ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  96,  terzo
comma,  del  codice  di  procedura  civile,  promosso  dal  Tribunale
ordinario di Verona, nel procedimento vertente tra G. L. e  il  Banco
Popolare societa' cooperativa, con ordinanza  del  23  gennaio  2018,
iscritta al n. 181 del registro ordinanze  2018  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  51,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2018. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio dell'8  maggio  2019  il  Giudice
relatore Giovanni Amoroso. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 23 gennaio 2018, il Tribunale ordinario  di
Verona  ha  sollevato  questioni   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 96,  terzo  comma,  del  codice  di  procedura  civile  per
contrasto con gli artt. 23 e 25, secondo comma,  della  Costituzione,
nella parte in cui - stabilendo che «[i]n ogni caso, quando pronuncia
sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice,  anche  d'ufficio,
puo' altresi' condannare la parte soccombente al pagamento, a  favore
della controparte, di una somma equitativamente  determinata»  -  non
prevede l'entita' minima e quella massima della somma  oggetto  della
condanna. 
    Il  giudice,  premesso  di  dover  decidere  su  una  domanda  di
restituzione di somme percepite a titolo di interessi nel corso di un
rapporto di conto corrente bancario proposta da G. L.  nei  confronti
del Banco popolare societa' cooperativa, riferisce che «nel  caso  di
specie, data l'inconsistenza degli assunti attorei, viene in  rilievo
il disposto dell'art. 96, terzo comma,  codice  di  procedura  civile
introdotto dalla legge n. 69/2009». 
    Il Tribunale rimettente - ritenendo che il terzo comma  dell'art.
96 cod. proc. civ. debba essere letto  congiuntamente  al  primo  sul
risarcimento del danno in caso di temerarieta' della lite  -  ravvisa
la sussistenza di tale presupposto nella palese incompatibilita'  tra
la pretesa fatta valere con la  citazione  e  l'impegno  assunto  con
l'istituto bancario a mezzo del contratto scritto di conto  corrente.
In particolare -  riferisce  il  giudice  rimettente  -  l'attore  ha
lamentato  l'applicazione  di  interessi  passivi   ultralegali   non
pattuiti,  variati  unilateralmente  in  misura  superiore  al  tasso
soglia,  nonche'  l'utilizzo  del  criterio  della  capitalizzazione.
L'istituto  convenuto  ha  invece  dimostrato,  mediante   produzione
documentale, che le condizioni contestate  erano  state  pattuite  ed
erano conformi alla delibera del Comitato  Interministeriale  per  il
Credito e il Risparmio (CICR) che individua le modalita' e i  criteri
per la produzione di  interessi  nelle  operazioni  poste  in  essere
nell'esercizio dell'attivita' bancaria. 
    Ricorda, quindi,  che  la  natura  prevalentemente  sanzionatoria
dell'obbligazione pecuniaria prevista dalla disposizione censurata e'
stata riconosciuta da questa Corte nella sentenza n. 152 del  2016  e
che le sezioni unite della Corte di cassazione hanno, a  loro  volta,
riconosciuto, nella sentenza 5  luglio  2017,  n.  16601,  la  natura
polifunzionale  della  tutela  risarcitoria,  caratterizzata  da  una
finalita' non  esclusivamente  riparatoria,  ma  anche  sanzionatoria
(cosiddetti danni  punitivi).  In  tale  ultima  pronuncia  e'  stato
puntualizzato che «[o]gni imposizione di prestazione personale  esige
una "intermediazione legislativa", in  forza  del  principio  di  cui
all'art. 23 Cost., (correlato agli articoli 24 e 25),  che  pone  una
riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali  e  preclude
un incontrollato soggettivismo giudiziario». Pertanto, «deve  esservi
precisa    perimetrazione    della    fattispecie    (tipicita')    e
puntualizzazione dei limiti quantitativi  delle  condanne  irrogabili
(prevedibilita')». 
