ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 1,
lettera  a),  del  decreto  legislativo  28  agosto  2000,   n.   274
(Disposizioni sulla competenza penale del giudice di  pace,  a  norma
dell'articolo  14  della  legge  24  novembre  1999,  n.  468),  come
modificato dall'art. 2, comma  4-bis,  del  decreto-legge  14  agosto
2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza  e  per  il
contrasto della violenza di genere, nonche'  in  tema  di  protezione
civile  e  di  commissariamento  delle  province),  convertito,   con
modificazioni, nella legge 15 ottobre  2013,  n.  119,  promosso  dal
Giudice per  le  indagini  preliminari  del  Tribunale  ordinario  di
Teramo, nel procedimento penale a carico di M. M., con ordinanza  del
7 marzo 2017, iscritta  al  n.  91  del  registro  ordinanze  2017  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  26,  prima
serie speciale, dell'anno 2017. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 7 novembre  2018  il  Giudice
relatore Giovanni Amoroso. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Giudice per  le  indagini  preliminari  del  Tribunale  di
Teramo, con ordinanza del 7 marzo 2017, ha sollevato, in  riferimento
agli artt. 3 e  24  della  Costituzione,  questioni  di  legittimita'
costituzionale  dell'art.  4,  comma  1,  lettera  a),  del   decreto
legislativo 28 agosto 2000, n.  274  (Disposizioni  sulla  competenza
penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della  legge  24
novembre 1999, n. 468), come modificato dall'art. 2, comma 4-bis, del
decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in  materia
di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonche'  in
tema di protezione civile  e  di  commissariamento  delle  province),
convertito, con modificazioni, nella legge 15 ottobre 2013,  n.  119,
nella parte in cui per il delitto previsto dall'art. 582  del  codice
penale - limitatamente alle  fattispecie  di  cui  al  secondo  comma
perseguibili a querela di parte  -  non  prevede  l'esclusione  della
competenza del giudice di pace anche per i fatti aggravati  ai  sensi
dell'art. 577, primo comma, numero 1), cod. pen., commessi contro  il
discendente non adottivo, quale il figlio naturale. 
    In  particolare,  il  rimettente,  quanto  alla   non   manifesta
infondatezza  dei  dubbi  di  costituzionalita',   afferma   che   la
disposizione censurata, non prevedendo l'esclusione della  competenza
per materia del giudice di  pace  anche  in  relazione  al  reato  di
lesioni  perseguibile  a  querela,  commesso  in  danno  del   figlio
naturale, e contemplandola invece per lo stesso reato  in  danno  del
figlio adottivo, confliggerebbe con l'art. 3 Cost. per violazione del
principio di eguaglianza e per irragionevolezza intrinseca. 
    Ad avviso del rimettente, si tratta di una disposizione che senza
giustificazione alcuna stabilisce, per il medesimo reato, un  diverso
criterio di riparto della competenza per materia, tra giudice di pace
e tribunale ordinario, incentrato sul riduttivo  richiamo  alle  sole
ipotesi di aggravamento della fattispecie delittuosa di cui  all'art.
582, secondo comma, cod. pen., previste dall'art. 577, secondo comma,
cod. pen. Infatti, soltanto le condotte consumate  dal  genitore  nei
confronti del figlio adottivo, gia'  di  competenza  del  giudice  di
pace, sono divenute di competenza del tribunale ordinario e non anche
quelle consumate in danno del figlio naturale,  ipotesi  disciplinata
al primo comma, numero 1), dell'art. 577 cod. pen.,  pur  trattandosi
di fattispecie connotate da uno stesso disvalore sociale  e  ispirate
ad una ratio punitiva del tutto sovrapponibile. 
    Inoltre,    la    disposizione    censurata     irragionevolmente
comporterebbe che, se il  reato  di  lesioni  personali  «lievi»  (in
realta' lievissime ex art. 582, secondo comma, cod. pen.) e' commesso
in danno del figlio adottivo, risulta compreso tra le fattispecie  di
cui all'art. 282-bis, comma 6, del codice  di  procedura  penale,  il
quale consente l'applicazione «della misura dell'allontanamento dalla
casa familiare», anche al  di  fuori  dei  limiti  di  pena  previsti
dall'art. 280 cod. proc. pen.; mentre, la' dove la medesima  condotta
risulti posta in essere in danno di un discendente, qual e' il figlio
naturale,  sussistendo  la  competenza  del  giudice  di  pace,  deve
escludersi l'applicabilita' della citata misura cautelare  personale,
ai sensi dell'art. 2, comma 1, lettera c),  del  d.lgs.  n.  274  del
2000. 
    Vi  sarebbe,  pertanto,  un'evidente  incoerenza  intrinseca   in
considerazione della piena equiparazione della tutela giurisdizionale
riservata al figlio adottivo rispetto al figlio naturale, vittime  di
condotte poste  in  essere  in  ambito  familiare.  Ne',  precisa  il
rimettente, sarebbe possibile  un'interpretazione  costituzionalmente
orientata  della  disposizione,  atteso  il  suo  chiaro  significato
letterale. 
    Sussisterebbe,  altresi',  la  violazione  dell'art.  24   Cost.,
perche' la disposizione censurata  determina  un  pregiudizio  per  i
diritti dell'indagato, costituito dalla oggettiva impossibilita'  per
il giudice di adottare un provvedimento ex art. 131-bis cod. pen. per
la lieve entita' del fatto, trovando applicazione l'art. 4, comma  1,
lettera a), del d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in  cui,  per  il
reato di lesioni «lievi» in  danno  del  figlio  naturale,  individua
quale  giudice  competente  per   materia   il   giudice   di   pace,
impossibilitato a definire il procedimento con  un  provvedimento  di
archiviazione ai sensi dell'art. 131-bis citato. 
    2.- In punto di rilevanza  della  questione,  il  GIP  rimettente
riferisce che all'udienza camerale ai sensi dell'art. 409,  comma  2,
cod. proc. pen., il difensore dell'indagato chiedeva  l'archiviazione
del procedimento, in via principale, per l'infondatezza della notizia
di reato e, in via subordinata, per l'operativita' della causa di non
punibilita' per la particolare tenuita' del fatto,  di  cui  all'art.
131-bis cod. pen. 
    Osserva il rimettente come tale epilogo decisorio risulti  a  lui
precluso in quanto obbligato a rilevare la propria  incompetenza  per
materia ai sensi dell'art. 22 cod. proc. pen., essendo  prevista  per
il reato in questione la competenza del giudice di pace, dal  momento
che la disposizione censurata esclude la competenza  di  quest'ultimo
in ordine al delitto di cui all'art. 582, secondo  comma,  cod.  pen.
per i soli fatti commessi contro uno dei soggetti elencati  dall'art.
577, secondo comma, cod. pen. e non anche per  i  fatti  commessi  in
danno del figlio naturale, che ricadono nell'ipotesi aggravata di cui
al numero 1) del primo comma dello stesso art. 577. 
