitto tra poteri. 
    Il giudizio in via incidentale nasce da un caso, e quindi  da  un
processo, in cui sono in discussione situazioni soggettive, mentre il
conflitto  tra  poteri  trova  la  propria  ragion   d'essere   nella
necessita'  di  delimitare  le  rispettive  sfere  di   attribuzione,
delineate dalla Costituzione, per i vari poteri dello Stato,  secondo
la formula dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953.  Inoltre,  mentre
il controllo in via incidentale di legittimita' costituzionale  delle
leggi, pur nascendo a tutela di diritti  in  ipotesi  violati  in  un
singolo caso, assume la natura oggettiva ed astratta di un  controllo
di conformita' della  fonte  di  rango  primario,  in  riferimento  a
qualsiasi parametro costituzionale risulti  invocato  dal  giudice  a
quo, il conflitto tra poteri dello Stato e' un giudizio tra parti  e,
quand'anche abbia ad oggetto un atto  di  valore  legislativo,  resta
necessariamente e strettamente ancorato, come si  avra'  piu'  avanti
occasione di precisare, alla verifica  del  rispetto  delle  relative
sfere di attribuzione dei poteri in contrasto, e  quindi  delle  sole
disposizioni costituzionali relative al rapporto tra questi ultimi. 
    Nient'affatto priva di rilievo, infine,  e'  la  circostanza  che
l'incidente  di  costituzionalita'  puo'   non   costituire   rimedio
tempestivo rispetto all'asserita lesione delle sfere di  attribuzioni
costituzionali del potere ricorrente, tanto piu' in un'ipotesi,  come
quella in esame, nel quale la disposizione  del  decreto  legislativo
impugnato ha incidenza continua  e  quotidiana,  sia  sulla  funzione
investigativa del pubblico ministero,  sia  sui  compiti  informativi
della  polizia  giudiziaria:  una  situazione  nella  quale,  dunque,
l'attendere che la questione  di  legittimita'  costituzionale  venga
eventualmente sollevata per la  via  incidentale  potrebbe  frustrare
l'esigenza di tutela immediata perseguibile attraverso il ricorso per
conflitto. Gia' nella sentenza n. 161 del 1995 fu  precisato  che  il
conflitto contro l'atto avente valore  di  legge  e'  ammissibile  se
incide sulla materia costituzionale e determina situazioni  non  piu'
reversibili ne' sanabili anche a seguito della perdita  di  efficacia
della norma, non solo quando cio' accada a causa  dell'impiego  della
decretazione d'urgenza, ma anche  laddove  le  situazioni  in  parola
siano provocate da una legge o da un decreto legislativo. 
    2.3.-   Non   fondata   e'   altresi'    l'ulteriore    eccezione
d'inammissibilita' del conflitto, avanzata  dall'Avvocatura  generale
in  quanto  il  ricorrente  non  lamenterebbe  una  lesione  attuale,
concreta e diretta delle proprie competenze, ma si dorrebbe  solo  di
una possibile lettura della disposizione  impugnata,  derivandone  la
natura meramente ipotetica del conflitto. 
    Assume, in particolare, la difesa del Governo che  il  ricorrente
avrebbe articolato i motivi di doglianza unicamente per  il  caso  in
cui dovesse accogliersi un'interpretazione  estensiva  dell'art.  18,
comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016: per l'ipotesi, cioe', in cui  la
trasmissione d'informazioni dalla polizia  giudiziaria  ai  superiori
gerarchici  non  dovesse  riguardare  la   «mera   notizia   relativa
all'avvenuto   invio   di   informative   di   reato    all'autorita'
giudiziaria», attivita'  che  lo  stesso  ricorrente  riterrebbe  non
lesiva delle prerogative dell'autorita'  giudiziaria,  «ma  anche  di
ragguagli in merito  al  contenuto  e  agli  sviluppi  dell'attivita'
investigativa conseguentemente avviata». 
    Anche a prescindere dalla  circostanza  che  il  ricorrente,  pur
ammettendo che della disposizione  impugnata  possono  darsi  diverse
interpretazioni, ritiene che essa  sia  in  ogni  caso  lesiva  delle
proprie attribuzioni, quel che conta  e'  che  la  giurisprudenza  di
questa Corte ha costantemente affermato la sufficienza, ai fini della
configurabilita'    dell'interesse    a    ricorrere     e     quindi
dell'ammissibilita' del  conflitto,  anche  della  sola  minaccia  di
lesione, purche' attuale e concreta,  e  non  meramente  congetturale
(sentenze n. 379 del 1996 e n. 420 del 1995). Nel presente  caso,  il
tenore della disposizione  impugnata  contiene  ed  esprime  in  modo
chiaro ed  inequivoco  la  possibilita'  che  la  trasmissione  delle
notizie avvenga secondo modalita' che incidono sulle attribuzioni del
ricorrente, manifestando cosi' l'attualita' della lesione. 
    La sussistenza  dell'interesse  a  ricorrere,  peraltro,  non  e'
affatto impedita dalla circostanza che  l'asserita  violazione  delle
attribuzioni  costituzionali   del   ricorrente   provenga   da   una
disposizione contenuta in  un  decreto  legislativo.  Infatti,  anche
l'entrata in vigore di un atto normativo - per sua natura generale ed
astratto - integra di per se' un comportamento idoneo a far insorgere
nel ricorrente l'interesse alla eliminazione del pregiudizio  che,  a
suo avviso, ne deriva alle proprie  attribuzioni  costituzionali,  «e
cio' senza che occorra attendere il concreto esercizio delle medesime
in relazione ad un caso specifico (quasi a voler applicare anche  nei
giudizi sui conflitti  il  requisito  della  "rilevanza"  tipico  dei
giudizi incidentali), condizione non richiesta  dall'ordinamento  per
l'insorgere di un conflitto di attribuzione»  (sentenza  n.  420  del
1995; in senso analogo, ordinanza n. 521 del 2000). 