    Alla luce di tali affermazioni, il rimettente osserva che  mentre
le condotte che integrano la  responsabilita'  processuale  aggravata
(primo comma dell'art. 96 cod. proc. civ.) risultano sufficientemente
determinate, per contro, le conseguenze che gravano sul  soccombente,
ove il giudice faccia applicazione del terzo comma dell'art. 96  cod.
proc. civ., non sono preventivabili, atteso che la norma  non  indica
l'entita' minima e massima della somma  oggetto  della  condanna;  da
cio', la violazione dei parametri indicati, senza che  sia  possibile
un'interpretazione adeguatrice della norma censurata. 
    2.- Con atto depositato il 15 gennaio  2019,  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   le
questioni   di   legittimita'   costituzionale    siano    dichiarate
inammissibili o comunque manifestamente infondate. 
    In punto di ammissibilita', l'Avvocatura generale rileva  che  il
Tribunale non ha illustrato i motivi di contrasto della  disposizione
impugnata rispetto ai parametri costituzionali invocati. 
    Nel  merito,  sostiene  che  le  questioni  sarebbero  infondate.
Richiama la sentenza n. 152 del 2016 di  questa  Corte,  evidenziando
che la condanna di cui all'art. 96,  terzo  comma,  cod.  proc.  civ.
«"[...] e' testualmente (e sistematicamente), inoltre,  collegata  al
contenuto della "pronuncia sulle spese di cui all'art. 91"; e la  sua
adottabilita' "anche d'ufficio" la sottrae all'impulso di parte e  ne
conferma,  ulteriormente,  la  finalizzazione  alla  tutela   di   un
interesse che trascende (o non e', comunque,  esclusivamente)  quello
della  parte  stessa,  e  si  colora  di   connotati   innegabilmente
pubblicistici"». 
    Quanto ai criteri di quantificazione, l'Avvocatura osserva che la
disposizione riconosce al giudice un potere discrezionale, funzionale
alla definizione, caso per caso,  dell'entita'  della  somma  oggetto
della condanna. Richiama in particolare la giurisprudenza  (Corte  di
cassazione, sezione terza civile,  sentenza  13  settembre  2018,  n.
22272) sulla liquidazione equitativa del  danno  ai  sensi  dell'art.
1226 del codice civile. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 23 gennaio 2018, il Tribunale ordinario  di
Verona  ha  sollevato  questioni   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 96,  terzo  comma,  del  codice  di  procedura  civile  per
contrasto con gli artt. 23 e 25, secondo comma,  della  Costituzione,
nella parte in cui - stabilendo che «[i]n ogni caso, quando pronuncia
sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice,  anche  d'ufficio,
puo' altresi' condannare la parte soccombente al pagamento, a  favore
della controparte, di una somma equitativamente  determinata»  -  non
prevede l'entita' minima e quella massima della somma  oggetto  della
condanna. 
    Secondo il rimettente la disposizione  censurata,  assegnando  al
giudice un potere  ampiamente  discrezionale  senza  fissare  ne'  un
massimo  ne'  un  minimo  della  somma  al  cui  pagamento  la  parte
soccombente puo' essere condannata, violerebbe la  riserva  di  legge
prescritta dall'art. 23 Cost., nonche' il principio di  legalita'  di
cui all'art. 25, secondo comma, Cost. 
    2.- Va preliminarmente respinta l'eccezione  di  inammissibilita'
sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato. 
    Il Tribunale rimettente ha puntualmente descritto l'oggetto della
controversia e  ha  plausibilmente  ritenuto  che  l'azione  promossa
dall'attore avesse la connotazione  della  lite  temeraria  ai  sensi
dell'art. 96, primo comma, cod. proc. civ. 
    Su questo presupposto di fatto, il  Tribunale  ritiene  di  poter
fare  applicazione,  in  particolare,  del  terzo   comma   di   tale
disposizione che  prevede  che  il  giudice,  in  ogni  caso,  quando
pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91 cod.  proc.  civ.,  puo',
anche d'ufficio, condannare la  parte  soccombente  al  pagamento,  a
favore della controparte, di una somma  equitativamente  determinata,
oltre alle spese di lite. 