    3.- Il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto  nel
presente giudizio di legittimita' costituzionale chiedendo  a  questa
Corte  di  dichiarare  l'inammissibilita'  o   l'infondatezza   delle
questioni. 
    In primo luogo, l'interveniente osserva che il rimettente lamenta
l'irrazionalita' della norma sulla  competenza  perche'  preclude  la
possibilita' di applicare al caso sottoposto al suo esame la speciale
causa di non punibilita' di cui all'art. 131-bis cod.  pen.,  sicche'
la questione non puo' ritenersi direttamente rilevante ai fini  della
decisione del processo  nel  corso  del  quale  e'  stata  sollevata.
Secondo  l'Avvocatura  generale  difetterebbe   la   pregiudizialita'
rispetto al giudizio a quo, in quanto le questioni  si  riferirebbero
all'applicazione di  una  norma  che  presuppone  la  competenza  del
giudice di pace. 
    Inoltre - osserva ancora l'Avvocatura  -  il  rimettente  non  si
sarebbe misurato con quella giurisprudenza  di  legittimita',  seppur
minoritaria, che  ritiene  applicabile  l'istituto  di  cui  all'art.
131-bis cod. pen. anche nel procedimento davanti al giudice di pace. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Giudice per  le  indagini  preliminari  del  Tribunale  di
Teramo, con ordinanza del 7 marzo 2017, ha sollevato, in  riferimento
agli artt. 3 e  24  della  Costituzione,  questioni  di  legittimita'
costituzionale  dell'art.  4,  comma  1,  lettera  a),  del   decreto
legislativo 28 agosto 2000, n.  274  (Disposizioni  sulla  competenza
penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della  legge  24
novembre 1999, n. 468), come modificato dall'art. 2, comma 4-bis, del
decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in  materia
di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonche'  in
tema di protezione civile  e  di  commissariamento  delle  province),
convertito, con modificazioni, nella legge 15 ottobre 2013,  n.  119,
nella parte in cui per il delitto previsto dall'art. 582  del  codice
penale - limitatamente alle  fattispecie  di  cui  al  secondo  comma
perseguibili a querela di parte (lesioni lievissime) - non esclude la
competenza del giudice di pace anche per i fatti aggravati  ai  sensi
dell'art. 577, primo comma, numero 1), cod. pen., commessi contro  il
discendente e segnatamente,  come  nella  specie,  contro  il  figlio
naturale (da ritenersi, sebbene non precisato dal rimettente,  quello
nato sia in costanza di matrimonio, sia al di fuori), cosi' come  per
i fatti commessi contro il discendente adottivo. 
    Il rimettente lamenta l'irragionevole previsione, per il medesimo
reato, di un diverso criterio di attribuzione  della  competenza  per
materia, tra giudice di pace e tribunale ordinario,  secondo  che  la
parte offesa del reato  di  lesioni  volontarie  lievissime  sia,  in
particolare, il figlio naturale o il figlio adottivo, con  violazione
dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.). 
    Sussisterebbe,  altresi',  la  violazione  dell'art.  24   Cost.,
perche'  la  disposizione  censurata  determina  un  pregiudizio  per
l'indagato costituito dall'impossibilita' per il giudice di  adottare
un provvedimento di archiviazione ai sensi  degli  artt.  411,  comma
1-bis, del codice di procedura penale e 131-bis cod. pen. per difetto
di punibilita' in ragione della particolare tenuita' del fatto. 
    2.- Preliminarmente, deve considerarsi che l'art. 577 cod.  pen.,
richiamato,  limitatamente  al  secondo  comma,  dalla   disposizione
censurata, e' stato modificato dall'art. 2  della  legge  11  gennaio
2018, n. 4 (Modifiche al codice civile, al codice penale,  al  codice
di procedura penale e altre disposizioni in favore degli  orfani  per
crimini  domestici),  che  costituisce  ius   superveniens   rispetto
all'ordinanza  di  rimessione.  In   particolare,   la   disposizione
sopravvenuta prevede che all'art. 577 cod. pen.  «sono  apportate  le
seguenti modificazioni: a) al primo comma, numero 1), dopo le  parole
"il discendente" sono aggiunte le seguenti:  "o  contro  il  coniuge,
anche legalmente separato, contro l'altra parte dell'unione civile  o
contro la persona legata al colpevole da relazione  affettiva  e  con
esso stabilmente convivente"; b) al secondo comma,  dopo  le  parole:
"il coniuge" sono inserite le seguenti:  "divorziato,  l'altra  parte
dell'unione civile, ove cessata"». 
    Risulta cosi' ampliato l'elenco  dei  soggetti  (persone  offese)
indicati dalla disposizione  richiamata  dalla  norma  censurata  per
includere per  alcuni  (art.  577,  secondo  comma)  o,  all'opposto,
escludere per altri (art. 577, primo comma, numero  1)  il  reato  di
lesioni lievissime dalla competenza del giudice  di  pace,  rimanendo
tuttavia invariata la censurata regola di competenza quanto al  reato
di lesioni lievissime in danno rispettivamente del figlio naturale  e
del figlio adottivo. 
    Si tratta, quindi, di  un  innesto  normativo  che  non  modifica
affatto i termini  delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale
sollevate dal giudice rimettente. 
    Non  vi  e'  ragione,  pertanto,  di  restituire   gli   atti   a
quest'ultimo per il riesame della rilevanza  delle  questioni  stesse
(da ultimo, sentenza n. 194 del 2018). 
    Non di meno,  la  previsione  di  ulteriori  ipotesi  di  lesioni
volontarie lievissime, quali  quelle  in  danno  del  coniuge,  anche
legalmente separato, o dell'altra parte dell'unione civile in  corso,
attribuite alla competenza del giudice di pace, al pari delle lesioni
lievissime in danno del  figlio  naturale,  oggetto  delle  sollevate
questioni di legittimita' costituzionale, sara'  invece  rilevante  -
come si dira' - al diverso fine della dichiarazione di illegittimita'
costituzionale in via consequenziale. 
    3.- In via ancora preliminare,  non  e'  fondata  l'eccezione  di
inammissibilita' formulata dall'Avvocatura generale dello Stato. 
    Il GIP rimettente, all'udienza fissata ai sensi degli artt.  409,
comma 2, e 411 cod. proc. pen., e' chiamato a pronunciarsi in  ordine
all'imputazione del reato di lesioni volontarie  di  un  genitore  in
danno del figlio naturale con  conseguente  malattia  di  durata  non
superiore a venti  giorni,  reato  previsto  dall'art.  582,  secondo
comma, cod. pen., aggravato ex art.  585,  primo  comma,  cod.  pen.,
stante il concorso  di  una  delle  circostanze  aggravanti  previste
dall'art. 577 cod. pen., e segnatamente quella prevista dal numero 1)
del primo comma, per essere stato il  fatto  commesso  in  danno  del
discendente. 