    Nel caso di specie, comunque, si  ha  notizia  dell'esistenza  di
atti applicativi della disposizione impugnata (si fa riferimento alle
istruzioni per la comunicazione di notizie relative alle  informative
di reato diramate dal Capo  della  polizia-direttore  generale  della
pubblica sicurezza  con  circolari  dell'8  ottobre  2016  e  del  10
novembre  2016,  del  resto   allegate   all'atto   di   costituzione
dell'Avvocatura   generale).   Ne'   sarebbe   necessario   attendere
l'evenienza di un caso  specifico  che  renda  concreta  la  lesione,
poiche'  lo  stesso  ricorrente  ha  precisato  che  la  disposizione
impugnata  e'  destinata  a  trovare   indiscriminata   e   immediata
applicazione nella totalita' dei casi di inoltro di notizie di  reato
da parte della polizia giudiziaria, notizie che  ogni  anno,  per  la
sola Procura ricorrente, ammonterebbero a circa cinquantamila. 
    2.4.- Al medesimo esito di  non  fondatezza  e'  destinata  anche
l'eccezione  d'inammissibilita'  del   conflitto   per   carenza   di
motivazione,  che  l'Avvocatura  generale  ricava  dalla  circostanza
dell'inclusione, nel ricorso del Procuratore della Repubblica  presso
il Tribunale di Bari, di ampie  parti  della  delibera  adottata  dal
Consiglio superiore  della  Magistratura  in  data  15  giugno  2017,
recante «Proposta ex art. 10, comma 2,  legge  n.  195  del  1958  al
Ministro  della  giustizia  finalizzata  ad  una  modifica  normativa
dell'art. 18, comma 5, del decreto legislativo  19  agosto  2016,  n.
177». 
    Sostiene, in particolare, la difesa del Governo  che  il  ricorso
consisterebbe nella mera  ed  acritica  trascrizione,  per  le  parti
ritenute rilevanti, della delibera citata, cio' che non soddisferebbe
il requisito dell'esposizione delle ragioni del conflitto,  richiesto
dall'art. 24 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale e dallo stesso art. 37 della legge n. 87 del 1953. 
    Questa Corte, tuttavia, attraverso l'ordinanza n. 273  del  2017,
ha gia' ritenuto che nel presente caso esiste materia di un conflitto
la cui risoluzione spetta alla sua competenza,  cosi'  implicitamente
escludendo carenze di motivazione  o  di  impostazione  del  ricorso,
rilevabili  d'ufficio,  che  avrebbero  potuto   inficiare   in   via
preliminare l'ammissibilita' del conflitto. 
    In ogni caso, l'infondatezza dell'eccezione consegue  al  rilievo
che il ricorrente, pur riportando letteralmente  ampi  stralci  della
delibera  ricordata,  afferma  con  chiarezza   di   farla   propria,
evidenziando come, a suo avviso, l'art. 18, comma 5,  del  d.lgs.  n.
177  del  2016  pregiudicherebbe  la   segretezza   delle   indagini,
l'esercizio   indipendente   dell'azione   penale   e   la    diretta
disponibilita' della  polizia  giudiziaria  da  parte  dell'autorita'
giudiziaria. Non si e' percio' in presenza di una mera argomentazione
per relationem. 
    3.- Confermata l'ammissibilita' del conflitto,  la  delimitazione
dei termini in cui esso si presenta  comporta  il  preliminare  esame
dell'ulteriore  eccezione,  formulata  in  subordine  dall'Avvocatura
generale, volta a sostenere l'inammissibilita' del  primo  motivo  di
ricorso, ossia la violazione dell'art. 76 Cost.  ad  opera  dell'art.
18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016. 
    Assume, in particolare, la difesa del Governo che  nel  conflitto
fra poteri dello Stato sarebbe possibile lamentare  la  sola  lesione
dei parametri costituzionali che delineano le attribuzioni del potere
cui appartiene l'organo ricorrente,  mentre  non  sarebbe  consentito
dolersi della violazione di una  disposizione  costituzionale,  quale
l'art. 76 Cost., che, riguardando  i  rapporti  tra  legge  delega  e
decreto legislativo delegato, attiene  al  corretto  atteggiarsi  del
sistema delle fonti del diritto. 
    La  prospettazione  dell'Avvocatura  generale   e'   corretta   e
l'eccezione e' dunque fondata. 
    In linea di  principio,  l'organo  ricorrente  per  conflitto  di
attribuzione deve  lamentare  una  diretta  lesione  delle  sfere  di
competenze che la Costituzione gli riconosce, e tale esigenza e',  se
possibile, ancor piu' stringente  laddove  il  conflitto  tra  poteri
dello Stato abbia ad oggetto un atto avente  valore  legislativo.  In
assenza di tale limitazione, il significato del  ricorso  al  rimedio
del conflitto tra  poteri  potrebbe  risultarne  alterato  in  misura
significativa, fino a trasformarsi in un controllo di conformita'  di
una  disposizione  legislativa  alla  luce  di  qualunque   parametro
costituzionale, controllo che  investirebbe  il  potere  dello  Stato
ricorrente di una inesistente funzione di vigilanza costituzionale  e
del compito di sollecitare a questo scopo  l'intervento  della  Corte
costituzionale.  Questa  considerazione   risulterebbe   ancor   piu'
evidente proprio in riferimento all'art. 76 Cost.,  in  virtu'  della
natura logicamente  preliminare  dello  scrutinio  che  lo  assume  a
parametro,  che  involge  il  corretto   esercizio   della   funzione
legislativa (ex plurimis, sentenze n. 51 del 2017 e n. 250 del 2016). 