    Sussiste, quindi,  la  rilevanza  delle  sollevate  questioni  di
legittimita'  costituzionale,  avendo   il   Tribunale   puntualmente
motivato in ordine alla ritenuta  applicabilita'  della  disposizione
censurata e sufficientemente argomentato il dubbio di  non  manifesta
infondatezza delle questioni in ordine ai due invocati parametri. 
    Parimenti, con motivazione altrettanto plausibile, ha escluso  la
possibilita' di  un'interpretazione  adeguatrice  della  disposizione
censurata. 
    Sotto  ogni  profilo,  quindi,  le   questioni   sollevate   sono
ammissibili. 
    3.- E' invece inammissibile la questione  sollevata  dal  giudice
rimettente con riferimento al principio di legalita' di cui  all'art.
25, secondo comma, Cost., recante  la  piu'  stringente  prescrizione
della riserva di legge, che e' assoluta (sentenza n. 180  del  2018):
parametro questo impropriamente evocato perche' riguarda le  sanzioni
penali, nonche'  quelle  amministrative  «di  natura  sostanzialmente
punitiva» (sentenza n. 223 del 2018) e non gia' prestazioni personali
e patrimoniali imposte per legge, alle quali  fa  invece  riferimento
l'art. 23 Cost. 
    L'obbligazione  di  corrispondere   la   somma   prevista   dalla
disposizione  censurata,  pur  perseguendo  una  finalita'  punitiva,
costituendo  un   «peculiare   strumento   sanzionatorio»   con   una
«concorrente finalita' indennitaria» (sentenza n. 152 del 2016),  non
identifica una sanzione in senso stretto, espressione  di  un  potere
sanzionatorio. 
    Si tratta invece di un'attribuzione patrimoniale in favore  della
parte vittoriosa nella controversia civile e  a  carico  della  parte
soccombente; prestazione che, in quanto istituita per  legge,  ricade
nell'ambito dell'altro parametro evocato dal  rimettente,  l'art.  23
Cost., recante la prescrizione della riserva di legge,  che  e'  solo
relativa (sentenze n. 269 e n. 69 del 2017, e n. 83 del 2015). 
    4.- Passando al merito della questione sollevata con  riferimento
a tale ultimo parametro, va premesso il contesto normativo in cui  si
colloca la disposizione censurata e  che  concerne  il  regime  della
soccombenza della parte nella lite civile. 
    L'art. 91 cod. proc. civ. prevede in generale che il giudice, con
la sentenza che chiude il processo, condanni la parte soccombente  al
rimborso  delle  spese  a  favore  dell'altra  parte  e  ne   liquidi
l'ammontare insieme con gli onorari di difesa. 
    Se risulta che la parte  soccombente  ha  agito  o  resistito  in
giudizio con mala fede o colpa grave  -  aggiunge  l'art.  96,  primo
comma, cod. proc. civ. - il giudice, su istanza dell'altra parte,  la
condanna, oltre che  alle  spese,  al  risarcimento  dei  danni,  che
liquida, anche di ufficio, nella sentenza. 
    Per lungo tempo il regime della soccombenza si e' retto su questo
doppio binario: quello ordinario del rimborso delle spese di  lite  e
quello  aggravato  del  risarcimento  del  danno  in  caso  di   lite
temeraria. 
    Nel 2006, in occasione di un intervento riformatore del  giudizio
civile di cassazione, il legislatore aveva introdotto, per  la  prima
volta, una prescrizione  inedita  a  corredo  di  tale  regime  della
soccombenza. Infatti, l'art. 385 cod. proc. civ., nel disciplinare le
spese di lite con il richiamo dell'ordinario  regime  del  codice  di
rito, aveva previsto, al quarto  comma,  aggiunto  dall'art.  13  del
decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche  al  codice  di
procedura civile in materia di processo  di  cassazione  in  funzione
nomofilattica e di arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della
L. 14 maggio 2005, n. 80), che «[q]uando pronuncia sulle spese, anche
nelle ipotesi  di  cui  all'art.  375,  la  corte,  anche  d'ufficio,
condanna, altresi', la parte soccombente al pagamento, a favore della
controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore
al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha  proposto  il
ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa  grave»;  disposizione
questa che - «diretta a disincentivare  il  ricorso  per  cassazione»
(ordinanza n. 435 del 2008) -  era  destinata  ad  avere  vita  breve
perche' abrogata dall'art. 46, comma 20, della legge 18  giugno  2009
n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitivita' nonche' in materia di processo civile). 