    Verificata  la  condizione  di   procedibilita'   della   querela
tempestivamente  proposta  dalla  parte  offesa,   il   GIP   si   e'
preliminarmente interrogato in ordine alla sua competenza  stante  il
disposto dell'art. 22  cod.  proc.  pen.,  secondo  cui  il  GIP,  se
riconosce la propria  incompetenza  per  qualsiasi  causa,  pronuncia
ordinanza  o  sentenza,  rispettivamente  nel  corso  delle  indagini
preliminari  o  dopo  la  chiusura  delle  stesse,   e   dispone   la
restituzione degli atti al pubblico ministero. 
    Osserva il rimettente che la competenza a pronunciarsi in  ordine
all'imputazione suddetta appartiene al giudice  di  pace  in  ragione
della regola posta dalla disposizione  censurata.  Egli,  quindi,  in
applicazione  di  tale  regola,  dovrebbe   dichiarare   la   propria
incompetenza e restituire gli atti al pubblico ministero. 
    Il  dubbio   non   manifestamente   infondato   di   legittimita'
costituzionale, espresso dal giudice  rimettente,  riguarda,  dunque,
una disposizione di cui egli dovrebbe fare applicazione e che censura
proprio nella parte in cui non prevede,  all'opposto,  la  competenza
del tribunale  ordinario;  cio'  assicura  la  rilevanza  e,  dunque,
l'ammissibilita'   delle   questioni   di   costituzionalita',    con
conseguente rigetto dell'eccezione proposta dall'Avvocatura generale. 
    Ne'  cio'  puo'  essere  revocato  in  dubbio  -  come   sostiene
l'Avvocatura - in ragione di un'argomentazione di supporto svolta dal
giudice rimettente, il quale ha aggiunto che, ove  fosse  competente,
dichiarerebbe  il  difetto  di  punibilita'  dell'indagato   per   la
particolare  tenuita'  del  fatto  ex   art.   131-bis   cod.   pen.;
disposizione questa che - secondo un recente orientamento della Corte
di cassazione (sezioni  unite  penali,  sentenza  22  giugno  2017-28
novembre 2017, n. 53683) - non sarebbe  applicabile  dal  giudice  di
pace, ossia dal giudice chiamato a pronunciarsi secondo la  censurata
regola di competenza. 
    Tale  rilievo  non  inficia  la  ritenuta  rilevanza,  e   quindi
l'ammissibilita', delle questioni di costituzionalita'  della  regola
di competenza: di quest'ultima il  giudice  rimettente  deve  innanzi
tutto fare applicazione, mentre la successiva applicabilita',  o  no,
dell'art. 131-bis cod. pen. costituisce un posterius,  ininfluente  a
tal fine. 
    Le considerazioni svolte dal giudice rimettente  in  ordine  alla
controversa   questione   -   recentemente   risolta   dalla   citata
giurisprudenza di legittimita' - del rapporto tra  la  causa  di  non
punibilita' per la particolare tenuita' del  fatto  ex  art.  131-bis
cod. pen., di  cui  conosce  il  tribunale  ordinario,  e  quella  di
improcedibilita', anch'essa per la particolare tenuita' del fatto, ex
art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000, di  cui  conosce  il  giudice  di
pace, costituiscono in realta' un mero  obiter  dictum,  inidoneo  ad
attrarre anche la prima disposizione  nell'oggetto  del  giudizio  di
costituzionalita',  che  concerne  solo  la   censurata   regola   di
competenza e la cui rilevanza e' assicurata dall'evidente  necessita'
per il giudice rimettente di fare applicazione di quest'ultima. 
    4.- Nel merito, la questione e' fondata in  riferimento  all'art.
3, primo comma, Cost., con  conseguente  assorbimento  dell'ulteriore
censura di violazione dell'art. 24 Cost. 
    5.- E' necessario  premettere  il  quadro  normativo  in  cui  si
colloca la questione di costituzionalita', che e'  fatto  di  plurimi
rinvii e richiami, formali e non gia' materiali, di disposizioni, si'
da risultare, nel complesso, alquanto tortuoso. 
    5.1.- Il censurato art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 274
del 2000 dispone, nella parte che qui rileva, che il giudice di  pace
e' competente: «a) per i delitti consumati o tentati  previsti  dagli
articoli 581, 582, limitatamente alle fattispecie di cui  al  secondo
comma perseguibili a  querela  di  parte,  ad  esclusione  dei  fatti
commessi contro uno dei soggetti elencati dall'articolo 577,  secondo
comma, ovvero contro il convivente [...]». 
    Inizialmente, tale  disposizione  -  che  recava  il  complessivo
catalogo dei reati attribuiti alla competenza del giudice di pace  in
deroga alla competenza del tribunale ordinario - prevedeva  il  reato
di lesioni volontarie cosiddette lievissime (art. 582, secondo comma,
cod. pen), ossia quelle che comportano una  malattia  di  durata  non
superiore a venti giorni, se perseguibili a querela, ossia in assenza
delle aggravanti  di  cui  all'art.  583  cod.  pen.,  che  contempla
l'ipotesi di lesioni gravi o gravissime, e all'art.  585  cod.  pen.,
che, oltre  a  particolari  modalita'  della  condotta,  richiama  le
circostanze aggravanti dell'omicidio volontario, sia ex art. 576  sia
ex art. 577 cod. pen. 
    Quindi, la competenza del giudice di pace,  quanto  al  reato  di
lesioni  volontarie,  era  ancorata  a  una  duplice  condizione:  a)
malattia di durata non superiore a venti giorni; b) perseguibilita' a
querela in assenza delle aggravanti suddette, ma  con  esclusione  di
quelle indicate nel numero 1)  e  nell'ultima  parte  dell'art.  577.
Ossia  se   le   lesioni   volontarie   erano   commesse   in   danno
dell'ascendente o del discendente (numero 1 del primo comma dell'art.
577), ovvero se il fatto era commesso contro il coniuge, il  fratello
o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio  adottivo,  o
contro un affine in linea retta (secondo  comma  dell'art.  577),  la
competenza era comunque del  giudice  di  pace,  pur  trattandosi  di
lesioni aggravate, ma in ogni caso perseguibili a querela. 
    Pertanto,  prima  della  modifica  della  regola  di   competenza
contestata dal giudice rimettente, le lesioni lievissime in danno del
figlio naturale e quelle in danno  del  figlio  adottivo  avevano  lo
stesso  trattamento  sostanziale  (quanto   alla   ricorrenza   della
circostanza aggravante) e processuale (quanto  alla  competenza):  se
punite a querela, per  essere  la  malattia  non  superiore  a  venti
giorni, era competente sempre il giudice di pace. 
    Questo assetto e' rimasto inalterato in occasione delle  ripetute
modifiche dell'art. 4 censurato e inalterato era inizialmente anche a
seguito del d.l. n. 93 del 2013. 
    E' stata solo la legge di conversione - come ora si viene  meglio
a dire - a modificare tale regola di competenza. Infatti,  le  parole
«ad esclusione dei fatti commessi contro uno  dei  soggetti  elencati
dall'articolo 577, secondo comma», nei cui confronti si appuntano  le
censure  del  giudice  rimettente,   sono   state   inserite,   nella
disposizione del citato d.lgs. n. 274 del 2000, dalla  legge  n.  119
del 2013, di conversione del d.l. n. 93 del 2013. 