    Allegando  la  violazione  dell'art.  76   Cost.,   ritiene,   in
particolare, il Procuratore della Repubblica presso il  Tribunale  di
Bari che la disposizione impugnata per  conflitto,  contenuta  in  un
decreto legislativo, non troverebbe fondamento in alcun  principio  e
criterio direttivo della legge n. 124 del 2015. L'art.  8,  comma  1,
lettera  a),  di  quest'ultima,  infatti,  si  sarebbe  limitato   ad
autorizzare il Governo a razionalizzare e potenziare le attivita'  di
polizia,  anche  in  funzione  di  una  migliore   cooperazione   sul
territorio, al fine di evitare sovrapposizioni  di  competenze  e  di
favorire  la  gestione  associata  dei  servizi   strumentali.   Tale
previsione -  preordinata,  in  conformita'  alla  ratio  ispiratrice
dell'intera  legge  di  delega,  ad  esigenze  di  semplificazione  e
razionalizzazione di uffici, servizi ed impiego del personale  -  non
sarebbe  sufficiente,  ad  avviso   della   Procura   ricorrente,   a
giustificare l'introduzione della disposizione oggetto del conflitto. 
    Il ricorrente,  per  vero,  non  ragiona  esplicitamente  di  una
"ridondanza" dell'asserita violazione  dei  principi  e  dei  criteri
direttivi della delega sulle proprie attribuzioni  costituzionali  di
cui agli artt. 109 e 112 Cost.: ma, anche a voler ritenere  che  tale
asserzione sia implicita nel ricorso, e'  agevole  osservare  che  la
lamentata  incisione  sulle  sue   attribuzioni,   da   parte   della
disposizione  impugnata   per   conflitto,   deriverebbe   non   gia'
dall'eventuale eccesso di delega imputabile all'art. 18, comma 5, del
d.lgs. n. 177 del 2016, bensi', in via  diretta  e  immediata,  dalla
violazione dei parametri costituzionali, prima ricordati,  pertinenti
alle attribuzioni del pubblico ministero. 
    In definitiva, quand'anche conseguente ad un  intervento  che  un
potere dello Stato abbia compiuto in asserita carenza di potere  (per
avere adottato una disposizione di decreto  legislativo  reputata  in
eccesso di delega), il pregiudizio lamentato resta arrecato alla sola
sfera di  attribuzioni  direttamente  e  specificamente  riconosciuta
dalla Costituzione  al  ricorrente.  E  il  ricorso  al  rimedio  del
conflitto e' dato solo per la tutela di tali attribuzioni, alla  luce
dei  parametri  costituzionali  che  delimitano,  tra  i  poteri   in
conflitto, il perimetro delle rispettive competenze. 
    Del resto, nella piu' recente pronuncia che decise  un  conflitto
di attribuzione tra poteri  dello  Stato  promosso  dalla  Corte  dei
conti, nel quale era allegata  la  violazione  proprio  dell'art.  76
Cost.,  questa  Corte  affermo'  con  chiarezza  che   «il   soggetto
costituzionale   confliggente   puo'   far   valere   nel   conflitto
esclusivamente le norme della  Costituzione  che  ne  configurano  le
attribuzioni» (sentenza  n.  221  del  2002;  in  senso  parzialmente
analogo, sentenze n. 139 del 2001 e n. 457 del 1999).  Se  in  quella
pronuncia tra tali norme fu ricompreso l'art. 76 Cost., cio'  derivo'
dalla specificita' del caso e dalla posizione del potere  ricorrente,
appunto la Corte dei conti. 
    4.- Nel merito, il ricorso e'  fondato,  essendo  stata  lesa  la
sfera  di  attribuzioni  costituzionali  del   ricorrente   delineata
dall'art. 109 Cost. 
    Nel presente caso, le peculiarita' della disposizione oggetto  di
conflitto pongono innanzitutto in discussione la  diretta  dipendenza
funzionale  della  polizia  giudiziaria  dall'autorita'  giudiziaria.
L'art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016  prevede  infatti,  in
capo alla polizia giudiziaria,  obblighi  informativi  in  deroga  al
segreto investigativo in favore di soggetti,  estranei  al  perimetro
della polizia giudiziaria stessa, che si identificano  nei  superiori
gerarchici dei responsabili dei presidi di polizia di volta in  volta
interessati. Proprio questo aspetto pone  in  tensione  il  principio
delineato  dall'art.  109  Cost.,  con  assorbimento,  invece,  delle
censure relative all'asserita lesione dell'art. 112 Cost. 
    4.1.- La disposizione impugnata e' inserita nel  contesto  di  un
atto normativo attraverso il quale il Governo,  in  attuazione  della
legge di delega n. 124 del 2015, persegue lo scopo  di  riorganizzare
l'assetto delle Forze di polizia (ben cinque,  due  delle  quali  con
competenze generali) e la loro presenza e attivita'  sul  territorio.
In estrema sintesi, per raggiungere tale scopo, il d.lgs. n. 177  del
2016 prevede una (relativa) specializzazione dei compiti, per evitare
sovrapposizione  di  competenze;  una   migliore   dislocazione   sul
territorio,  che  impedisca  duplicazioni  e  consenta  un  razionale
impiego del personale; una gestione associata dei servizi strumentali
e degli acquisti, a fini di  risparmio;  infine,  l'assorbimento  del
Corpo forestale dello Stato nell'Arma dei carabinieri. 