    La misura suddetta si traduceva in una somma diretta a sanzionare
sia il ricorrente che, con colpa grave, avesse  proposto  il  ricorso
per cassazione, sia il resistente che  parimenti  versasse  in  colpa
grave nel resistere con controricorso; somma che era si'  determinata
secondo  un  criterio  equitativo,  ma  con  un  limite  ben  preciso
parametrato al doppio del massimo  delle  tariffe  professionali.  In
giurisprudenza (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 7
ottobre 2013, n. 22812) si e' qualificata tale somma come «una vera e
propria sanzione processuale dell'abuso del  processo  perpetrato  da
una delle due  parti»;  abuso  che,  nella  specie,  si  e'  ritenuto
sussistere,  ad   esempio,   nella   proposizione   di   un   ricorso
inammissibile perche' tardivo. Le  sezioni  unite  civili  (Corte  di
cassazione,  sentenza  4  febbraio  2009,  n.   2636)   hanno   fatto
applicazione di tale disposizione in un caso in cui  il  ricorso  era
inammissibile perche' la procura non era stata  rilasciata  in  epoca
anteriore  alla  notificazione  del  ricorso.  In   entrambi   questi
precedenti la  somma  aggiuntiva  e'  stata  determinata  secondo  un
criterio equitativo si', ma nel rispetto del limite massimo di legge. 
    5.- Come accennato, nel 2009 tale disposizione e' stata abrogata,
ma contestualmente una norma analoga, seppur non identica,  e'  stata
prevista nell'ordinaria disciplina delle spese  di  lite  riferita  a
tutti i giudizi e non piu' solo al giudizio di cassazione. 
    E' stato cosi' introdotto, dall'art. 45, comma 12, della legge n.
69 del 2009, il terzo comma dell'art. 96 cod. proc. civ. che  -  come
gia' ricordato - prevede che «[i]n ogni caso, quando pronuncia  sulle
spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice,  anche  d'ufficio,  puo'
altresi' condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della
controparte, di una somma equitativamente determinata». 
    La funzione di questa  somma  e'  rimasta  la  stessa  di  quella
prevista dal quarto comma dell'art. 385 cod. proc. civ.: una sanzione
per l'abuso del processo a opera della parte soccombente mediante  la
condanna di quest'ultima, anche d'ufficio, al pagamento di tale somma
in favore della  controparte,  oltre  al  (o  indipendentemente  dal)
risarcimento del danno per lite temeraria. 
    Pero', rispetto al quarto comma dell'art. 385 cod. proc. civ., il
terzo comma dell'art. 96 cod. proc. civ. presenta un duplice elemento
differenziale. 
    Da una  parte,  non  si  prevede  piu',  come  presupposto  della
condanna, la «colpa grave» della parte soccombente, perche' l'incipit
della disposizione censurata fa riferimento a «ogni caso»,  scilicet,
di responsabilita' aggravata che, come enunciato nella rubrica  della
disposizione, ne costituisce  l'oggetto,  sicche'  devono  intendersi
richiamati i presupposti del primo comma: aver la  parte  soccombente
agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave  (Corte  di
cassazione, sezioni unite civili, sentenza 20 aprile 2018, n. 9912). 
    D'altra parte, soprattutto rileva, al  fine  della  questione  in
esame, che il criterio di quantificazione della somma, oggetto  della
possibile condanna, e' rimasto  solo  equitativo,  non  essendo  piu'
previsto il limite del doppio dei massimi tariffari. 