    5.2.- Tale decreto-legge reca un complessivo intervento normativo
di repressione della violenza di genere, in sintonia peraltro con  la
pressoche' coeva ratifica, ad opera della legge 27  giugno  2013,  n.
77, della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione  e  la
lotta contro la violenza nei confronti  delle  donne  e  la  violenza
domestica, fatta a Istanbul l'11 maggio 2011. E'  di  tutta  evidenza
che il  decreto-legge  ha  avuto  come  scopo  principale  quello  di
contrastare in modo piu' incisivo la violenza  di  genere,  ossia  le
condotte violente poste in essere nell'ambito di contesti familiari o
comunque affettivi, rafforzando la tutela delle  vittime  considerate
piu' vulnerabili, quali le donne. 
    Tra le novita' di maggior rilievo recate dal d.l. n. 93 del  2013
vi e', per cio' che qui interessa, la modifica dell'art. 282-bis cod.
proc.  pen.,  disposizione  questa  introdotta  nel  codice  di  rito
dall'art. 1 della legge 4 aprile  2001,  n.  154  (Misure  contro  la
violenza nelle relazioni familiari) con la previsione di una speciale
misura cautelare personale: l'allontanamento dalla casa familiare. In
particolare, il comma 6 dell'art. 282-bis elencava una serie di reati
- artt. 570, 571, 600-bis,  600-ter,  600-quater,  609-bis,  609-ter,
609-quater, 609-quinquies e 609-octies cod. pen.  -  prevedendo,  tra
l'altro, che la misura cautelare potesse essere adottata anche al  di
fuori dei limiti edittali di pena fissati dall'art.  280  cod.  proc.
pen. 
    Il d.l. n. 93 del 2013, all'art.  2,  comma  1,  lettera  a),  ha
inserito nell'elenco del comma 6 dell'art. 282-bis  cod.  proc.  pen.
anche l'art. 582 cod. pen., limitatamente  alle  ipotesi  procedibili
d'ufficio o comunque aggravate, con l'intento di rendere  applicabile
la misura dell'allontanamento dalla casa  familiare  anche  a  questi
ulteriori  casi  di  lesioni  volontarie.  E,   simmetricamente,   ha
modificato l'art. 384-bis cod. proc. pen.  quanto  all'allontanamento
d'urgenza dalla casa familiare, reso anch'esso possibile in  caso  di
lesioni volontarie. 
    Tale finalita' di  un  piu'  incisivo  contrasto  della  violenza
domestica consistente in lesioni volontarie, in  particolare  con  la
prevista estensione della suddetta misura cautelare, risultava  pero'
non  pienamente  conseguita  in  quanto  per  le  lesioni  volontarie
lievissime perseguibili a querela (di cui al secondo comma  dell'art.
582) era ancora prevista la competenza del giudice di pace, al  quale
era - ed e' - interdetta l'adozione  di  misure  cautelari  personali
(art. 2, comma 1, lettera c, del d.lgs. n. 274 del 2000). 
    Sia il parere del Consiglio superiore della magistratura  del  10
ottobre 2013 sul d.l. n. 93 del 2013, che le audizioni in  Parlamento
in occasione della legge di  conversione  (Atto  Camera,  Commissioni
riunite I e II, seduta del 10 settembre 2013)  avevano  segnalato  il
problema: il giudice di pace, in  caso  di  lesioni  lievissime,  non
avrebbe potuto adottare la misura cautelare dell'allontanamento dalla
casa familiare (art. 282-bis). 
    Sicche', non sussistendo in capo al giudice di pace il potere  di
applicare    misure    restrittive    della    liberta'    personale,
necessariamente il legislatore ha dovuto modificare il  catalogo  dei
reati  attribuiti  alla  competenza  di   quel   giudice.   Occorreva
modificare la regola di competenza, se si voleva elevare il contrasto
della violenza domestica anche nel caso di lesioni lievissime. 
    A cio' ha rimediato la legge  di  conversione  n.  119  del  2013
modificando la regola di competenza (art. 4, comma 1, lettera a)  si'
da portare nella competenza del tribunale ordinario anche i reati  di
lesioni volontarie lievissime che prima erano esclusi. All'art. 2 del
decreto-legge e' stato aggiunto - come gia' detto -  il  comma  4-bis
che ha sottratto alla competenza del giudice  di  pace  il  reato  di
lesioni lievissime nel concorso della circostanza aggravante prevista
dall'art. 585 cod. pen. per essere i fatti commessi  contro  uno  dei
soggetti elencati dall'art. 577, secondo comma, cod. pen. 
    L'intervento normativo del 2013 era quindi diretto a  elevare  il
livello di repressione della violenza domestica con la previsione  di
una serie di misure di  contrasto  e,  in  particolare,  quanto  alle
lesioni lievissime di cui all'art. 582, secondo comma, cod. pen., con
il  trasferimento  della  competenza  al  tribunale  ordinario  cosi'
escludendo la preclusione all'adozione di misure personali cautelari,
quale l'allontanamento dalla casa familiare, nonche'  il  complessivo
regime di favore di cui al Titolo II del  d.lgs.  n.  274  del  2000,
quanto alle sanzioni applicabili dal giudice di pace. 
    Chiara e' la ratio della nuova normativa, come emerge dai  lavori
parlamentari, nel corso dei quali si e' posto in rilievo che  non  di
rado  le  condotte  di  lesioni,  anche   lievissime,   costituiscono
comportamenti cosiddetti "spia", con cui, cioe', si manifestano fatti
di prevaricazione e violenza che, spesso, sfociano  in  condotte  ben
piu' gravi e connotate da  abitualita':  comportamenti  in  danno  di
«prossimi congiunti» (come prevede l'art. 282-bis, comma 6, citato) e
quindi - si sarebbe portati a credere - in danno, in particolare, sia
del figlio naturale che del figlio adottivo. 
    Invece, il legislatore del 2013, nel modificare il  catalogo  dei
reati attribuiti alla competenza del giudice onorario, e' intervenuto
sull'art. 4 del d.lgs. n. 274 del 2000, escludendo la  competenza  in
relazione al reato di  lesioni  lievissime  commesso  «in  danno  dei
soggetti elencati dall'art. 577, secondo comma»  cod.  pen.,  talche'
testualmente (e inspiegabilmente) e'  rimasto  escluso  il  reato  di
lesioni commesso in danno dei soggetti di cui al numero 1) del  primo
comma dell'art. 577, tra cui appunto il figlio naturale. 
    5.3.- In sintesi, il regime differenziato, censurato dal  giudice
rimettente, e' conseguenza del diverso  utilizzo  della  tecnica  del
"richiamo" dell'art. 577 cod. pen. a opera rispettivamente  dell'art.
582, secondo comma, cod. pen., e dell'art. 4, comma  1,  lettera  a),
del d.lgs. n. 274 del 2000. 