    Si tratta di una riorganizzazione assai complessa, che incide  in
profondita' sulle strutture e sul personale  di  tutte  le  Forze  di
polizia, e il  cui  completamento  comporta  l'approvazione  di  vari
provvedimenti di attuazione. 
    L'impugnato  art.  18,  comma  5,  del  d.lgs.  in  questione  e'
rubricato sotto il titolo «Disposizioni di coordinamento, transitorie
e finali». Dopo aver stabilito che alcuni dei provvedimenti attuativi
devono essere adottati entro sei mesi dalla data di entrata in vigore
del decreto legislativo e trovare applicazione dal 1°  gennaio  2017,
il comma impugnato testualmente dispone: «Entro il medesimo  termine,
al fine di rafforzare gli interventi di  razionalizzazione  volti  ad
evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace  e
omogeneo coordinamento informativo, il capo  della  polizia-direttore
generale della pubblica sicurezza e i vertici delle  altre  Forze  di
polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di
ciascun presidio di polizia  interessato,  trasmettono  alla  propria
scala gerarchica le notizie relative all'inoltro delle informative di
reato all'autorita'  giudiziaria,  indipendentemente  dagli  obblighi
prescritti dalle norme del codice di procedura penale». 
    Il periodo citato, che coincide  con  la  parte  di  disposizione
oggetto di conflitto, non compariva nell'originario schema di decreto
legislativo, predisposto dal  Governo  e  sottoposto  al  parere  del
Consiglio di Stato e delle Commissioni parlamentari. Esso fu  infatti
introdotto  nel  testo  finale  per  dar  seguito  all'invito   delle
Commissioni I e IV della Camera dei deputati, formulato in  occasione
dell'espressione del  parere  sullo  schema  di  decreto  legislativo
(analogo suggerimento non si trova, invece,  nel  parere  del  Senato
della Repubblica). 
    In tale parere, approvato nella seduta del 12 luglio 2016,  viene
suggerito  al  Governo,  per  «garantire   un   coordinamento   anche
informativo al fine di evitare duplicazioni  e  sovrapposizioni»,  di
valutare  «l'opportunita'  di  applicare   la   previsione   di   cui
all'articolo 237 del T.U.O.M.  (Testo  Unico  delle  disposizioni  in
materia di ordinamento militare) a tutte le Forze di polizia  di  cui
al presente decreto». 
    Tale ultima disposizione, di rango  regolamentare,  prevede  che,
«[i]ndipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice
di procedura penale, i comandi dell'Arma dei  carabinieri  competenti
all'inoltro delle informative  di  reato  all'autorita'  giudiziaria,
danno notizia alla scala gerarchica della  trasmissione,  secondo  le
modalita' stabilite con apposite istruzioni del  Comandante  generale
dell'Arma dei carabinieri». 
    Nella impugnata disposizione del d.lgs. n.  177  del  2016  viene
quindi inserita una norma che - a prescindere da qualche  difformita'
lessicale - riprende nella sostanza la formulazione gia' contenuta in
una norma di carattere regolamentare, prevista per la sola  Arma  dei
carabinieri. L'efficacia di una norma del genere e'  cosi'  estesa  a
tutte le Forze di polizia, e la sua forza diventa quella di una fonte
primaria. 
    4.2.-  La  previsione,  a  carico  degli  ufficiali  di   polizia
giudiziaria, di un obbligo informativo ai propri superiori gerarchici
in  ordine  all'inoltro  di   notizie   di   informative   di   reato
all'autorita' giudiziaria  pone  in  primo  luogo  la  questione  del
rapporto tra tale obbligo e la  disciplina  contenuta  nell'art.  329
cod. proc. pen., in tema di segreto investigativo. 
    Nell'attuale sistema del codice di rito, il segreto investigativo
e' un segreto "specifico", cioe' relativo a singoli atti  d'indagine,
non perpetuo ma, normalmente, limitato nel tempo. Esso deve assistere
gli atti d'indagine compiuti dal pubblico ministero e  dalla  polizia
giudiziaria fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e,
comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari.  Tra  gli
atti coperti da tale forma di segreto rientra, indubbiamente,  quello
attraverso il quale, ai sensi  dell'art.  347  cod.  proc.  pen.,  la
polizia giudiziaria, acquisita la notizia di un reato,  ne  riferisce
senza ritardo e per iscritto al pubblico ministero. 
    Impedendo che sia conosciuto il contenuto di un atto  d'indagine,
il segreto investigativo, secondo la giurisprudenza di  questa  Corte
(sentenze n. 420 e n. 59 del 1995), si appalesa strumentale  al  piu'
efficace esercizio dell'azione penale, al fine  di  scongiurare  ogni
possibile  pregiudizio  alle  indagini,  innanzitutto  a   causa   di
un'anticipata  conoscenza  delle  stesse  da  parte   della   persona
indagata.  Il  collegamento  del  segreto   con   l'efficacia   delle
investigazioni e' confermato dalla circostanza che viene riconosciuto
al pubblico ministero l'ulteriore potere di vietare la  pubblicazione
di atti non piu' coperti dal segreto, in caso di specifiche  esigenze
attinenti all'attivita' d'indagine  (art.  391-quinquies  cod.  proc.
pen.). 
    D'altra parte, la giurisprudenza costituzionale (ancora  sentenza
n. 420 del 1995) ha  gia'  riconosciuto  che  «l'inderogabilita'  del
segreto investigativo non riceve, in assoluto, "copertura"  nell'art.