    6.- Tale nuova disposizione (art. 96,  terzo  comma,  cod.  proc.
civ.) e' stata inizialmente riprodotta - in termini  analoghi,  anche
se non identici - nell'art. 26, secondo  comma,  dell'Allegato  1  al
decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104  (Attuazione  dell'articolo
44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al  governo  per
il riordino del processo amministrativo) che ha  parimenti  previsto,
nei giudizi innanzi al giudice amministrativo, la possibilita' per il
giudice, nel pronunciare sulle spese, di condannare, anche d'ufficio,
la parte soccombente al pagamento in favore dell'altra parte  di  una
somma di denaro equitativamente determinata, quando la  decisione  e'
fondata  su  ragioni  manifeste  o   orientamenti   giurisprudenziali
consolidati. Al pari dell'art. 96,  terzo  comma,  cod.  proc.  civ.,
anche l'art. 26 cod. proc. amm. prevedeva solo il criterio equitativo
per la quantificazione della  somma  suddetta  e,  inizialmente,  non
conteneva alcun limite, diversamente dal quarto comma  dell'art.  385
cod. proc. civ. 
    Cio' e' apparso al legislatore costituire  una  manchevolezza  da
emendare. E' quanto emerge chiaramente  dai  lavori  preparatori  del
disegno di legge 2486-A, di conversione in legge del decreto-legge 24
giugno 2014, n. 90  (Misure  urgenti  per  la  semplificazione  e  la
trasparenza  amministrativa   e   per   l'efficienza   degli   uffici
giudiziari), convertito, con modificazioni, in legge 11 agosto  2014,
n. 114. Nel parere  del  Comitato  per  la  legislazione  si  segnala
l'opportunita' di fissare criteri di quantificazione della  somma  in
questione. Si ha, allora, che l'art. 41 del  d.l.  n.  90  del  2014,
recante una disposizione di contrasto dell'abuso  del  processo,  nel
testo formulato in sede di conversione in legge, ha novellato  l'art.
26 cod. proc. amm., il cui secondo periodo  del  primo  comma,  nella
formulazione attualmente vigente,  prevede  che  «il  giudice,  anche
d'ufficio,  puo'  altresi'  condannare  la   parte   soccombente   al
pagamento, in favore della controparte, di una somma  equitativamente
determinata, comunque non superiore al doppio delle spese  liquidate,
in presenza di motivi manifestamente infondati». 
    Mette conto anche ricordare che l'art. 31 del decreto legislativo
26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia  contabile,  adottato  ai
sensi dell'articolo 20 della legge 7 agosto 2015,  n.  124),  recante
disposizioni per la regolazione delle spese processuali  nei  giudizi
innanzi alla Corte dei conti, contiene, al comma 4, una norma analoga
a quella censurata: il giudice, quando pronuncia  sulle  spese,  puo'
altresi' condannare la  parte  soccombente  al  pagamento  in  favore
dell'altra  parte,  o  se  del  caso  dello  Stato,  di   una   somma
equitativamente  determinata,  quando  la  decisione  e'  fondata  su
ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati. 
    Quanto al  processo  tributario,  l'art.  15,  comma  2-bis,  del
decreto legislativo  31  dicembre  1992,  n.  546  (Disposizioni  sul
processo tributario in attuazione della delega al  Governo  contenuta
nell'articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nel testo  da
ultimo sostituito dall'art. 9, comma 1, lettera f),  numero  2),  del
decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156, recante «Misure per la
revisione  della  disciplina  degli  interpelli  e  del   contenzioso
tributario, in attuazione degli articoli 6, comma 6, e 10,  comma  1,
lettere a) e b), della legge 11 marzo 2014, n. 23»,  prevede  che  si
applicano le disposizioni di cui all'art. 96, commi  primo  e  terzo,
cod. proc. civ. 
    Tutte queste disposizioni - che  integrano  la  disciplina  delle
spese   di   lite   in   sistemi   processuali   distinti    (civile,
amministrativo, contabile, tributario), ma ormai tra loro comunicanti
dopo l'introduzione della translatio iudicii (art. 59 della legge  n.