    Per la prima disposizione (art. 582, secondo comma)  il  richiamo
vale a identificare  una  fattispecie  di  lesioni  aggravate,  anche
lievissime (e perseguibili comunque a  querela),  che  sono  tali  se
ricorrono i presupposti sia del numero 1) del primo  comma,  sia  del
secondo comma dell'art. 577:  ovvero  se  i  fatti  di  lesione  sono
commessi in danno di qualsivoglia soggetto previsto dall'art.  577  e
quindi, in particolare, tanto in danno del figlio  naturale  che  del
figlio  adottivo,  dovendo  intendersi  per  tale  quello  che  abbia
acquisito siffatto stato  in  virtu',  in  particolare,  di  adozione
legittimante. Infatti, la giurisprudenza di  legittimita'  (Corte  di
cassazione, sezione prima penale, sentenza 26  settembre  2017  -  1°
marzo 2018, n. 9427), con riguardo al reato di  omicidio  volontario,
che vede come rilevante la distinzione tra  «discendente»  e  «figlio
adottivo», ha ritenuto che nella nozione di «discendente» di  cui  al
numero  1)  del  primo  comma  dell'art.  577  cod.  pen.  rilevi  la
filiazione biologica, sicche' la nozione di «figlio adottivo» di  cui
al secondo comma dell'art. 577, pur essendo la  disposizione  rimasta
nella formulazione originaria del 1930,  e'  da  intendersi  riferita
anche all'adozione quale regolamentata dalla disciplina successiva al
codice  civile  del  1942  e  quindi,  in   particolare,   a   quella
legittimante, di cui alla legge 4 maggio 1983, n.  184  (Diritto  del
minore ad una famiglia). 
    Per la seconda disposizione (art. 4, comma 1, lettera a), invece,
il richiamo e' differenziato: le  lesioni  lievissime  in  danno  dei
soggetti di cui  al  numero  1)  dell'art.  577  sono  rimaste  nella
competenza del giudice di pace, mentre quelle in danno  dei  soggetti
di  cui  al  secondo  comma  della  stessa  disposizione  sono  state
trasferite  alla  competenza  del  tribunale  ordinario  per   meglio
contrastare questi episodi delittuosi. 
    Da  cio'  risulta  la  regola  di  competenza  differenziata,  in
particolare, quanto alle  lesioni  lievissime  in  danno  del  figlio
naturale ovvero del figlio adottivo. 
    6.- Fatta questa premessa ricostruttiva del quadro  normativo  di
riferimento, nel merito la questione e' fondata con riguardo all'art.
3, primo comma, Cost., sotto un duplice profilo. 
    Da una parte, e' violato il principio di eguaglianza non  essendo
giustificato il diverso trattamento processuale riservato al reato di
lesioni volontarie secondo che il fatto sia commesso  rispettivamente
in danno del figlio naturale o del figlio adottivo, stante lo  stesso
stato di figlio nell'uno e nell'altro  caso  e  quindi  il  carattere
discriminatorio della differenziazione. 
    D'altra parte, non si rinviene alcuna  ragione,  quale  che  sia,
della mancata  inclusione  anche  del  reato  di  lesioni  volontarie
commesso in danno  del  figlio  naturale  tra  quelli  che,  gia'  di
competenza del giudice di pace, sono stati trasferiti alla competenza
del tribunale ordinario per innalzare il livello di contrasto a  tali
episodi   di   violenza   domestica,   con   conseguente    manifesta
irragionevolezza della disciplina differenziata. 
    6.1.- Quanto al principio di eguaglianza, deve  considerarsi  che
sotto il profilo civilistico piena e' l'assimilazione  di  stato  tra
figlio naturale e figlio adottivo e, quanto  al  profilo  penalistico
sostanziale, lo stesso trattamento sanzionatorio ricorre per i  fatti
in danno del figlio naturale e del figlio  adottivo,  salvo  che  per
l'omicidio di cui si dira' oltre. 
    Gia' l'art. 27 della citata legge n. 184 del 1983 ha previsto che
per effetto dell'adozione l'adottato acquista lo stato di figlio nato
nel matrimonio degli adottanti,  dei  quali  assume  e  trasmette  il
cognome. Piu' recentemente, a  seguito  del  decreto  legislativo  28
dicembre 2013,  n.  154  (Revisione  delle  disposizioni  vigenti  in
materia di  filiazione,  a  norma  dell'articolo  2  della  legge  10
dicembre 2012, n. 219), la parificazione si e' completata. 
    L'art. 74 del codice civile,  novellato  dall'art.  1,  comma  1,
della legge 10 dicembre 2012, n.  219  (Disposizioni  in  materia  di
riconoscimento dei figli naturali), prevede che la  parentela  e'  il
vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia  nel
caso in cui la filiazione e' avvenuta all'interno del matrimonio, sia
nel caso in cui e' avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in  cui
il figlio e' adottivo, salvo nei casi di adozione di persone maggiori
di eta', di cui agli artt. 291 e seguenti cod. civ. 
    In termini ancora piu' netti  l'art.  315  cod.  civ.,  novellato
dall'art. 1, comma 7, della  medesima  legge  n.  219  del  2012,  ha
ridefinito la condizione della filiazione prevedendo in generale  che
tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico. 
    Come affermato da questa Corte nella sentenza n.  286  del  2016,
con tale revisione della disciplina della filiazione, «il legislatore
ha posto le basi per la completa equiparazione della disciplina dello
status di  figlio  legittimo,  figlio  naturale  e  figlio  adottato,
riconoscendo l'unicita' dello status di figlio». 
    D'altra  parte,  nella  materia  penale  parimenti  si  riscontra
un'analoga equiparazione tra figlio naturale e figlio adottivo. 
    Innanzi tutto, gia' il  reato  di  lesioni  volontarie  e',  allo
stesso modo e nella stessa misura, aggravato se il fatto e'  commesso
sia in danno del figlio naturale sia in danno  del  figlio  adottivo.
Infatti, l'art. 585 cod. pen. stabilisce che  la  pena  e'  aumentata
fino a un terzo  se  concorre  alcuna  delle  circostanze  aggravanti
previste dall'art.  577  cod.  pen.;  disposizione  quest'ultima  che
prevede sia il fatto in danno del figlio naturale (al  numero  1  del
primo comma), sia il fatto in  danno  del  figlio  adottivo  (secondo
comma). 
    Analoga equiparazione ricorre con riferimento ad altri reati. 
    L'art. 602-ter cod. pen., quanto alle circostanze aggravanti  dei
reati di prostituzione minorile e di  pornografia  minorile,  nonche'
dei reati di cui agli artt. 600, 601 e 602  cod.  pen.,  prevede  che
opera nella stessa misura l'aggravante se il fatto e' commesso da  un
ascendente o dal genitore adottivo. 
    Parimenti,  in   materia   di   violenza   sessuale   costituisce
circostanza  aggravante  il  fatto  commesso  dal   genitore   «anche
adottivo» (artt. 609-ter e 609-quater cod. pen.); e cosi'  anche  nel
caso di reato di corruzione di  minorenne  (art.  609-quinquies  cod.
pen.). 