112  della  Costituzione,  nel  senso  che   non   qualsiasi   deroga
all'obbligo del segreto sugli atti d'indagine [...]  integra  di  per
se' lesione dell'indicato precetto, ben potendo tale  obbligo  subire
limitazioni od attenuazioni a tutela di altri  interessi  di  rilievo
costituzionale». E, in effetti, diverse norme del codice di procedura
penale prevedono deroghe all'art. 329 cod. proc. pen,  per  finalita'
varie (si pensi, ad esempio, agli artt. 117, 118 e 118-bis cod. proc.
pen.). Ma, nello stesso sistema del codice di rito, resta  fermo  che
ogni deroga al segreto  investigativo  avviene  previo  vaglio  della
stessa autorita' giudiziaria  competente,  che  ben  puo'  rigettare,
motivandone le ragioni, una richiesta di atti  e  informazioni:  cio'
che, come si dira' meglio  piu'  avanti,  la  disposizione  impugnata
invece non prevede. 
    4.3.- La prassi risulta peraltro aver fornito  una  modalita'  di
composizione, in via interpretativa, del  problematico  rapporto  tra
tale complessiva disciplina del segreto investigativo e  l'originaria
disposizione, di rango solo regolamentare, contenuta  nell'art.  237,
comma 1, del d.P.R. n. 90 del 2010, relativo  unicamente  ai  comandi
dell'Arma dei carabinieri. Attraverso una  serie  di  disposizioni  a
carattere interno all'Arma, e' stato infatti stabilito - come  emerge
dalla ricordata delibera del Consiglio superiore  della  Magistratura
del 15 giugno 2017 - che  le  segnalazioni  ai  superiori  gerarchici
debbano limitarsi a riportare  gli  elementi  essenziali  del  fatto,
escludendo  qualsiasi  aspetto  di  interesse  investigativo  e   con
l'osservanza degli obblighi  di  cui  al  cod.  proc.  pen.  e  delle
relative norme di attuazione. 
    Si e' trattato,  d'altra  parte,  di  un'interpretazione  imposta
dallo stesso sistema delle fonti, giacche' una disposizione di  rango
regolamentare  non  avrebbe  mai  potuto  validamente  derogare  alla
disciplina in tema di segreto investigativo, introdotta dall'art. 329
cod. proc. pen. con superiore forza di  legge.  Cosi',  l'espressione
«indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme  del  codice
di procedura penale», attraverso un sia  pur  generoso  ricorso  alla
natura polisensa dell'avverbio iniziale, e'  stata  fin  dall'origine
intesa nel senso che tali obblighi devono essere  "fatti  salvi";  ed
essendosi dunque esclusa, perche' impedita  dal  rango  della  fonte,
ogni deroga al segreto investigativo, l'art. 237 del d.P.R. n. 90 del
2010 e' stato infine effettivamente applicato solo  in  vista  di  un
coordinamento informativo a finalita' organizzative. 
    Mette conto ricordare che, anche dopo l'entrata in  vigore  della
disposizione   impugnata,   il   Comando   generale   dell'Arma   dei
carabinieri, con nota del 13 marzo 2017, ha chiarito che deve  essere
tenuta ferma la ricordata interpretazione del citato  art.  237,  con
applicazione delle connesse istruzioni operative. 
    La trasposizione in fonte primaria di una norma analoga a  quella
di fonte regolamentare solleva all'evidenza una  serie  di  questioni
ulteriori, non foss'altro perche' l'equiparazione di grado delle  due
fonti di disciplina, quella in tema di segreto investigativo e quella
che prescrive obblighi informativi  della  polizia  giudiziaria  alla
propria scala gerarchica, pone le norme da  ciascuna  rispettivamente
contenuta in posizione potenzialmente antagonista, non escludendo, in
principio, la conseguenza che il ricordato coordinamento  informativo
a finalita' organizzative trasmodi  in  una  forma  di  coordinamento
investigativo alternativa a quello affidato  al  pubblico  ministero,
proprio perche' condotto non gia' "fatti salvi" gli obblighi previsti
dal codice di procedura penale, ma in deroga ad essi. 
    5.- Ricalcato, ma solo in  parte,  sul  ricordato  art.  237  del
d.P.R. n. 90 del 2010, l'art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016
precisa che suo obbiettivo, in coerenza con il contenuto del  decreto
legislativo in cui viene inserito, e' «rafforzare gli  interventi  di
razionalizzazione» nell'impiego delle diverse Forze  di  polizia  sul
territorio,  per  «evitare  duplicazioni   e   sovrapposizioni».   Lo
strumento viene identificato in un «efficace e omogeneo coordinamento
informativo», che richiede ai responsabili  di  ciascun  presidio  di
polizia di trasmettere «alla  propria  scala  gerarchica  le  notizie
relative  all'inoltro  delle  informative  di   reato   all'autorita'
giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle  norme
del codice di procedura penale». 
    Sul versante dell'attivita' di polizia, la disposizione impugnata
disciplina senza dubbio interessi meritevoli di tutela, cosi' come lo
sono,   sul   versante   delle   indagini   condotte   dall'autorita'
giudiziaria,  le  esigenze  relative  all'efficace  conduzione  delle
investigazioni  e   alla   diretta   disponibilita'   della   polizia
giudiziaria. Il coordinamento informativo tra  le  diverse  Forze  di
polizia  e  all'interno  di  ciascuna  di  esse,  la  piu'  razionale
dislocazione  del  personale  e   delle   risorse   strumentali   sul
territorio, in quanto destinate a favorire l'opera di  prevenzione  e
repressione dei reati, e quindi la garanzia della sicurezza pubblica,
sono esigenze di rango costituzionale. Proprio in quanto  finalizzati
alla garanzia  della  sicurezza  pubblica,  un  razionale  impiego  e
un'efficace dislocazione sul territorio degli  apparati  personali  e
strumentali delle  Forze  di  polizia  possono  anche  comportare  la
trasmissione di notizie relative alle indagini,  ma  va  da  se'  che
questa  deve  essere  regolata  secondo  un  attento  e   ragionevole
bilanciamento tra interessi e principi potenzialmente confliggenti. 