69 del 2009) -  seppur  declinate  con  alcune  varianti,  hanno  una
matrice comune: il contrasto dell'abuso del processo, sanzionato,  in
particolare, con la condanna della parte soccombente a  favore  della
parte  vittoriosa  di  una  somma  equitativamente  determinata   dal
giudice. 
    7.-  Questa  obbligazione,  che  si  affianca   al   regime   del
risarcimento del danno da lite  temeraria,  ha  natura  sanzionatoria
dell'abuso  del  processo,  commesso  dalla  parte  soccombente,  non
disgiunta  da  una  funzione  indennitaria  a  favore   della   parte
vittoriosa (sentenza n. 152 del 2016).  Cio'  perche'  l'attribuzione
patrimoniale - a differenza  di  varie  altre  norme  del  codice  di
procedura  civile  che  sanzionano  con  pene  pecuniarie  specifiche
ipotesi di abuso del processo, quali quelle  dell'inammissibilita'  o
rigetto della ricusazione del giudice (art.  54,  terzo  comma,  cod.
proc. civ.) e dell'arbitro (art. 815, quinto comma, cod. proc. civ.),
o   dell'istanza   di   sospensione   dell'efficacia   esecutiva    o
dell'esecuzione della sentenza impugnata (artt. 283, secondo comma, e
431,  quinto  comma,  cod.  proc.  civ.),  o   dell'inammissibilita',
improcedibilita' o rigetto dell'opposizione di terzo (art.  408  cod.
proc.  civ.)  -  e'  riconosciuta  proprio  in  favore  della   parte
vittoriosa, al di la' del danno risarcibile per lite temeraria, e non
gia' - come si sarebbe portati a ritenere -  in  favore  dell'Erario,
benche' sia anche  l'amministrazione  della  giustizia  a  subire  un
pregiudizio come disfunzione e intralcio al suo buon andamento. 
    Questa natura sanzionatoria della previsione  censurata  risulta,
in tal modo,  ibridata  da  una  funzione  indennitaria,  realizzando
complessivamente un assetto non irragionevole (sentenza  n.  152  del
2016). 
    8.-  Cio'  premesso,  la  questione  sollevata  con   riferimento
all'art. 23 Cost. non e' fondata. 
    9.- Va innanzi tutto  precisato  che  -  diversamente  da  quanto
sembra ritenere l'Avvocatura generale  -  l'equita',  alla  quale  fa
riferimento  la  disposizione  censurata,  non  e'  assimilabile   al
parametro di valutazione, previsto in  generale  dall'art.  1226  del
codice civile, come alternativo e  sussidiario  rispetto  ai  criteri
legali di quantificazione del danno risarcibile. Secondo tale  ultima
disposizione, se il danno non puo' essere  provato  nel  suo  preciso
ammontare, e' liquidato dal giudice con «valutazione equitativa».  Si
tratta  di  un  criterio  di  misurazione  di  qualcosa   (il   danno
contrattuale o aquiliano) che esiste nell'an, ma che  il  danneggiato
non riesce a provare come perdita subita e mancato  guadagno  secondo
il canone legale degli artt. 1223 e  2056  cod.  civ.  Puo'  supplire
allora un criterio di liquidazione alternativo e sussidiario di  tale
grandezza predata, quale oggetto di un'obbligazione civile che  trova
la  sua  fonte  nella  generale  disciplina   della   responsabilita'
contrattuale o extracontrattuale: la valutazione equitativa. Cio' che
peraltro puo' occorrere proprio in ipotesi di risarcimento del  danno
da lite temeraria, ai sensi del primo comma dell'art. 96  cod.  proc.
civ., che ben potrebbe essere determinato con valutazione  equitativa
del giudice ai sensi dell'art. 1226 cod. civ. 
    Ne', per la stessa ragione, la norma  censurata  e'  assimilabile
alla «valutazione equitativa delle prestazioni»  ai  sensi  dell'art.
432 cod. proc. civ.,  che  parimenti  presuppone  che  sia  certo  il
diritto, ma non sia possibile determinare la somma dovuta dalla parte
obbligata. Analoga puo' essere la valutazione equitativa del  giudice
nel caso di accoglimento dell'azione  di  classe  prevista  dall'art.