    Assume,  quindi,  carattere  discriminatorio  la  diversa  regola
processuale di competenza, in esame, prevista per il figlio  naturale
rispetto a  quella  stabilita  per  il  figlio  adottivo  talche'  e'
violato, in via generale, il principio di eguaglianza, avendo essi lo
stesso stato giuridico, cosi' come e' indubitabile che sia per  figli
di genere diverso. 
    6.2.- Ma viene in rilievo anche il principio di ragionevolezza. 
    Vero e' che,  secondo  la  giurisprudenza  di  questa  Corte  (ex
multis, sentenze n. 65 del 2014 e n. 216 del 2013;  ordinanze  n.  48
del 2014 e n.  190  del  2013),  nella  disciplina  del  processo  in
generale,  e  segnatamente  nel  processo   penale,   ampia   e'   la
discrezionalita' del  legislatore,  con  il  solo  limite  della  non
manifesta irragionevolezza delle scelte compiute. 
    Si e' affermato, in particolare, che non  e'  compito  di  questa
«Corte procedere ad aggiustamenti delle norme  processuali  per  mere
esigenze di coerenza sistematica  e  simmetria,  in  ossequio  ad  un
astratto principio di razionalita' del sistema normativo»; senza  che
nel caso di specie siano pero'  rilevabili  «lesioni  di  principi  o
regole contenuti nella Costituzione o di  diritti  costituzionalmente
tutelati» (sentenza n. 182 del 2007).  Parimenti,  questa  Corte,  in
relazione alla disciplina della competenza per materia del giudice di
pace, ha piu'  volte  affermato  (soprattutto  con  riferimento  alla
competenza per connessione) che essa  appartiene,  nei  limiti  della
ragionevolezza, alla  discrezionalita'  del  legislatore,  e  che  il
discrimine posto in relazione alla competenza del  giudice  superiore
rinviene la propria ratio giustificatrice nelle peculiarita'  proprie
del rito innanzi al giudice di  pace,  caratterizzato  da  tratti  di
semplificazione e snellezza che ne esaltano la funzione conciliativa,
nonche' nella natura delle fattispecie criminose di ridotta gravita',
devolute alla competenza del giudice di  pace  (sentenza  n.  64  del
2009; ordinanza n. 56 del 2010). 
    Non di meno puo' ricorrere la irragionevolezza, quale  intrinseco
difetto di coerenza, anche con riferimento a scelte delle  regole  di
rito, come e' in particolare la regola  di  competenza  per  i  reati
attributi alla cognizione del giudice di pace, in deroga a quella del
tribunale ordinario. 
    Questa Corte, nel dichiarare l'illegittimita'  costituzionale  di
una disposizione che prevedeva la facolta' del querelante di  opporsi
alla definizione del procedimento con l'emissione di  decreto  penale
di condanna, ha affermato che «[l]a censurata facolta' si pone  [...]
in violazione  del  canone  di  ragionevolezza  e  del  principio  di
ragionevole durata del processo, costituendo un  bilanciamento  degli
interessi in gioco non giustificabile neppure  alla  luce  dell'ampia
discrezionalita'  che  la   giurisprudenza   di   questa   Corte   ha
riconosciuto  al  legislatore  nella  conformazione  degli   istituti
processuali» (sentenza n. 23 del 2015). 
    Lo scrutinio di non manifesta irragionevolezza, in questi ambiti,
impone, infatti, alla  Corte  costituzionale  di  verificare  che  il
bilanciamento degli interessi costituzionalmente  rilevanti  non  sia
stato realizzato con modalita' tali da determinare il sacrificio o la
compressione  di  uno  di  essi  in  misura  eccessiva   e   pertanto
incompatibile con  il  dettato  costituzionale.  Tale  giudizio  deve
svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalita' dei
mezzi   prescelti   dal   legislatore   nella    sua    insindacabile
discrezionalita' rispetto alle esigenze  obiettive  da  soddisfare  o
alle finalita' che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze
e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130  del
1988). Il rispetto del canone di ragionevolezza «richiede di valutare
se la norma oggetto di scrutinio, con la misura  e  le  modalita'  di
applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al  conseguimento  di
obiettivi legittimamente  perseguiti,  in  quanto,  tra  piu'  misure
appropriate,  prescriva  quella  meno  restrittiva  dei   diritti   a
confronto  e  stabilisca  oneri  non   sproporzionati   rispetto   al
perseguimento di detti obiettivi» (sentenza n. 1 del 2014). 
    6.3.- Sotto questo profilo, deve considerarsi che un  trattamento
differenziato   tra   figlio   naturale   e   figlio   adottivo   e',
eccezionalmente, previsto dalla  disposizione  richiamata  da  quella
censurata con riferimento al reato di omicidio volontario. 
    Infatti,  si  ha  che   l'art.   577   cod.   pen.,   richiamato,
limitatamente al secondo comma, appunto dall'art. 4, comma 1, lettera
a), del d.lgs. n. 274 del 2000, reca tale differenziazione al primo e
secondo   comma   nel   disciplinare   le   circostanze    aggravanti
dell'omicidio volontario. 
    Nel  sistema  rimane,  discutibilmente,  ancor  oggi  piu'  grave
l'omicidio del figlio naturale rispetto a quello del figlio  adottivo
(sentenza della Corte di cassazione n.  9427  del  2018  citata).  Il
diverso  regime  dell'aggravante  si  fonda  sul  presupposto   della
"consanguineita'", risultante - in via eccezionale, quale precipitato
di concezioni antiche - dalla contrapposizione  tra  «discendente»  e
«figlio adottivo». 
    A  fronte  di  cio',  la  disposizione   censurata   attribuisce,
all'opposto, un minor disvalore alla condotta di  lesioni  lievissime
in danno del figlio naturale rispetto alla stessa condotta  in  danno
del figlio adottivo, cosi'  rivelando  una  marcata  connotazione  di
irragionevolezza. 
    Non  si  rinviene,  infatti,  nei  lavori  parlamentari  e  nella
complessiva lettura della  legge  n.  119  del  2013,  unitamente  al
convertito  decreto-legge,   alcuna   specifica   ragione   di   tale
trattamento differenziato, che  anzi  risulta  antitetico  (e  quindi
contraddittorio) rispetto  alla  evidenziata  ratio,  eccezionalmente
sottesa all'art.  577  cod.  pen.,  ossia  il  diverso  regime  delle
aggravanti dell'omicidio volontario se commesso in danno  del  figlio
naturale o del figlio adottivo. 
    In mancanza di alcuna opposta plausibile ratio,  si  ha  che  del
tutto ingiustificatamente la disposizione  censurata  replica,  anche
con  riferimento  alle  lesioni  lievissime,   la   distinzione   tra
«discendente» e «figlio adottivo» quanto a  una  regola  processuale,
quale e' quella in esame, attributiva della  competenza.  Conservando
nella fattispecie la competenza del  giudice  di  pace  in  luogo  di
prevedere quella del tribunale ordinario, la  disposizione  censurata
non ha elevato il livello di contrasto nei  confronti  delle  lesioni
lievissime in danno del figlio naturale, cosi' come ha  invece  fatto
per quelle in danno del figlio adottivo. 