    5.1.- La verifica delle concrete modalita' attraverso le quali il
legislatore ha realizzato il  bilanciamento  in  parola  costringe  a
rilevare,  innanzitutto,  profili   di   significativa   incongruita'
rispetto agli obbiettivi  che  la  stessa  disposizione  in  premessa
espone. 
    E' bene chiarire subito che,  in  riferimento  all'ultimo  inciso
dell'art.  18,  comma  5,  del  d.lgs.  n.  177  del  2016,  non   e'
percorribile la via di  un'interpretazione  che  legga  l'espressione
«indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme  del  codice
di procedura penale» nel senso che tali obblighi siano "fatti salvi",
ricorrendo alla stessa generosa lettura data, peraltro solo  in  sede
amministrativa ed operativa, all'art. 237 d.P.R. n. 90 del 2010. 
    Osta a tale via un evidente argomento letterale.  Il  significato
piu'  comune  e  diffuso  dell'avverbio  «indipendentemente»,  subito
percepibile dall'interprete, e' quello che allude a una  eccezione  o
deroga, al prescindere da qualcosa.  Non  e'  senza  significato  che
l'Avvocatura generale abbia  esplicitamente  rivendicato  proprio  la
natura derogatoria, rispetto agli obblighi prescritti dal  codice  di
rito, dei compiti  informativi  imposti  agli  ufficiali  di  polizia
giudiziaria  dalla  disposizione  impugnata,  accostandola  ad  altre
previsioni legislative che recano eccezione al segreto investigativo,
dimenticando, tuttavia, che  tutte  tali  altre  deroghe,  come  s'e'
visto,  richiedono  l'assenso  della  stessa  autorita'   giudiziaria
competente, mentre di un tale assenso non v'e' traccia nell'art.  18,
comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016. Cosi' come non e' secondario che
la natura derogatoria di quei compiti sia esplicitamente  presupposta
dalle ricordate istruzioni del Capo della polizia-direttore  generale
della pubblica sicurezza (che ragionano di una, sia  pur  «limitata»,
«eccezione al  regime  di  riservatezza  degli  atti  delle  indagini
preliminari stabiliti dall'art. 329 c.p.p. o derivanti dall'esercizio
del  potere  di  segretazione  devoluto  al  Pubblico  Ministero  dal
successivo art. 391-quinquies»). 
    Da questo punto di vista, il tenore letterale dell'art. 18, comma
5, del d.lgs. n. 177 del 2016 e' chiaro,  cosi'  come  chiara  e'  la
prospettazione del ricorrente, che domanda a questa Corte  la  difesa
della propria  sfera  di  attribuzioni  assumendo,  appunto,  che  la
disposizione  legislativa  oggetto  di  conflitto  quel   significato
derogatorio contenga  e  permetta,  senza  alcun  vaglio  preliminare
affidato all'autorita' giudiziaria che conduce le indagini. 
    Risulterebbe del resto singolare  che  il  manifesto  significato
della disposizione, inteso concordemente in questo modo dalle  stesse
parti del giudizio (che pur ne fanno conseguire opposte valutazioni),
venga piegato secondo cio' che una prassi operativa antiletterale  ha
dovuto escogitare, allo scopo di evitare  l'illegittimita'  di  altra
analoga fonte, peraltro di rango regolamentare. 
    5.2.- Chiara nella sola introduzione di una  deroga  ad  obblighi
del codice di rito, la disposizione impugnata lo e' assai meno  nelle
altre parti del suo contenuto precettivo. Essa si limita  a  indicare
in termini di larga massima obbiettivi  e  contenuto  dell'intervento
normativo, che si avvale peraltro di una tecnica lessicale incerta  e
fonte di ambiguita', e prevede che le indispensabili  precisazioni  e
dettagli siano contenute in apposite «istruzioni» adottate  dal  Capo
della polizia-direttore  generale  della  pubblica  sicurezza  e  dai
vertici delle altre Forze  di  polizia  (per  cio'  che  concerne  la
Polizia di Stato, tali istruzioni  sono  state  adottate  in  data  8
ottobre 2016, e ulteriormente precisate in data 10 novembre 2016;  il
Comando generale della Guardia di Finanza risulta aver proceduto  con
atto in  data  13  marzo  2017,  che  si  segnala  per  un  esplicito
riferimento  alla  necessita'   di   tener   conto   del   «dibattito
istituzionale» originato dall'art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del
2016; il  Comando  generale  dell'Arma  dei  carabinieri,  come  gia'
ricordato, ha confermato le istruzioni operative  gia'  impartite  in
relazione all'art. 237 del d.P.R. n. 90 del 2010). 
    Gia' sotto questo preliminare profilo, l'art. 18,  comma  5,  del
d.lgs. n. 177  del  2016  si  appalesa  frutto  di  un  bilanciamento
inadeguato fra esigenze, come detto, entrambe meritevoli di tutela. 
    In connessione al  significato,  prima  ricordato,  dell'avverbio
«indipendentemente», appaiono infatti incongrue l'indeterminatezza  e
la genericita' di vari aspetti del contenuto precettivo recato  dalla
disposizione, nonche' la  circostanza  che  esse  siano  da  colmarsi
attraverso l'adozione di istruzioni da  parte  dei  vertici  di  ogni
Forza di polizia. Al contrario, proprio una disposizione che  intende
introdurre,   per   finalita'   di   coordinamento   informativo    e
organizzativo, una deroga a obblighi previsti dal codice di procedura
penale,  posti  a  tutela   del   principio   di   segretezza   delle
investigazioni, deve specificare nel dettaglio i confini della deroga
stessa. 