140-bis, comma 12, del decreto legislativo 6 settembre 2005,  n.  206
(Codice del consumo, a norma dell'articolo 7 della  legge  29  luglio
2003, n. 229). 
    Invece, il terzo comma dell'art. 96 cod. proc. civ,  disposizione
censurata, prevede che e' il giudice a determinare l'an e il  quantum
della prestazione patrimoniale imposta alla parte  soccombente,  gia'
obbligata  ex  lege  al  rimborso  delle  spese  processuali   e   al
risarcimento (integrale) del danno da lite temeraria. La  valutazione
equitativa del giudice non si limita  a  quantificare  una  grandezza
predata, ma da' vita a una nuova obbligazione avente  a  oggetto  una
prestazione patrimoniale ulteriore e distinta. 
    10.- Ne' tanto meno si tratta di una pronuncia "secondo equita'",
alternativa, in via derogatoria, alla  pronuncia  "secondo  diritto",
quale quella di cui all'art.  113  cod.  proc.  civ.,  ovvero  quella
richiesta dalle  parti  in  caso  di  diritti  disponibili  ai  sensi
dell'art. 114 cod. proc. civ. 
    In tal caso l'equita' viene in rilievo come  canone  di  giudizio
per la decisione della lite. E' questo,  in  generale,  il  parametro
valutativo che il giudice di pace e' chiamato  a  utilizzare  per  la
decisione di controversie di minor  valore;  parametro  che  peraltro
deve ritenersi necessariamente integrato  dai  «principi  informatori
della  materia»  (sentenza  n.  206  del  2004),  divenuti  «principi
regolatori della materia» (art. 339, terzo comma,  cod.  proc.  civ.)
dopo la gia' citata riforma processuale del 2006. 
    Anche la decisione degli arbitri puo' essere pronunciata  secondo
equita' (art. 822 cod. proc.  civ.),  mentre  le  regole  di  diritto
relative  al  merito   della   controversia   vengono   in   rilievo,
all'opposto,  solo  se  espressamente  previste  dalle   parti,   nel
compromesso o nella clausola compromissoria, o dalla legge (art. 829,
terzo comma, cod. proc. civ.). 
    Ma in tutte queste ipotesi l'equita' come canone di giudizio  non
da' luogo ad alcuna nuova prestazione  patrimoniale,  differentemente
dalla disposizione attualmente censurata. 
    Parimenti su un piano diverso operano le  misure  di  coercizione
indiretta, quale quella di cui all'art. 614-bis cod. proc. civ.,  che
prevede che il giudice fissa, su richiesta della parte, la  somma  di
denaro dovuta  dall'obbligato  per  ogni  violazione  o  inosservanza
successiva ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento,
dove peraltro rileva,  all'opposto,  un  criterio  di  non  manifesta
iniquita' della somma cosi' determinata. 
    In breve, nel terzo comma dell'art. 96 cod. proc.  civ.,  oggetto
della questione in esame, l'equita' - lungi dall'essere  criterio  di
misurazione di una grandezza predata  ovvero  parametro  di  giudizio
alternativo  alle  regole  di  diritto  o  astreinte  processuale   -
costituisce  criterio   integrativo   di   una   fattispecie   legale
consistente  -  com'e'  appunto  nella  norma  censurata  -  in   una
prestazione patrimoniale imposta in base alla legge. 
    Viene allora in rilievo la riserva (relativa)  di  legge  di  cui
all'art.  23  Cost.,  parametro  correttamente  evocato  dal  giudice
rimettente nel solco della gia' richiamata  pronuncia  delle  sezioni
unite della Corte di cassazione (Cassazione, sezioni unite civili,  5
luglio 2017, n.16601). 