    Da cio' emerge la manifesta irragionevolezza  della  disposizione
censurata  che,  invertendo  l'apprezzamento   di   disvalore   delle
condotte, ancor oggi perdurante nel sistema, utilizza non di meno  il
richiamo proprio dell'art. 577, cui  e'  sottesa  una  ratio  opposta
della differenziazione tra «discendente» e «figlio adottivo». 
    Quindi, il trattamento differenziato riservato al figlio naturale
rispetto a quello del figlio adottivo viola  anche  il  principio  di
ragionevolezza (art. 3 Cost.). 
    7.- Una volta ritenuta da una parte la violazione  del  principio
di eguaglianza e, dall'altra,  la  manifesta  irragionevolezza  della
differenziazione  della  regola  di  competenza,   la   reductio   ad
legitimitatem  e'  univocamente  orientata  dal   verso   complessivo
dell'intervento del legislatore del 2013,  che  ha  voluto  reprimere
piu' efficacemente  la  violenza  domestica;  sicche'  a  violare  il
parametro dell'art. 3, primo comma, Cost. e'  la  mancata  inclusione
del reato di  lesioni  volontarie  lievissime  in  danno  del  figlio
naturale  nell'elenco  dei  reati,  oggetto  di  un   piu'   energico
contrasto, che il censurato art. 4, comma 1, lettera a), del d.  lgs.
n. 274 del 2000 eccettua dalla competenza del giudice di pace,  ossia
nell'elenco  dei  reati,  di  minore  allarme  sociale,  che  -  come
eccezione alla regola della  competenza  del  tribunale  ordinario  -
radicano invece la competenza del giudice di pace. 
    La parificazione di disciplina non  puo'  realizzarsi  altrimenti
che "in alto", ossia estendendo - secondo peraltro quello che  e'  il
petitum dell'ordinanza di rimessione - la stessa regola di competenza
alla fattispecie delle lesioni lievissime commesse  dal  genitore  in
danno del  figlio  naturale,  e  cosi'  rendendo  inoperante  -  come
nell'ipotesi di lesioni lievissime in danno del figlio adottivo -  la
deroga alla competenza del tribunale ordinario, in linea con il  piu'
elevato  livello  di  contrasto  della  violenza  domestica,  con  la
conseguente  possibilita',  in  particolare,  per   il   giudice   di
applicare, nell'uno e nell'altro caso, la misura cautelare  personale
dell'allontanamento dalla casa familiare  (art.  282-bis  cod.  proc.
pen.), adottabile anche in via d'urgenza  (art.  384-bis  cod.  proc.
pen.). 
    8.- A questa parificazione "in alto" - ossia nella competenza del
tribunale ordinario  -  non  e'  di  ostacolo  l'irrigidimento  della
disciplina   sostanziale,   conseguente   alla    dichiarazione    di
illegittimita' costituzionale della norma censurata, nella misura  in
cui, ripristinata la parita' quanto alla regola di competenza, si  ha
anche che non  trovano  applicazione  le  disposizioni  speciali  del
Titolo II del d.lgs. n. 274 del 2000 quanto alle sanzioni applicabili
dal giudice di pace, quale trattamento piu' favorevole  in  deroga  a
quello ordinario. 
    Per effetto della dichiarazione di illegittimita'  costituzionale
della regola sulla competenza, il regime sostanziale delle pene per i
fatti di lesioni lievissime commesse dal genitore in danno del figlio
naturale risulta essere quello ordinario, come tale  piu'  rigido  di
quello derogatorio in bonam partem, applicabile allorche' operava  la
competenza del giudice di pace. 
    La giurisprudenza di questa Corte,  ribadita  anche  recentemente
(sentenza n. 143  del  2018),  ammette,  in  particolari  situazioni,
interventi con possibili effetti in malam partem  in  materia  penale
(sentenze n. 32 e n. 5 del 2014, n. 28 del 2010, n.  394  del  2006),
pur   precisando   che   «[r]esta   impregiudicata   ogni   ulteriore
considerazione [...] circa l'ampiezza e i limiti» di tali interventi. 
    Il principio della riserva di legge in materia penale «rimette al
legislatore [...] la scelta dei fatti da sottoporre a  pena  e  delle
sanzioni da applicare» (sentenza  n.  5  del  2014),  «ma  non  [...]
preclude decisioni ablative  di  norme  che  sottraggono  determinati
gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una  norma
comune o comunque piu' generale, accordando loro un trattamento  piu'
benevolo» (sentenza n. 394 del 2006). In tal caso - ha  precisato  la
Corte in quest'ultima pronuncia -  «l'effetto  in  malam  partem  non
discende dall'introduzione di nuove norme o  dalla  manipolazione  di
norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a  rimuovere
la disposizione giudicata lesiva dei parametri  costituzionali;  esso
rappresenta, invece,  una  conseguenza  dell'automatica  riespansione
della norma generale o comune, dettata dallo stesso  legislatore,  al
caso gia' oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria». 
    A maggior ragione l'effetto in malam  partem  per  l'imputato  (o
indagato) derivante dall'eliminazione di una previsione  a  carattere
derogatorio di una disciplina generale,  deve  ritenersi  ammissibile
allorche' si configuri come  una  mera  conseguenza  indiretta  della
reductio ad legitimitatem di una norma processuale. 
    Rimane pero' che, per i  fatti  commessi  fino  al  giorno  della
pubblicazione della presente decisione sulla Gazzetta Ufficiale opera
il principio - direttamente  fondato  sull'art.  25,  secondo  comma,
Cost. e che prevale sull'ordinaria efficacia ex tunc della  decisione
di questa Corte ai sensi dell'art. 136 Cost. e  dell'art.  30,  terzo
comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla  costituzione  e
sul  funzionamento  della   Corte   costituzionale)   -   della   non
retroattivita'  della  disciplina  sostanziale  che  risulti   essere
peggiorativa  per  effetto  di  una   pronuncia   di   illegittimita'
costituzionale, talche' innanzi  al  tribunale  ordinario  competente
anche per il reato  di  lesioni  lievissime,  di  cui  all'art.  582,
secondo comma, cod. pen., in danno del figlio naturale, l'imputato (o
indagato)  sara'  soggetto  all'applicazione  della  piu'  favorevole
disciplina delle sanzioni di cui al Titolo II del d.lgs. n.  274  del
2000, non diversamente da quanto accade  nell'ipotesi  del  tribunale
ordinario che si trovi a giudicare di  un  reato  di  competenza  del
giudice di pace (art. 63 del medesimo decreto legislativo). 
    Vi e' comunque anche, allo stato attuale della giurisprudenza  di
legittimita', un effetto in bonam partem - questo invece di immediata
operativita', consistente, ove ricorra un  fatto  di  lieve  entita',
nell'applicazione della causa di non  punibilita'  dell'art.  131-bis
cod. pen., piuttosto che  della  causa  di  improcedibilita'  di  cui
all'art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000. 