    La definizione del preciso perimetro di questi ultimi  e'  invece
affidata a circolari interne, adottate dalle  stesse  amministrazioni
interessate,  coinvolgendo  la  specificazione  di  alcuni   elementi
essenziali dell'obbligo informativo posto a carico degli ufficiali di
polizia giudiziaria. 
    Cio' accade per la stessa delimitazione dell'ambito soggettivo di
applicazione  della  disposizione  in   esame,   che   si   riferisce
genericamente, da un lato, ai «responsabili di  ciascun  presidio  di
polizia  interessato»,  e  dall'altro  alla  «scala  gerarchica»   di
riferimento di tali responsabili, senza ulteriori  specificazioni  ma
con sicuro rinvio a soggetti che per  definizione  non  rivestono  la
qualifica  di  ufficiali  di  polizia  giudiziaria.  Sotto  il  primo
profilo,   quello   dei   soggetti   sui   quali   grava    l'obbligo
d'informazione, cio' ha determinato incertezze che hanno, ad esempio,
indotto il  Capo  della  polizia-direttore  generale  della  pubblica
sicurezza, in una corrispondenza intrattenuta con alcuni  procuratori
della Repubblica, a chiarire, con nota del  6  marzo  2017,  peraltro
senza alcun aggancio testuale nell'art. 18, comma 5,  del  d.lgs.  n.
177 del 2016, che l'obbligo informativo non  varrebbe  a  carico  dei
componenti le sezioni di polizia giudiziaria  istituite  presso  ogni
procura della Repubblica; in relazione al secondo aspetto, quello dei
beneficiari dell'obbligo, la disposizione rende del  tutto  probabile
che notizie coperte dal segreto investigativo finiscano  nella  sfera
di conoscenza di una platea ampia di soggetti  che  non  hanno  alcun
titolo  a  rapportarsi  con  l'autorita'  giudiziaria   concretamente
competente sull'attivita' d'indagine. Ne' varrebbe osservare che essi
sono  tenuti  a  rispettare  il  segreto  d'ufficio,  giacche'  -   a
prescindere dal loro numero potenzialmente assai  elevato,  cio'  che
rende la riservatezza delle notizie illusoria - il nucleo del segreto
d'indagine e' stato ormai infranto, quanto meno a loro beneficio. 
    Un medesimo sostanziale rinvio della  definizione  del  perimetro
applicativo della disposizione alle istruzioni impartite dai  vertici
delle  Forze  di  polizia  si  verifica  anche  in   relazione   alla
identificazione  dell'ambito  oggettivo  di  cio'  che  deve   essere
comunicato ai superiori: la locuzione utilizzata  («notizie  relative
all'inoltro delle informative di  reato  all'autorita'  giudiziaria»)
lascia  l'interprete  nel   dubbio   se   oggetto   dell'obbligo   di
trasmissione sia l'informativa  di  reato,  oppure  solo  la  notizia
relativa al suo inoltro, e se percio' le informazioni  da  comunicare
debbano essere limitate a  dati  esteriori  effettivamente  utili  al
coordinamento informativo e  organizzativo  (numero  degli  indagati,
tipologia di reati,  complessita'  delle  indagini),  oppure  debbano
ricomprendere dati di interesse investigativo (ad  esempio,  il  nome
degli indagati o dei destinatari di  attivita'  d'intercettazione  in
corso, il contenuto di singoli atti investigativi, eccetera). 
    Ancora, interrogativi riguardano la stessa  ampiezza  complessiva
delle informazioni da trasmettere, poiche' la disposizione  impugnata
non   chiarisce   se   l'obbligo    informativo    riguardi    tutte,
indiscriminatamente, le notitiae criminis, ovvero solo una  selezione
delle piu' rilevanti tra  di  esse,  lasciando  anche  qui  spazio  a
istruzioni che mettono in  risalto  un'ampia  discrezionalita'  degli
ufficiali   di   polizia   giudiziaria   nella   scelta   di   quanto
effettivamente  inoltrare  al  livello   superiore.   Con   ulteriori
interrogativi circa il destino e  il  trattamento  di  questa  massa,
potenzialmente assai ampia, di dati e informazioni personali, che per
definizione rientrano, alla luce della disciplina vigente, tra i dati
oggetto di particolarissime  cautele  in  termini  di  conservazione,
trattamento e, naturalmente, tutela della  riservatezza.  Si  tratta,
infatti,  di  dati  rientranti  nel  novero  di  quelli  «giudiziari»
protetti da una speciale disciplina, dettata  dapprima  dall'art.  4,
comma 1, lettera e), del decreto legislativo 30 giugno 2003,  n.  196
(Codice  in  materia  di  protezione  dei  dati  personali)  e,  ora,
dall'art. 10 del Regolamento (UE) n. 679/16 del Parlamento europeo  e
del  Consiglio,  del  27  aprile  2016  (regolamento  generale  sulla
protezione dei dati). 
    Qualche  incertezza,  inoltre,  emerge  in  ordine  all'eventuale
esaurirsi  dell'obbligo  d'informazione  con  la  prima  trasmissione
dell'iniziale notizia di reato, oppure al suo estendersi (come  esige
esplicitamente la circolare del Capo della polizia-direttore generale
della  pubblica  sicurezza  prima  ricordata),  anche  ai  cosiddetti
seguiti   d'indagine,   in   quanto   rilevanti    per    l'esercizio
dell'attivita' di raccordo informativo. 