    11.- Con riferimento a tale parametro va  ribadito  il  principio
secondo cui «[l]a riserva di legge, di carattere  relativo,  prevista
dall'art. 23 Cost. non consente di lasciare la  determinazione  della
prestazione imposta all'arbitrio dell'ente  impositore,  ma  solo  di
accordargli consistenti margini di regolazione delle fattispecie.  La
fonte primaria non puo' quindi limitarsi a prevedere una prescrizione
normativa   "in    bianco",    genericamente    orientata    ad    un
principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata,  dei
contenuti e modi dell'azione amministrativa  limitativa  della  sfera
generale  di  liberta'  dei  cittadini,  ma  deve  invece   stabilire
sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina,  idonei
a delimitare la discrezionalita' dell'ente impositore  nell'esercizio
del  potere  attribuitogli,  richiedendosi  in  particolare  che   la
concreta entita' della prestazione imposta sia desumibile chiaramente
dai pertinenti precetti legislativi» (sentenza n. 69 del 2017). 
    Il rispetto della riserva di legge, seppur  relativa,  prescritta
dall'art.  23  Cost.  richiede  che  la  fonte  primaria   stabilisca
sufficienti  criteri  direttivi  e  linee  generali  di   disciplina,
richiedendosi  in  particolare  che   la   concreta   entita'   della
prestazione imposta sia desumibile chiaramente dalla legge  (sentenze
n. 83 del 2015 e n. 115 del 2011). 
    Numerose sono le pronunce  di  illegittimita'  costituzionale  di
prestazioni imposte senza una sufficiente determinazione dei  criteri
per la loro quantificazione (ex plurimis, sentenze n. 174  del  2017,
n. 83 del 2015, n. 33, n. 32 e n. 22 del 2012). 
    Si  tratta   pero'   di   fattispecie   di   prestazioni   varie,
essenzialmente di natura tributaria, la cui quantificazione era stata
rimessa all'autorita' amministrativa. 
    Invece, l'art. 96,  terzo  comma,  cod.  proc.  civ.  assegna  al
giudice,  nell'esercizio  della  sua  funzione  giurisdizionale,   il
compito di quantificare la  somma  da  porre  a  carico  della  parte
soccombente e a favore  della  parte  vittoriosa  sulla  base  di  un
criterio   equitativo.   Il   legislatore,   esercitando    la    sua
discrezionalita'  particolarmente  ampia  nella  conformazione  degli
istituti processuali (ex plurimis, sentenza  n.  225  del  2018),  ha
fatto affidamento sulla giurisprudenza che, nell'attivita'  maieutica
di  formazione  del  diritto  vivente,  soprattutto  della  Corte  di
cassazione (sentenza n. 102 del 2019), puo' specificare - cosi'  come
ha gia' fatto - il precetto legale. 
    Si ha, infatti,  che  nella  fattispecie,  la  giurisprudenza  di
legittimita', anche recente, ha,  appunto,  precisato  che  il  terzo
comma dell'art. 96 cod. proc. civ., rinviando  all'equita',  richiama
il criterio di proporzionalita' secondo le tariffe forensi  e  quindi
la somma da tale disposizione prevista va rapportata «alla misura dei
compensi liquidabili in relazione al valore della  causa»  (Corte  di
cassazione, sezione terza civile, ordinanze 11 ottobre 2018, n. 25177
e n. 25176). 
    Questo   criterio,   ricavato   in   via   interpretativa   dalla
giurisprudenza, e' peraltro coerente e omogeneo rispetto sia a quello
originariamente previsto dal quarto comma dell'art.  385  cod.  proc.
civ. (che contemplava il limite del doppio  dei  massimi  tariffari),
sia a quello attualmente stabilito dal primo comma dell'art. 26  cod.
proc. amm. (che similmente prevede il limite del doppio  delle  spese
di lite liquidate secondo le tariffe professionali). 
    Puo' dirsi, pertanto, che la somma al cui  pagamento  il  giudice
puo' condannare la parte soccombente in favore della parte vittoriosa
ha  sufficiente  base  legale  e   quindi   -   ferma   restando   la
discrezionalita' del legislatore di calibrare meglio, in aumento o in
diminuzione, la sua  quantificazione  -  e'  comunque  rispettata  la
prescrizione della riserva relativa di legge di cui all'art. 23 Cost.