    9.- Va, quindi, dichiarata l'illegittimita' costituzionale  della
disposizione censurata  per  violazione  dell'art.  3,  primo  comma,
Cost., assorbita l'ulteriore censura mossa dal giudice rimettente con
riferimento all'art. 24 Cost., nella parte in cui non prevede,  nella
fattispecie finora esaminata, la competenza del tribunale ordinario. 
    Piu' specificamente, l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4,
comma 1, lettera a), che  -  come  gia'  ricordato  -  include  nella
eccezione alla competenza del giudice di pace il delitto  di  lesioni
volontarie di cui all'art. 582, secondo comma, cod. pen.,  per  fatti
commessi in danno dei soggetti elencati nel secondo  comma  dell'art.
577 cod.  pen.,  comporta  la  necessaria  estensione,  nel  richiamo
operato dalla disposizione censurata, anche ai  fatti  in  danno  dei
soggetti di cui  al  numero  1)  dell'art.  577,  nella  formulazione
vigente al momento dell'ordinanza di rimessione, ossia  ai  fatti  in
danno, in generale, degli ascendenti e dei discendenti,  non  potendo
isolarsi la sola ipotesi del genitore naturale e del figlio naturale,
atteso che le lesioni, ancorche' lievissime,  sono  sempre  aggravate
(ex art. 585 cod. pen. che  richiama  l'art.  577  cod.  pen.),  allo
stesso modo e  nella  stessa  misura,  in  ragione  del  rapporto  di
ascendenza e discendenza e non  gia'  soltanto  di  genitorialita'  e
filiazione. 
    Pertanto,    la    disposizione    censurata    va     dichiarata
costituzionalmente illegittima nella parte in  cui  non  esclude  dai
delitti, consumati o tentati, di competenza del giudice di pace anche
quello di lesioni  volontarie  lievissime,  previsto  dall'art.  582,
secondo comma, cod. pen., per fatti commessi contro l'ascendente o il
discendente di cui al numero 1) del primo comma  dell'art.  577  cod.
pen. 
    10.- Infine, la Corte non puo' non tener conto del  fatto  che  -
essendo di natura formale e non gia' materiale  il  richiamo  che  la
disposizione censurata fa all'art. 577, secondo comma, cod. pen. - la
fattispecie illegittimamente esclusa  dal  richiamo  contenuto  nella
disposizione censurata si e' ampliata recentemente con la previsione,
ad opera dell'art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 4 del 2018,
di altre ipotesi incluse nel numero 1) del primo comma dell'art. 577:
il coniuge, anche  legalmente  separato,  l'altra  parte  dell'unione
civile o la persona legata al colpevole da relazione affettiva e  con
esso stabilmente convivente. La stessa disposizione, alla lettera b),
ha considerato distintamente il fatto commesso in danno  del  coniuge
divorziato o dell'altra parte dell'unione civile, ove cessata. 
    L'intento del legislatore del 2018 e' stato quello di contrastare
ulteriormente fatti  di  violenza  estrema  sfociati  in  episodi  di
omicidio  volontario,  soprattutto  di  donne,  e  ha  quindi  esteso
l'aggravante di cui all'art. 577 cod. pen. anche alle ipotesi in  cui
la vittima sia stata legata all'omicida da un rapporto coniugale,  di
unione civile o affettivo, pero' differenziando l'ipotesi del  numero
1) del primo comma di tale disposizione, che  all'aggravante  collega
la pena  dell'ergastolo,  da  quella  del  secondo  comma,  che,  pur
aggravando la pena rispetto a quella di cui all'art. 575  cod.  pen.,
la prevede nella reclusione da ventiquattro a trenta anni.  Ossia  il
legislatore, nella  sua  discrezionalita',  ha  ritenuto  piu'  grave
l'omicidio del coniuge, anche separato, rispetto a quello del coniuge
divorziato; e analogamente piu' grave quello della parte di un'unione
civile in corso rispetto a quello della  parte  di  un'unione  civile
cessata. 
    Questa novellazione delle aggravanti del  reato  di  omicidio  ha
avuto altresi' l'effetto di incidere indirettamente, in  ragione  del
meccanismo del rinvio formale contenuto nella disposizione censurata,
anche sulla regola di competenza in esame, quanto al reato di lesioni
lievissime ex art.  582,  secondo  comma,  cod.  pen.,  negli  stessi
termini  della  (sopra  esaminata)   differenziazione   tra   lesioni
volontarie lievissime in danno rispettivamente del figlio naturale  e
del figlio adottivo, cosi' replicando la  manifesta  irragionevolezza
della differenziazione stessa. 
    Infatti, da una parte si ha che, sotto  l'aspetto  sanzionatorio,
le lesioni volontarie lievissime sono aggravate nella  stessa  misura
(ex art. 577 cod. pen., richiamato dall'art.  585  senza  distinguere
tra primo e secondo comma) se commesse in danno del coniuge  o  della
parte di un'unione civile, a  prescindere  dall'eventuale  cessazione
degli effetti civili del matrimonio  o  dell'unione  civile,  sicche'
sono pienamente parificate le due situazioni: quelle  del  numero  1)
del primo comma e quelle del secondo comma dell'art.  577  cod.  pen.
Invece, sotto l'aspetto processuale  opera,  per  il  meccanismo  del
rinvio formale, la stessa differenziazione introdotta per  l'omicidio
volontario senza che sia identificabile alcuna  ratio  della  stessa,
che rimane oscura,  e  anzi  risulta  una  palese  contraddittorieta'
rispetto alla  ratio  -  questa  si'  ben  chiara  -  che  ispira  la
differenziazione  quanto  all'aggravamento  del  reato  di   omicidio
volontario. Altrimenti detto, mentre l'omicidio  del  coniuge,  anche
separato,  e'  considerato  piu'  grave  dell'omicidio  del   coniuge
divorziato, invece le lesioni  volontarie  lievissime  in  danno  del
primo vedono, all'opposto, un  contrasto  meno  energico  rispetto  a
quelle in danno del secondo, perche' la  competenza  del  giudice  di
pace  esclude  l'adozione  di  misure   cautelari   personali   quali
l'allontanamento dalla casa familiare a  tutela  del  coniuge,  anche
separato, che subisca tale violenza domestica. Analoga considerazione
vale per la parte  di  un'unione  civile  che  subisca  una  violenza
domestica in costanza dell'unione o dopo la cessazione della stessa. 
    Pertanto, la dichiarazione di illegittimita' costituzionale della
disposizione censurata nella parte in cui non richiama anche i  fatti
di lesioni volontarie lievissime in danno dei soggetti  indicati  nel
numero 1) dell'art. 577 non puo' essere limitata  soltanto  a  quelli
previsti da tale ultima disposizione nella  formulazione  vigente  al
momento  dell'ordinanza  di  rimessione,  ma  si  estende,   in   via
consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge  n.  87  del  1953,
anche  a  quelli  successivamente  inclusi,  con  la  tecnica   della
novellazione della disposizione oggetto di rinvio formale,  dall'art.
2, comma 1, lettera a), della legge n. 4 del 2018.