    6.- I dubbi e gli interrogativi  suscitati  dal  tenore  testuale
dell'art. 18, comma 5, del d.lgs. n.  177  del  2016  rafforzano  gli
argomenti con i quali  il  Procuratore  della  Repubblica  ricorrente
lamenta la lesione, ad opera  di  tale  disposizione,  della  propria
sfera di attribuzioni delineata dall'art. 109 Cost. 
    E'  risalente  la  giurisprudenza  con  la  quale  questa   Corte
(sentenze n. 114 del 1968 e n. 94 del 1963) ha  chiarito  che  l'art.
109   Cost.,   prevedendo   che   l'autorita'   giudiziaria   dispone
direttamente della polizia  giudiziaria,  ha  il  preciso  e  univoco
significato di istituire un rapporto di dipendenza  funzionale  della
seconda nei confronti della prima, escludendo interferenze  di  altri
poteri nella conduzione delle indagini, in modo che la  direzione  di
queste  ultime  ne  risulti  effettivamente  riservata   all'autonoma
iniziativa e determinazione dell'autorita' giudiziaria medesima. 
    Tale rapporto di subordinazione funzionale, se  non  collide  con
l'organico rapporto di dipendenza burocratica  e  disciplinare  della
polizia giudiziaria nei confronti del potere  esecutivo  (secondo  la
logica della  duplice  soggezione,  che  lo  stesso  art.  109  Cost.
delinea: sentenza n.  394  del  1998),  non  ammette  invece  che  si
sviluppino,  foss'anche  per  legittime   esigenze   informative   ed
organizzative, forme di  coordinamento  investigativo  alternative  a
quello condotto dal pubblico ministero competente. 
    Come si e' visto, le ambiguita' testuali disseminate, sotto  vari
profili, nella disposizione impugnata, non escludono affatto che  gli
obblighi d'informazione nei confronti dei superiori gerarchici,  alla
luce dell'autorizzata deroga al rispetto degli obblighi previsti  dal
codice di  procedura  penale  a  tutela  del  segreto  investigativo,
finiscano invece per concentrare presso  soggetti  posti  ai  vertici
delle Forze di polizia una notevole quantita' di dati e  informazioni
di significato investigativo, ultronei rispetto  alle  necessita'  di
coordinamento e di organizzazione. 
    Tali soggetti non rivestono,  come  ricordato,  la  qualifica  di
ufficiali di polizia giudiziaria ai sensi  dell'art.  57  cod.  proc.
pen., ma detengono, del tutto legittimamente, un potere di  controllo
e  condizionamento  nei  confronti   degli   ufficiali   di   polizia
giudiziaria, derivante dallo stesso modello organizzativo che  l'art.
109 Cost. ha accolto. 
    Proprio per questa ragione, non e' astratto il  pericolo  che  ne
risultino interferenze nella diretta  conduzione  delle  indagini  da
parte dell'autorita' giudiziaria, in lesione, innanzitutto, dell'art.
109 Cost.  Inoltre,  la  comunicazione  ai  superiori  gerarchici  di
informazioni di significato investigativo,  indipendentemente  da  un
vaglio preliminare affidato al prudente apprezzamento  dell'autorita'
giudiziaria, carica di  significati  indebiti  la  stessa  dipendenza
burocratica degli appartenenti alla polizia  giudiziaria  rispetto  a
tali loro  superiori,  rischiando  per  converso  di  indebolirne  la
dipendenza funzionale rispetto al pubblico  ministero,  con  elusione
del delicato equilibrio scolpito nella disposizione costituzionale in
questione. 
    Le  importanti  esigenze  di  coordinamento  informativo   e   di
razionale organizzazione e dislocazione sul territorio delle Forze di
polizia,  in  funzione  di  tutela  della  sicurezza,  meritano   una
disciplina  attenta  alla   protezione   di   tutti   gli   interessi
potenzialmente confliggenti, non gia' una regolamentazione dai tratti
incerti e palesemente sproporzionati all'obbiettivo perseguito. 
    Il  coordinamento  informativo   e   quello   organizzativo   non
coincidono con quello investigativo. Si tratta di  funzioni  diverse,
che la legislazione ordinaria non puo' confondere  o  sovrapporre,  a
prezzo di violare il sistema costituzionale, dal quale si deduce  che
tali funzioni devono restar disciplinate secondo logiche e competenze
distinte. Vi possono ben essere, tra di esse, inevitabili e  finanche
utili connessioni, allo scopo di consentire il migliore  utilizzo,  e
la  piu'  razionale  dislocazione,  delle  Forze   di   polizia   sul
territorio. In tali casi,  se  lo  richiedono  siffatte  esigenze  di
coordinamento informativo e organizzativo, puo' essere prevista dalla
legge la trasmissione di notizie relative ad atti  del  procedimento.
Essendo pero' necessario rispettare il delicato equilibrio  delineato
dall'art.  109  Cost.,  deve  essere  in   ogni   caso   riconosciuto
all'autorita' giudiziaria  il  potere  di  stabilire  il  quando,  il
quomodo e il quantum delle notizie riferibili. 
    I complessivi difetti,  fin  qui  descritti,  della  disposizione
impugnata determinano la trasformazione di un legittimo coordinamento
informativo e organizzativo in una forma  indebita  di  coordinamento
investigativo,   in   lesione   delle   attribuzioni   dell'autorita'
giudiziaria. 
    In conclusione, non spetta al Governo della Repubblica  approvare
una disciplina come quella contenuta nel  secondo  periodo  dell'art.
18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016, che va pertanto annullata.